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lunedì 23 novembre 2020

Le Cascate delle Marmore, come gli antichi romani resero più bella la natura


 Uno dei più singolari e affascinanti spettacoli “naturali” dell’Umbria è rappresentato dalla Cascata delle Marmore.

 Descritte già in età romana, furono celebrate dai viaggiatori del “Gran Tour” tra Sette e Ottocento, ma molti non sanno che si tratta di una realizzazione artificiale dovuta proprio all’opera ingegneristica degli antichi romani, grazie alla quale oggi possiamo apprezzare questo  stupefacente panorama.

La cascata si trova nella Valnerina, a 7 chilometri di distanza dalla città di Terni, nel meraviglioso Parco Naturale della Cascata delle Marmore, ed è formata artificialmente dal precipitare del fiume Velino dall’altopiano delle Marmore nel fiume Nera.
Il nome Marmore deriva dai caratteristici sali di carbonato di calcio che si sedimentano sulle rocce della montagna e che grazie al riflesso della luce del sole assumono l’aspetto di bianchi cristalli di marmo.


La Cascata delle Marmore ha origini antichissime che risalgono al 271 a.C.. 

In epoca romana, il console Manio Curio Dentato ordinò la costruzione di un canale che potesse far defluire le acque stagnanti del Velino convergendole verso il Nera. 

La grande opera di bonifica fu realizzata deviando il corso del fiume e formando quella che oggi conosciamo come una delle cascate più famose d’Italia.

Nel tempo, gli allagamenti che periodicamente si verificavano durante le piene dei due fiumi e che causavano le inondazioni delle campagne e molte altre difficoltà agli abitanti delle zone circostanti, richiesero ulteriori interventi.

 Uno dei più famosi è da attribuire all’opera di Antonio Da Sangallo il Giovane con la costruzione di uno dei due nuovi canali che furono realizzati tra XV e XVI secolo.

 Il pericolo delle inondazioni fece insorgere più di una volta gli abitanti della Valnerina e ottennero altri interventi, tra Seicento e Settecento, che mettessero in sicuro la loro esistenza e che fecero assumere alla Cascata l’aspetto che apprezziamo oggi.



La spumeggiante massa bianca delle acque compie tre salti, scivolando per un dislivello di 165 metri e la spettacolarità è accentuata dal fragore e dalla polverizzazione acquea che in certe condizioni atmosferiche crea effetti cromatici dal sicuro effetto scenografico.

L’area della Cascata è formata da depositi di travertino che, grazie alla sua natura friabile e all’intensa circolazione delle acque, ha permesso il formarsi di cavità, grotte e forme carsiche

Le cavità più interessanti dal punto di vista speleologico sono quelle della Grotta della Morta e della Grotta delle Diaclasi che hanno uno sviluppo di 287 metri e una profondità di 23 metri, oltre alla Grotta della Condotta che si sviluppa per oltre 190 metri.

Fonte:meteoweb.eu

giovedì 19 novembre 2020

Perché a Praga c’è una faccia gigante che ruota in perenne “metamorfosi”?


 “Le Metamorfosi” di Kafka rappresentate attraverso una scultura cinetica che riproduce il capo del noto scrittore: ecco una delle ultime opere dell’artista ceco David Černý, famoso per le sue intallazioni provocatorie e irriverenti.

L’opera, commissionata dai centri commerciali Quadrio di Praga nel 2014, consiste in una testa alta quasi 11 metri realizzata in acciaio inox; i 42 blocchi che compongono la scultura ruotano in modo indipendente grazie a un motore.

 L’installazione, oggi diventata un vero e proprio monumento che attrae numerosi turisti,  è un connubio di arte e tecnica: per realizzarla l’artista ha collaborato con il reparto di ingegneria meccanica di una nota ditta specializzata in robotica.


L’effetto è straniante: la forma della statua cambia senza fermarsi mai, come a simboleggiare l’alienazione dell’essere umano moderno all’interno della società.

 È evidente che l’artista ha ripreso uno degli elementi peculiari della poetica del noto scrittore: i personaggi kafkiani sono spesso privi di tratti fisici distintivi, nonché incastrati in dinamiche indipendenti dal loro volere, vittime di un destino indecifrabile.

La scultura raffigura  la dispersione dell’identità  attraverso un volto vuoto, in continua trasformazione, che riverbera lo spazio circostante grazie al gioco di specchi. 

