Immaginate: nel silenzio e nella foschia un brigantino avanza tra le onde dell’oceano, le vele strappate, il ponte deserto, il timone incustodito. Scricchiolio dello scafo e fruscio delle vele. Non c’è nessuno a bordo da giorni. Eppure continua a navigare, quasi fosse dotato di una volontà propria. E’ la Mary Celeste, uno dei grandi enigmi del mare.
Varata in Nuova Scozia, Canada, nel 1860, fu battezzata Amazon. Nei 10 anni successivi al varo fu coinvolta in vari incidenti e cambiò più volte proprietario. Il suo primo capitano morì di polmonite. Il secondo capitano, durante il viaggio inaugurale, commise l’errore di voler passare troppo vicino a una chiusa per la pesca che danneggiò gravemente lo scafo. Durante le operazioni di restauro scoppiò un incendio a bordo. Ceduta a un terzo proprietario, partì quindi con un altro capitano per Londra e poi per Parigi. Nello stretto di Dover si scontrò con un altro brigantino che affondò. Riparata, tornò in Canada con un quarto capitano. Nel 1867 si arenò e fu venduta un’altra volta. Il nuovo proprietario la rimise in sesto per cederla dopo soli 12 mesi. L’Amazon cambiò nome e nazionalità, diventando l’americana Mary Celeste.
Il nuovo capitano era Benjamin Briggs, 37 anni, tre esperienze di comando alle spalle. La nave era pronta a partire da New York il 5 novembre 1872 con il capitano, la moglie Sarah, 30 anni, la figlia Sophia (2), e un equipaggio di sette uomini: il primo ufficiale Albert Richardson (28 anni), il secondo ufficiale Andrew Gillings (25), il cuoco e cameriere Edward Head (23), i marinai tedeschi Volkert Lorenzen (29), suo fratello Boz Lorenzen (23), Arian Martens (35) e Gottlieb Goodshaad (23). Il carico era composto da 1700 barili di alcool etilico e la sua destinazione era Genova. Ancorato al molo 44 sull’East River, quel giorno c’era anche il Dei Gratia, capitanato da David Morehouse, grande amico di Briggs. I due avevano cenato assieme due sere prima, augurandosi buona fortuna a vicenda per i rispettivi viaggi. Non si rividero mai più.
A causa di forti venti contrari, la Mary Celeste fece una sosta poco dopo la partenza, al largo di Staten Island, e poi riprese il viaggio. Il Dei Gratia partì qualche giorno dopo (11 novembre), diretto a Gibilterra. Incappò nella Mary Celeste il 4 dicembre, in un punto tra le Azzorre e il Portogallo, a 600 miglia da Gibilterra.
Lì nacque il grande mistero che nessuno è mai riuscito a chiarire.
Morehouse e il suo primo ufficiale, Oliver Deveau, esaminarono l’imbarcazione con i cannocchiali: il ponte era deserto, nessuno al timone. Morehouse spedì Deveau e altri due marinai a bordo della Mary Celeste. Gli uomini avvertirono un certo disagio mentre si muovevano avanti e indietro sul vascello. Non c’era un’anima. Mancavano due portelli del boccaporto che sembravano essere stati scardinati con violenza. L’albero maestro e le vele (queste ultime strappate in alcuni punti) erano tutto sommato idonei alla navigazione. Le provviste non erano state toccate. Il carico era intatto. C’era un po’ d’acqua nella stiva, ma era una cosa normale per le barche di legno di quei tempi. Mancava la scialuppa di salvataggio. Su un parapetto fu trovato il segno di un taglio, forse il risultato del colpo dato da un’ascia. Delle strane macchie rosse sul ponte risultarono poi essere vino. Una sagola (o corda che dir si voglia) era ancora attaccata allo scafo e ne seguiva la scia. Sul tavolo della cabina del primo ufficiale c’era la carta nautica che mostrava il percorso della nave fino al 24 novembre. Negli altri alloggi gli effetti personali degli occupanti erano al loro posto. Denaro e pipe non erano stati portati via. Per inciso: la pipa e il tabacco sono articoli che nessun lupo di mare abbandonerebbe se non in caso di panico assoluto… o di un rapimento fulmineo. La cambusa era invece stata messa a soqquadro: la stufa era ribaltata e c’erano utensili da cucina su tutto il pavimento. L’orologio nella cabina di comando era rotto e fissato alla parete al contrario. Nella cabina del capitano c’erano i suoi stivali e l’impermeabile da indossare in caso di maltempo. Il letto era sfatto e su di esso c’erano alcuni giocattoli della figlioletta. C’erano inoltre gioielli da donna sparsi in giro. Mancavano il sestante, il solcometro (misuratore di velocità) e altre carte nautiche. Un foglio con alcuni calcoli incompleti stava sul tavolo. Una bottiglia di medicinale era aperta, con il tappo e il cucchiaio accanto, come se la persona in procinto di berla avesse mollato tutto all’improvviso. Altre carte nautiche rotolavano sul pavimento. Il diario del capitano era ancora lì: l’ultima nota risaliva al mattino del 25 novembre e dichiarava che la nave era passata a sei miglia al largo dell’isola Santa Maria, nelle Azzorre. Nessun commento anomalo, niente di strano.
