A Roma, in Via del Portico d’Ottavia, nel cuore di quello che oggi, per convenzione, si chiama ancora il “ghetto ebraico”
(ma che corrisponde solo grossomodo all’area dell’antico ghetto di Roma, praticamente tutto demolito all’inizio del secolo XX).
C’è una pasticceria, senza insegna, dalle vetrine spoglie e un po’ spartana.
La si immagina idealmente gemellata con un altra patisserie europea, in rue de Rosiers a Parigi, anch’essa ugualmente spartana e anch’essa al centro della vita del quartiere ebraico Marais.
Per gli ebrei romani questo monumento alla tradizione è Boccione, per tutti gli altri si chiama usando diverse parafrasi: “il forno del ghetto”, “la pasticceria degli ebrei”, “il negozio dei dolci kasher”.
Quello che è noto a tutti, invece è che dal piccolo retrobottega escono delizie incredibili che risalgono ad una tradizione antichissima, dolci di ogni forma e misura secondo le norme alimentari ebraiche (cucina kasher), che accompagnano la vita religiosa di ogni festività israelitica.
La prima cosa che colpisce del Forno del Ghetto è la destrezza con cui l’esercito delle signore che servono dolci (non siamo mai riusciti a capire quante siano) si muove dietro il banco in uno spazio davvero minuscolo.
Ci sono solo donne, appartenenti a tre generazioni, anche nel laboratorio.
A rendere unico questo forno è poi la collocazione. Il Ghetto è come una piccola città dentro la città , dove tutti si conoscono e i bambini giocano in piazza. Ospita la più antica comunità ebraica d’Occidente.
Un luogo carico di suggestioni e di memorie.
Proseguite almeno fino al Portico d’Ottavia, dove incastonato fra i resti dell’edificio fatto costruire da Augusto per sua sorella, si trova l’antichissima chiesa di Sant’Angelo in Pescheria.
Nessun commento:
Posta un commento