La continua scomposizione del viso rivela una verità che ha a che fare con il concetto di identità dell’Io: il nostro ego non è altro che la proiezione degli sguardi altrui, un’unità fragile e sempre mutevole.


In questa scultura Černý quindi non ha solamente omaggiato uno degli scrittori europei più importanti di tutti i tempi, ma ha rappresentato l’essenza stessa della psiche umana e dell’alienazione dell’uomo moderno nella società


lunedì 16 novembre 2020

Epocale scoperta archeologica: riemerge il quartiere marittimo dell’antica Ostia, luogo che sugellò la fortuna di Roma


 Ostia ha fatto la fortuna di Roma. 

L’antica città, infatti, è stata la prima colonia dell’antica Roma, espandendosi per secoli come suo alter ego sulla costa del Tirreno. Ora, zone mai scavate (o esplorate solo superficialmente) dell’abitato, in particolare il quartiere marittimo, stanno tornando alla luce grazie ad un progetto guidato dal Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. 

L’ultima campagna di scavo, conclusa nei giorni scorsi, si è concentrata attorno all’area del ‘Caseggiato delle due scale’, un isolato dal quale è possibile ottenere informazioni importanti su come mutarono i modi dell’abitare nell’antica città tra il II e il V secolo d.C.

Gli studenti e gli archeologi dell’Alma Mater bolognese coinvolti hanno inoltre realizzato un saggio stratigrafico dell’area archeologica, e hanno portato avanti una campagna di restauro della “Caupona del dio Pan“, antica osteria che a partire dal IV secolo venne trasformata in un mitreo (edificio sacro destinato al culto del dio Mitra) decorato con marmi colorati.

 L’area del quartiere marittimo, su cui si concentra il ‘Progetto Ostia Marina‘, si estende fuori dalle mura della città, oltre l’antica Porta Marina, che doveva distare poco più di centro metri dal mare quando venne realizzata nel I secolo a.C. 

In seguito, in quel tratto di costa il mare si allontanò. È così che nacque il quartiere: una zona suburbana che crebbe progressivamente sulla costa, fuori dalla città.

Grazie alle campagne di scavo realizzate fino ad oggi sono stati individuati tre nuovi edifici: la “Caupona del dio Pan”, il “Caseggiato delle due scale” a cui sono associate le “Terme dello scheletro” e le “Terme del Sileno”. 

Inoltre, sono stati indagati edifici già noti e famosi come le “Terme della Marciana” e le “Terme di Musiciolus”. “Le ricerche del Progetto Ostia Marina richiamano l’attenzione di studiosi impegnati su molti temi diversi: esperti del paleoambiente, storici dell’architettura, storici delle religioni, numismatici, medievisti e tanti altri specialisti – dichiara Massimiliano David, professore dell’Università di Bologna che dirige gli scavi – Tutti calamitati da scoperte che stanno offrendo opportunità inattese per riuscire a ricostruire la vita di questa antica città, un centro di fondamentale importanza per l’antico spazio mediterraneo“.

Nato nel 2007 grazie ad un accordo strategico con l’allora Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (oggi Parco Archeologico di Ostia Antica), il ‘Progetto Ostia Marina’ si concentra sul quartiere marittimo, una delle aree suburbane più importanti dell’antica città. 

Il fascino di questa ricerca deriva dalla possibilità di documentare un paesaggio urbano che si è trasformato continuamente nei secoli, sia per mano dell’uomo che a causa dell’azione della natura“, spiega Massimiliano David.




Il nome Ostia deriva da Ostium, ovvero la bocca, la foce del fiume. Anticamente, infatti, il Tevere terminava il suo corso proprio qui prima di buttarsi nel mar Tirreno. 

Il parco archeologico di Ostia Antica è uno dei meglio preservati siti archeologici dell’antica Roma, con 50 ettari di costruzioni e cambiamenti durante circa 8 secoli.

Secondo le fonti dell’epoca Ostia fu fondata dal re Anco Marzio nel VII sec. a.c.

 Reperti di materiali dell’età del bronzo recente (XIII-X sec. a.c.) nel territorio di Ostia e Acilia (antica Ficana), testimoniano come la foce del Tevere fosse abitata in tempi remoti, ma non ci sono tracce dell’era monarchica. 

Maggiori informazioni sono note invece in merito all’insediamento romano nel IV sec. a.c., dove Ostia fu fondata come colonia militare per il controllo della costa, con un porto fluviale, il Portus Urbis, da cui, fin dal II sec. a.c., dipendeva l’approvvigionamento di grano per l’antica Roma.