Nella cabina del ponte di comando la grande bussola nautica di bordo era caduta dal suo sostegno e si era rotta. L’osteriggio (l’equivalente del lucernario nelle barche) era aperto.Di conseguenza la pioggia e le onde più alte avevano in pratica bagnato ogni cosa. Tutti gli oblò delle altre cabine erano invece stati coperti con stoffe e tavole di legno per proteggerli dalla furia del mare. Sul tavolo di una cabina c’era una piccola fiala d’olio per macchine da cucire, assieme a rocchetti di cotone e a un ditale. Forse Sarah Briggs si stava preparando a rammendare ed era stata bruscamente interrotta.
La Mary Celeste aveva navigato per oltre una settimana e percorso 500 miglia senza nessuno a bordo. Morehouse era perplesso. La nave aveva le vele predisposte per catturare il vento proveniente da tribordo. Ma il Dei Gratia, che aveva seguito la medesima rotta fino a pochi giorni prima e sitemato le vele allo stesso modo, era stata costretta a cambiarne l’assetto e a mantenerlo per tutte le 400 miglia dalle Azzorre fino a quel punto. Non era quindi possibile che la Mary Celeste fosse riuscita ad arrivare fin lì senza fare la stessa cosa. Qualcuno aveva di sicuro guidato la nave anche dopo che l’ultima annotazione era stata riportata sul diario di bordo. Ma chi?
Perché abbandonare la nave così di colpo? Cattivo tempo? Non sembrava probabile, visto che l’impermeabile era ancora nella cabina del capitano. Quale spaventosa forza esterna aveva costretto i passeggeri a fuggire? Domanda più inquetante ancora: avevano lasciato il brigantino volontariamente o erano stati portati via con la forza?
L’equipaggio del Dei Gratia si divise e tre uomini condussero la Mary Celeste fino a Gibilterra. Deveau, divenuto il temporaneo capitano della Mary Celeste, continuò a tenere il diario di bordo e cancellò inspiegabilmente alcune delle annotazioni più vecchie. Disse che fu un errore involontario. Invece di ricavare dei vantaggi dal recupero del vascello, l’equipaggio fu accusato di omicidio multiplo. Frederick Solly Flood, l’avvocato/investigatore che si occupò del caso, accusò Morehouse e compagni di aver dato l’assalto alla Mary Celeste per poi vantarne il ritrovamento e (secondo le leggi dell’epoca) diventarne proprietari.
Intanto cominciarono le ricerche in tutti i porti più vicini per trovare eventuali superstiti, senza alcun risultato. Furono consultati meteorologi, zoologi e criminologi, ognuno dei quali diede la sua spiegazione. Si ipotizzò che l’equipaggio agli ordini di Briggs si fosse ubriacato e avesse ucciso il capitano e sua moglie. La storia non regge: l’alcool etilico è velenoso. E poi, se tale ammutinamento c’era stato, perché i ribelli avevano abbandonato nave e carico? I marinai erano tutti uomini molto stimati e un viaggio così breve non poteva giustificare una rivolta. Altra teoria: la Mary Celeste tentò di prestare soccorso a una nave in fiamme, si avvicinò troppo, prese fuoco a sua volta, e gli equipaggi di entrambe le navi finirono ammassati su una sola scialuppa che si rovesciò, decretando la morte di tutti quanti. Il problema è che nei registri di quel periodo, oltre alla Mary Celeste, non risultano navi disperse in quella zona. I più fantasiosi sostennero che un calamaro gigante aveva divorato l’intero equipaggio.
