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La Welwitschia ha due grandi foglie dall'aspetto di cuoio che crescono da un gambo massiccio, lunghe fino a tre metri: queste foglie, crescendo, vengono sfrangiate e si dividono per effetto del vento e della sabbia del deserto, assumendo un aspetto contorto di molte foglie...un esemplare visibile è nei pressi di Swakopmund: il suo diametro è di 6 metri!
La Welwitschia presenta esemplari maschi e femmine, che occupano una valle (che da loro prende il nome) solitaria e quasi aliena, un panorama cui si ispirano i fanta naturalisti immaginando la vita su altri pianeti.
Ma il dato più impressionante della Welwitschia è l'età: l'esemplare più vecchio conta oltre 2000 anni, ed è un po' sconvolgente trovarsi di fronte ad un essere vivente che era già esperto del mondo e della vita quando Cesare gettava a fiume i suoi famosi dadi...
Il nome "Welwitschia" deriva da Friedrich Welwitsch, il botanico austriaco che per primo ne documentò l'esistenza presso la comunità scientifica europea.
L'aggettivo mirabilis si riferisce alla forma insolita della pianta.
In lingua afrikaans viene chiamata tweeblaarkanniedood, che significa "due foglie non possono morire".
La Welwitschia Mirabilis infatti gode di una grande longevità, ma la vera originalità è che la pianta è costituita soltanto da due enormi foglie, lunghe e coriacee, che crescono ai lati del fusto.
Col passare del tempo le due foglie scuriscono e si sfilacciano sotto l'azione degli agenti atmosferici dando origine ad un ammasso vegetale simile ad en enorme lattuga.
Si crede che le più grandi, i cui ammassi aggrovigliati di foglie raggiungono anche i 2 metri di diametro, abbiano addirittura 2000 anni. Sono piante dioiche, ovvero si dividono in individui maschili e femminili ben distinti.
Le femmine producono pigne, di un colore che va dal giallo-verdastro al marrone, le quali contengono i semi. Anche i maschi hanno pigne, ma le loro sono più numerose, più piccole e color salmone.
Il metodo di impollinazione è tuttora poco chiaro, però si pensa che i grandi e appiccicosi grani del polline vengono trasportati dagli insetti, in particolare dalle vespe.
Il medico e botanico austriaco Friedrich Welwitsch scoprì questa pianta nel 1859 nei pressi di Cabo Negro in Angola e la descrisse in una lettera del 16 agosto 1860, indirizzata a William Jackson Hooker, il direttore dei Royal Botanic Gardens di Kew, a Londra. Nel 1862 Welwitsch inviò un esemplare della pianta a Joseph Dalton Hooker, di Kew, il quale ne pubblicò una descrizione scientifica nel 1863 e assegnò il nome in onore dello scopritore, sostituendo il precedente nome di Tumboa con il quale gli era stata inviata.
Hooker commentò che la Welwitschia "era la più straordinaria pianta mai introdotta nel suo Paese, e una delle più brutte" ("It is out of the question the most wonderful plant ever brought to this country, and one of the ugliest").
In Angola la pianta è chiamata N'Tumbo, che significa "ceppo". I Nama la chiamano Kharos o Khurub, i Damara Nyanka; per gli Herero è Onyanga, cioè la "cipolla del deserto", perché il suo midollo veniva mangiato sia crudo che cotto nella cenere.
La Welwitschia è una pianta dalle caratteristiche estremamente peculiari, tanto che Charles Darwin la definì "l'ornitorinco del regno vegetale". Presenta una radice a fittone molto profonda che si espande in orizzontale e due foglie dall'aspetto unico, lunghe fino a cinque metri e adagiate sul terreno, pelose, con un meristema basale che compensa l'erosione della parte distale, (in altre parole: le foglie sono nastri che crescono continuamente dalla base, mentre la estremità finale progressivamente si inaridisce e muore).
L'aspetto generale della pianta è quindi quello di una grande matassa di nastri verdi, larghi fino a quasi mezzo metro e lunghi cinque, attorcigliati e deposti sul suolo, con le parti finali che progressivamente muoiono, si sfilacciano, e diventano di colore marrone. Il tronco, piuttosto grande (in diametro) è cortissimo, e coperto dalle foglie.
Per questi aspetti, e soprattutto per la presenza di un vero tronco e di tessuti legnosi, la pianta non è da considerarsi una grande erba, ma si tratta invece di un vero albero, che risulterebbe addirittura correlabile alle conifere; tale relazione sarebbe basata sul fatto che sia la pianta maschio che la pianta femmina, (la specie è dioica), producono una infiorescenza simile ad una pigna.
La sopravvivenza nel clima arido del Namib non è affidata (come si credeva un tempo) alle radici particolarmente lunghe, ma all'assorbimento dell'umidità portata dalle nebbie costiere.
Infatti mentre le piogge nel clima desertico del luogo sono estremamente rare e totalmente inaffidabili, le nebbie prodotte dalla condensazione atmosferica, dovuta alla notevolissima escursione termica tra il giorno e la notte sulle correnti di aria provenienti dal mare (e che si spingono molti chilometri all'interno), sono invece frequenti.
Con l'abbassamento della temperatura al di sotto del punto di rugiada la nebbia si trasforma in goccioline di umidità che si depositano dappertutto.
Per la natura pelosa e porosa delle foglie queste si impregnano di umidità ed assorbono la maggior parte dell'acqua necessaria alla pianta; anche il suolo sabbioso si inumidisce in superficie per lo stesso motivo, ma l'umidità rievapora durante il giorno; quando la nebbia si ripete e perdura, l'umidità può raggiungere le radici.
L'unico luogo in cui la Welwitschia è riuscita a riprodursi al di fuori del suo habitat africano è l'orto botanico situato all'interno della reggia Borbonica di Portici in provincia di Napoli dove viene curata dagli esperti dell'università di agraria della Federico II di Napoli che ha una sede distaccata al suo interno.
La pianta fu portata qui per la collezione privata dei Borboni e grazie al terreno fertile di origine vulcanica e al clima mite è riuscita a sopravvivere e a riprodursi.
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