I primi insediamenti risalenti al IV sec. ebbero luogo sullo sbocco del Tevere. 

Ostia sorse dunque come castrum, ovvero un insediamento fortificato delimitato da un perimetro quadrangolare edificato in blocchi di tufo.

 Dopo la fondazione della cinta muraria, progettata da Cicerone, la città venne dotata di piano urbanistico e riorganizzata, ad opera degli imperatori, in maniera tale da renderla adatta per le distribuzioni alimentari alla plebe.

 In età imperiale, dunque, Ostia si sviluppò come Porta del Tevere, divenendo per diversi secoli via di comunicazione primaria, e porta del Tirreno, come centro commerciale portuale, indispensabile per l’approvvigionamento del grano nell’Urbe.

Dalla metà del I sec. a.c. Ostia divenne a tutti gli effetti colonia romana, raggiungendo così un grande sviluppo economico, commerciale e demografico, divenendo altresì raccordo tra importantissime vie di comunicazione (Tevere e Tirreno) con Roma. Quello sviluppo trasformò Ostia in una città cosmopolita, con razze e culture differenti.

 I cittadini erano, in base alla professione, raggruppati in corporazioni, con lingue e religioni differenti, come emerge dai templi dedicati oltre alle divinità locali, a Mitra persiana, a Cibele frigia, a Iside egiziana, e a una Sinagoga ebraica.

 Fu la città delle libertà: vi si insediarono persone  in cerca di fortuna e soprattutto liberti.

 La vicinanza a Roma fece di Ostia un importante centro di commercio e approvvigionamento per la capitale, ampliandola con un foro, un acquedotto e un teatro.

Dal porto di Ostia passava ogni cosa destinata a Roma: dal grano, ai cammelli e agli elefanti per gli spettacoli circensi.

 Ostia arrivò a contare 100.000 abitanti, ma con la crisi del III secolo giunse anche il suo declino.

 Si riprese nel IV sec. come sede residenziale, ma le attività commerciali e amministrative si erano ormai spostate nella città di Porto e dunque dopo poco tempo decadde nuovamente.

Fonte: meteoweb.eu

sabato 14 novembre 2020

Perché nell'inchiostro dei papiri egizi c'è del piombo?


 Secondo quanto scoperto da uno studio pubblicato su PNAS, condotto da un team di ricercatori dell'Università di Copenaghen, gli antichi egizi utilizzavano inchiostri colorati a base di piombo per favorire l'asciugatura della tinta evitando nel contempo sbavature sul supporto. Prima d'ora questa soluzione era stata documentata solo per le pitture europee del XV secolo: ora l'utilizzo di pigmenti a base di piombo può essere retrodatato di 1.400 anni.

Con una tecnica di microscopia a raggi X gli studiosi hanno analizzato 12 frammenti di papiri egizi risalenti agli anni dal 100 al 200 d.C., periodo di dominazione romana: «La nostra analisi ha evidenziato ingredienti finora sconosciuti negli inchiostri rossi e neri utilizzati dagli antichi egizi», spiega il responsabile dello studio, Thomas Christiansen, «in particolare il piombo e il ferro».

Il ferro è stato trovato negli inchiostri rossi, creati probabilmente a partire dall'ocra, un pigmento naturale nel quale sono presenti anche alluminio ed ematite. 

Il piombo, invece, è stato ritrovato sia negli inchiostri rossi, sia in quelli neri.

 Per questo gli studiosi ritengono che il piombo non servisse a colorare l'inchiostro, ma ad asciugarlo rapidamente sui papiri.


I frammenti di papiro studiati formano parte di una serie di manoscritti appartenenti alla biblioteca del tempio dell'antica città di Tebtunis. 

È probabile che i sacerdoti del tempio, autori dei papiri, non producessero gli inchiostri, ma li acquistassero. 

Secondo quanto rivelato dalle analisi, infatti, gli inchiostri rossi erano particolarmente complicati da ottenere e richiedevano la mano di specialisti.

Le parole di un incantesimo impresse su un papiro alchemico greco del III secolo d.C. supporterebbero proprio questa ipotesi: «L'incantesimo fa riferimento a un inchiostro rosso preparato in un laboratorio», afferma Christiansen, «a conferma che le nostre ipotesi sono corrette, e che i sacerdoti non producevano l'inchiostro da soli».