Un attacco da parte dei pirati non sembrava probabile, dato che l’ultimo episodio risaliva al 1832.
La più attendibile spiegazione è la seguente: i barili d’alcool sprigionarono vapori che divennero letali alla prima scintilla proveniente dalla cambusa. L’esplosione fece volar via i portelli del boccaporto. Temendo un’altra deflagrazione, il capitano aveva calato la scialuppa di salvataggio in mare, vi era salito con il resto del gruppo, e l’aveva legata con una corda alla nave, tenendosi a distanza di sicurezza. Il cattivo tempo aveva infierito su di loro spezzando la corda. E’ facile immaginare la sorte della barchetta in balia dell’Atlantico in burrasca. Onde alte come palazzoni, un vento fortissimo e pioggia torrenziale. Supponendo che la sfortunata comitiva avesse superato indenne la tempesta, si poteva star certi che la morte fosse sopraggiunta in ogni caso nei giorni seguenti per la mancanza d’acqua. Ma non c’erano segni evidenti di un’esplosione, mancavano le bruciature e la fuliggine. C’è da dire che l’alcool arde senza lasciare fuliggine e, spesso, brucia anche tanto velocemente da non lasciare alcun segno.
41 anni dopo, un certo Abel Fosdik affermava, nei suoi scritti, di essere stato un passeggero clandestino della Mary Celeste e di sapere cos’era successo. Durante la navigazione il capitano aveva fatto costruire una piccola piattaforma (esterna allo scafo) per la figlioletta. Fosdik scriveva di aver visto il capitano e altri marinai tuffarsi in acqua per una gara di nuoto. Gli squali avevano interrotto sanguinosamente la competizione. Il resto dell’equipaggio si era ammassato sulla piattaforma che aveva ceduto sotto il peso eccessivo. Fosdik sosteneva di essersi salvato aggrappandosi a una tavola di legno e di essere in seguito approdato, mezzo morto, sulle coste dell’Africa. La favola non regge, specie sulla gara di nuoto: nessuno si sarebbe messo a nuotare attorno a una nave che andava a una discreta velocità, primo fra tutti il capitano, che abbandonando l’imbarcazione anche per un solo istante avrebbe messo inutilmente in pericolo i passeggeri.
Il processo si concluse con l’assoluzione dei marinai del Dei Gratia, e con una giuria piuttosto confusa sulle reali cause della scomparsa di dieci persone.
Nel 1884 Arthur Conan Doyle alimentò la leggenda scrivendo un racconto che narrava di una nave fantasma che si chiamava (guarda caso) Mary Celeste. Descrisse una vicenda reale aggiungendoci molti elementi di fantasia. Realtà e finzione finirono per mescolarsi. Malgrado ciò che si vocifera, non fu trovato del cibo fresco sulla tavola e nessun gatto nero acciambellato vicino al timone. Non furono nemmeno trovate delle armi sporche di sangue né chiazze di tale sostanza sulle vele.
La Mary Celeste
Dopo il processo, la Mary Celeste continuò a solcare i mari per altri 12 anni e cambiò proprietario per ben 17 volte. Durante uno dei tanti viaggi si ritrovò a trasportare cavalli e asini. Gli animali morirono misteriosamente nella stiva prima di arrivare a destinazione. Nel 1884 finì nelle mani del disonesto Gilman Parker che, con un raggiro, fece registrare un carico di scarso valore come fosse pregiato, assicurandolo per una cifra esorbitante. Quindi la nave partì da Boston e fu deliberatamente fatta naufragare su un banco di coralli vicino a Haiti. La truffa fu scoperta e portò Parker e soci a una triste fine: Parker morì in povertà, un altro marinaio finì in manicomio e un terzo si suicidò.
Anche dalle profondità del mare la Mary Celeste riuscì a colpire i suoi ‘assassini’.
Nel 2001 il relitto è stato ritrovato dalla spedizione di Clive Cussler.
L’equipaggio del 1872, invece, è scomparso nel nulla per sempre.
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