Qual è la storia dell’Ilva di Taranto?
Si tratta di una delle più grandi acciaierie d’Europa, e la più grande d’Italia.
Costruita nel 1961 quando l’allora Italsider era un’azienda pubblica, l’immenso stabilimento costruito a ridosso di due popolosi quartieri di Taranto nel 1995 è stato ceduto al gruppo privato Riva, che in questi anni lo ha riportato a una gestione in profitto.
Oggi produce circa 10 milioni di tonnellate l’anno di acciaio.
Per quale ragione si è fatta un’acciaieria nel mezzo di una città?
Non si è pensato all’inquinamento?
Una scelta folle, tipica di una stagione «sviluppista» e industrialista in cui non si teneva affatto conto dei problemi della salute e del territorio.
Nel 2010, secondo le perizie del tribunale e le dichiarazioni dell’Ilva, sono state immesse nell’ambiente circostante 4.159 tonnellate di polveri, 11 mila di diossido d’azoto e anidride solforosa, tantissima anidride carbonica, e quantità di arsenico, cromo, cadmio, nichel, diossine, piombo e molti altri materiali.
Ma è possibile produrre acciaio in modo meno «sporco»?
Sì: alcune acciaierie in Germania generano emissioni inferiori del 70-90% rispetto all’Ilva. Ovviamente, servono investimenti ingentissimi per adottare tecnologie «pulite».
Dunque l’Ilva sono anni che inquina.
Perché la magistratura non è intervenuta prima?
Certamente l’azione, scattata il 26 luglio 2012 con il sequestro dell’«area a caldo» dello stabilimento, e proseguita il 26 novembre con quello delle «aree a freddo», è arrivata con grande ritardo. Il problema era noto da anni. Va detto che già nel 2007 i Riva erano stati condannati per violazione delle norme anti-inquinamento.
Quali sono le accuse?
L’inchiesta è per «disastro ambientale doloso e colposo» a carico dell’Ilva, dei suoi proprietari e dirigenti. Secondo l’ordinanza del 26 luglio, l’azienda ha disperso «sostanze nocive nell’ambiente» provocando «malattia e morte». Pur conoscendo gli effetti delle emissioni, si è continuato a inquinare «con coscienza e volontà per la logica del profitto».
Vediamo i numeri ufficiali sulle morti e le malattie a Taranto.
I periti nominati della Procura di Taranto calcolano in sette anni un totale di 11.550 morti causati dalle emissioni (in media 1.650 l’anno) soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie e 26.999 ricoveri, soprattutto per cause cardiache, respiratorie, e cerebrovascolari.
Le concentrazioni di agenti inquinanti e la proporzione di decessi e malattie è altissima nei quartieri Tamburi e Borgo, quelli più vicini alla zona industriale. Secondo i dati ufficiali del rapporto «Sentieri» dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2003-2009 Taranto registra (rispetto alla media della Puglia) un +14% di mortalità per gli uomini e un +8% per le donne. La mortalità nel primo anno di vita dei bambini è maggiore del 20%. Forti differenze ci sono anche per tumori e malattie circolatorie, con addirittura un +211% rispetto alla media pugliese per i mesoteliomi della pleura.
Insomma l’Ilva fa male, e a volte uccide. L’azienda come risponde?
Intanto dice che i dati considerano 30 anni di emissioni, e che già ha agito per ridurle.
Dopo il blitz della Procura, Ilva ha presentato un piano (poi respinto dai magistrati) che prevede investimenti per 400 milioni per l’abbattimento delle polveri e la copertura dei depositi di carbone, ora a cielo aperto. E soprattutto, chiedeva e chiede di continuare la produzione, sia pure in modo ridotto. Ma i giudici hanno detto che produrre significa continuare a inquinare e, dunque, far ammalare la gente.
E la reazione del governo qual è stata?
Il governo (come i sindacati e quasi tutti i partiti) vorrebbe evitare la chiusura della fabbrica, che produce un terzo del fabbisogno di acciaio italiano e dà lavoro a 12 mila lavoratori diretti (40 mila con l’indotto).
Il tentativo è stato quello di tenere aperto e produttivo lo stabilimento (come chiede l’Ilva) favorendo il risanamento. Lo strumento che è stato individuato è l’«Aia», l’autorizzazione integrata ambientale.
Cosa prevede l’Aia?
Autorizza l’esercizio dell’impianto imponendo all’azienda una serie di interventi nell’arco di tre anni, partendo dalla riduzione della produzione a otto milioni di tonnellate, la copertura dei parchi di carbone, il rifacimento degli altiforni, con una serie di monitoraggi.
Secondo molti esperti effetti concreti sulle emissioni nocive si vedranno solo dal 2015. Si ipotizzano costi per tre miliardi; lo Stato contribuirebbe con circa 330 milioni.
Ma i giudici hanno sequestrato tutte le aree dell’Ilva, e l’azienda ha annunciato la chiusura.
E ora?
Ora il governo ha annunciato un decreto legge, che dovrebbe imporre l’esecuzione dell’Aia e degli interventi previsti.
A CURA DI ROBERTO GIOVANNINI Fonte La Stampa.it
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