Fonte: focus.it

mercoledì 11 novembre 2020

La Donna Ragno di Teotihuacan: l’enigma che circonda una misteriosa divinità mesoamericana


 Con uno sguardo imperscrutabile guarda fisso avanti sé, senza curarsi di ciò che la circonda. 

Una divinità misteriosa e un po’ inquietante che non vuole svelare i suoi segreti: è la Donna Ragno di Teotihuacan.

Raffigurata in molti affreschi scoperti nei primi decenni del ‘900 a Teotihuacan, rappresenta un enigma non ancora risolto e che forse rimarrà tale per sempre, uno dei tanti che circonda ancora la città.

Il nome Teotihuacan, che si può tradurre come “Città degli dei”, è stato dato alla città dagli Aztechi nel 1400, quando la scoprirono, ormai misteriosamente abbandonata dai suoi abitanti già da diversi secoli.

Sono domande alle quali non c’è ancora risposta, anche se qualcosa si sa: Teotihuacan era uno dei centri abitati più importanti del Messico centrale, capace di accogliere 200.000 persone, in case a più piani divise in appartamenti. 

Se questa stima è corretta, solo sei o sette città nel mondo, all’epoca (tra il 350 e il 650 dopo Cristo), erano più grandi.


Non nasce dall’oggi al domani Teotihuacan, che dall’arrivo dei primi coloni, intorno al 400 a.C, impiega all’incirca quattro secoli per prendere la forma di una metropoli. 

A renderla grande furono forse gli abitanti di Cuicuilco – un importante centro dove sorgevano palazzi e piramidi, distrutto da un’eruzione vulcanica intorno al 150 d.C. – migrati a Teotihuacan, dove ancora vivevano solo sei piccole comunità.

 Secondo alcuni studiosi, furono proprio questi nuovi arrivati a dare impulso allo sviluppo architettonico della città, con il contributo di altre popolazioni, tra le quali ci sarebbero i Maya, gli Zapotechi e i Mixtechi. 

Altre teorie suggeriscono che Teotihuacan sia stata costruita dai Totonachi oppure dai Toltechi (anche se antiche fonti azteche negano quest’ultima ipotesi, ormai quasi del tutto abbandonata).


L’unica cosa certa, è che Teotihuacan prosperò per diversi secoli, fino all’incirca al 750 d.C, quando un evento violento, forse una guerra civile o una rivolta, segnarono, se non la sua fine, almeno il suo inarrestabile declino. 

Fino all’arrivo degli Aztechi, che identificarono Teotihuacan come il luogo dove gli dei avevano dato inizio alla creazione del mondo. Ecco perché usarono quel nome, che nella lingua Nahuati può significare “luogo di nascita degli dei”, oppure “luogo di coloro che hanno la strada degli dei”.

Oggi Teotihuacan è uno dei siti archeologici più conosciuti del Messico, famoso per le sue imponenti costruzioni: la Piramide del Sole, la Piramide della Luna e il Tempio del Serpente Piumato, collegati fra loro dal Viale dei Morti, lungo il quale sorgevano delle tombe, o più probabilmente, le case della nobiltà.


La riscoperta di Teotihuacan, pur se iniziata alla fine dell’800, diventa sistematica dopo la metà del ‘900, ma nonostante sia uno dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, corre oggi dei rischi, dovuti all’urbanizzazione incontrollata.

Tra i manufatti che possono svelare qualcosa della cultura di quel popolo semi-sconosciuto, sicuramente occupano un posto di rilievo i tanti murales che testimoniano un’abilità pittorica paragonata talvolta a quella degli artisti rinascimentali italiani.

La comprensione di quei murales non è però facile, soprattutto perché gli abitanti di Teotihuacan non hanno lasciato niente scritto, e in parte perché molti di quegli affreschi furono rimossi, negli anni ’60, per essere portati illegalmente negli Stati Uniti, senza nemmeno tenere traccia di dove fossero in origine. 

Solo nel 1976 i murales sono tornati in Messico e da allora è stato avviato un progetto per scoprire da dove erano stati rimossi, e quali tecniche fossero state usate per realizzarli.


Due divinità sono spesso raffigurate: il Dio della Tempesta, che nel pantheon azteco si può identificare con Tlaloc, e la Grande Dea, che invece sembra non avere un posto nella religione degli aztechi.

La misteriosa figura, scoperta per la prima volta nel 1942 nel complesso di Tepantilla (case destinate a personaggi d’alto rango), fu soprannominata nel 1983 “la Donna Ragno di Teotihuacan”, dall’archeologo Karl Taube, un appellativo che ha soppiantato il più generico “Grande Dea” usato fino ad allora.

 Comunque la si voglia chiamare, quella divinità sembra essere un’esclusiva di Teotihuacan, associata a un ragno per quel gioiello che scende dal naso, simile alle “zanne” degli aracnidi.

La Grande Dea viene rappresentata frontalmente, sempre con quel nasello dotato di zanne e un copricapo piumato.

 Qualche studioso vede nella Donna Ragno una dea legata alla terra e alla fertilità, per le braccia che spesso stillano acqua o portano doni a quei piccoli uomini che, in un murale in particolare, quasi galleggiano sotto la sua immagine.

 Sono forse gli abitanti di Teotihuacan, e in questo caso la dea assumerebbe la funzione di protettrice della città, o forse sono defunti che si trovano nell’aldilà. 

Se così fosse, la Donna Ragno sarebbe una dea degli inferi, un’ipotesi confortata dagli animali da cui è spesso circondata: ragni, gufi, giaguari, creature della notte, legate a tutto ciò che è oscuro e nascosto.



Altre ipotesi tolgono un po’ di fascino alla Donna Ragno: secondo lo storico dell’arte Zoltán Paulinyi la Grande Dea non è mai esistita, ma le sue raffigurazioni rappresentano divinità diverse.

Più suggestiva l’ipotesi di Elisa C. Mandell, storica dell’arte, che vede nella Grande Dea una figura di genere misto, maschile e femminile insieme: “Esiste una storia di identità di genere misto all’interno delle popolazioni mesoamericane e, considerando che la Dea proviene da Teotihuacan, i modelli occidentali di binario di genere non dovrebbero essere imposti a figure non occidentali. Inoltre, non ci sono caratteristiche sessuali esplicite mostrate nella Grande Dea, quindi il suo sesso non può essere dedotto”.

Tutte queste ipotesi, e altre ancora, non possono che alimentare il mistero sulla Grande Dea, anziché svelare l’enigma sulla sua figura. E forse sta proprio in questo il suo fascino: le infinite pieghe del tempo e della storia continuano a conservare i loro segreti, nonostante gli sforzi degli esseri umani moderni, ormai troppo lontani dalle loro origini.

Fonte: vanillamagazine.it


mercoledì 4 novembre 2020

Machu Picchu: la suggestiva città Inca riapre dopo il lockdown e brilla grazie a luci multicolori


 Dopo otto mesi di chiusura a causa del Covid-19 riapre Machu Picchu, 

il suggestivo sito Inca e metà turistica gettonata. Per motivi sanitari però gli ingressi continuano ad essere controllati: solo 700 turisti possono accedere giornalmente.


Sotto una pioggia sottile e luci multicolore brilla Machu Picchu. In occasione della riapertura è stato celebrato, infatti, un rituale Inca per ringraziare gli dei e mostrare che ‘i peruviani sono resilienti’, ha detto la ministra del Commercio estero e del turismo Rocio Barrios.

Dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1983, la città Inca già lo scorso giugno aveva subito un duro colpo per via del coronavirus, all’epoca il governo aveva promosso l’ingresso gratuito per rilanciare l’economia peruviana.

“Questo sarà un ritorno progressivo, vale a dire che avverrà a poco a poco, prima la gente del posto, poi i cittadini e poi i turisti da tutto il mondo”, ha detto la ministra Barrios.

Machu Picchu, è stata costruita intorno al 1400 e che dal 2007 fa parte delle sette meraviglie del mondo. Ogni anno viene visitata da un milione di persone. Situata a 2400 metri di altezza sulla valle dell’Urubamba, rappresenta una fonte per l’economia del paese.

Lo scorso anno sei turisti provenienti da Cile, Brasile, Francia e Argentina, sono stati arrestati e successivamente espulsi per aver danneggiato il Tempio del Sole nel sito archeologico più conosciuto al mondo e aver defecato al suo interno. Nel 2014, poi le autorità avevano denunciato una ‘nuova moda’, quella di fotografarsi nudi nel luogo sacro. All’epoca quattro turisti americani erano stati arrestati per essersi spogliati e aver postato poi le foto sui social.

Luogo suggestivo e di architettura unica, la città Inca è di fatto un’attrazione turistica ed è chiaro che il governo peruviano voglia sponsorizzarla e non c’è nulla di male, la speranza però è quella che questo patrimonio venga preservato.


Fonte: zerounotv.it

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