venerdì 28 febbraio 2020
La storia dei funghi giganti della Val Maira
Si chiamano Ciciu del Villar e sono delle vere e proprie sculture morfologiche ad opera della natura.
A guardare il loro aspetto non stupisce l’appellativo di funghi giganti che in molti hanno scelto per descriverli.
La forma di questi ammassi di pietra infatti richiama proprio quella di un fungo grandissimo con un capello fatto di gneiss, la roccia metamorfica più comune al mondo, mentre i gambi sono composti da terra e altre pietre.
Il termine Ciciu proviene dal dialetto piemontese che sta ad indicare i fantocci.
Passeggiare in Val Maira, proprio tra le sculture di roccia è un’esperienza unica data dal fatto che i Ciuci conservano storie e infinte leggende.
Secondo i racconti popolari infatti i funghi giganti sarebbero nati a causa di un incantesimo e questi massi di notte di trasformerebbero in Masche, le streghe della tradizione popolare piemontese.
C’è un’altra storia però che racconta le origine dei Ciciu ed è legata a San Costanzo, il martire che morì durante la persecuzione dei cristiani ad opera dell’imperatore Diocleziano nell’anno 303 d.C.
La tradizione vuole che il Santo, in fuga dai soldati romani, si rifugiò in questo bosco e per proteggere trasformò i 100 soldati in pietra.
Storicamente parlando invece, la nascita dei funghi giganti di Val Maira affonda le sue origini in epoca antica, esattamente all’ultima era glaciale.
Sarebbe stato infatti lo scioglimento dei ghiacciati a portare a valle un’enorme massa di detriti che depositati uno sull’altro avrebbero creato gli steli dei Ciciu.
Invece a causa di frane e terremoti, avvenuti sul monte San Bernando, grandi pietre sarebbero scivolate a valle fino coprire i detriti ammassati: il risultato è quello che appare oggi, delle sculture morfologiche.
La storia, le leggenda e la bellezza di questi funghi giganti hanno fatto si che nel 1989 la regione Piemonte istituisse la Riserva Naturale di Val Maira che si estende su una superficie di oltre 60 ettari nel comune di Villa San Costanzo ed è visitabile tutti i giorni.
Fonte: siviaggia.it
mercoledì 26 febbraio 2020
Atene, le tavole di maledizione del Kerameikos
Trenta tavolette di piombo, incise con maledizioni, sono state scoperte sul fondo di un pozzo di 2500 anni fa nell'area dell'Atene antica, nella zona del Kerameikos, principale cimitero di Atene.
Le piccole tavolette invocano gli dei inferi per arrecare danni agli altri.
Si tratta di testi rituali, di soli graffiti su oggetti di piombo.
"La persona che ha materialmente fatto la maledizione non è mai menzionata per nome. Viene menzionato solo il destinatario", ha osservato la Dottoressa Jutta Stroszeck, direttrice dello scavo del Kerameikos per conto dell'Istituto Archeologico Tedesco di Atene.
Prima di questa scoperta, decine di maledizioni del periodo classico (480-323 a.C.) erano state rinvenute nelle sepolture di persone morte anzitempo, ritenute messaggeri ideali per portare l'incantesimo negativo negli inferi.
Il pozzo dove sono state rinvenute le trenta tavolette è stato scavato nel 2016 da un team di archeologi sotto la direzione della Dottoressa Stroszeck che stava indagando sull'approvvigionamento idrico a circa 60 metri dal Dipylon.
Si tratta di un balneum pubblico, non privato, che operò dal periodo classico a quello ellenistico, dal V al I secolo a.C.
I ricercatori pensano si tratti del balneum a cui fa riferimento il drammaturgo comico Aristofane e che venne menzionato anche in un discorso del IV secolo a.C. del retorico Isaeo.
Oltre alle tavolette contenenti maledizioni, il pozzo conteneva vasi potori (skyphoi), vasi per la miscelazione del vino (krater), lampade in argilla, speciali vasi a bocca larga utilizzati per attingere acqua (kadoi), manufatti in legno tra i quali una scatola, un raschiatore per lavori di ceramica, una puleggia in legno ed, inoltre, monete in bronzo e resti organici come ossa di pesca.
C'è un motivo, a quanto pare, perché le tavolette siano state gettate nel pozzo.
Secondo Cicerone, Demetrios di Phaleron, che governò Atene nel 317-307 a.C., emanò una legge per meglio organizzare la gestione delle sepolture.
Creò, inoltre, anche un magistrato che doveva supervisionare l'ottemperanza alla legge.
Quest'ultima vietava la deposizione delle lamine di maledizione nelle sepolture, come era solitamente fatto (ne sono state trovate 35 nelle tombe del Kerameikos).
In questo modo, chi voleva inviare delle maledizioni, nel IV secolo a.C., si trovò costretto a ricorrere a delle alternative, quale quella di gettare le tavolette con incise le maledizioni in un pozzo.
Il pozzo è profondo dieci metri e, nella parte inferiore, è stata rinvenuta una nicchia di circa un metro di altezza, in calcare. Questa nicchia era dedicata alla ninfa dell'acqua contenuta nel pozzo.
"L'acqua, e in particolare l'acqua potabile, era sacra", ha detto la Dottoressa Stroszeck. "Nella religione greca era protetta dalle ninfe, che potevano diventare piuttosto pericolose quando si faceva un cattivo uso della loro acqua".
Per placare queste divinità, venivano fatte offerte quali vasi in miniatura contenenti dei liquidi ed altri doni gettati nell'acqua.
Le tombe del Kerameikos del periodo classico erano ornate, contrassegnate da screpolature, rilievi, animali scolpiti o vasi in marmo.
Questa zona era caratterizzata dall'aspetto della transizione: dalla terra della città a quella rurale, dalla città dei vivi al regno dei morti.
"In tali aree la presenza del divino e del soprannaturale sono stati intensamente sperimentati, motivo per cui le attività di culto e quelle mantiche (di profezia) sono state molto presenti in questi luoghi", ha affermato la Dottoressa Stroszeck.
Gli ateniesi ritenevano che le anime di certi defunti rimanessero attive attorno alle loro sepolture qualche tempo dopo la morte, per questo erano particolarmente indicate per recare le maledizioni nell'oltretomba, dove si sperava che le divinità ctonie avrebbero ottemperato a quanto chiesto dai vivi.
Sembra ci siano stati quattro motivi per maledire qualcuno, nell'Atene classica: innanzitutto per vincere una causa, poi per scopi commerciali, per vincere gare atletiche e per motivi legati all'amore o all'odio.
Si assumeva, di norma, uno scriba abile nel comporre maledizione, il quale era ritenuto investito di un potere sovrannaturale che gli permetteva di conoscere le procedure e gli incantesimi necessari. La tavola con la maledizione veniva, poi, piegata, trafitta con un chiodo (defixio) e inchiodata alla bara in legno che conteneva il corpo del defunto.
Ma perché una civiltà che aveva dato vita alla filosofia, alla scienza ed alla logica si votava, parimenti, alla magia nera?
La risposta può risalire al V secolo a.C., al momento in cui venne dedicato il Partenone, in cima all'acropoli, il momento più alto dell'ambizioso programma edilizio su quella collina portato avanti dallo statista Pericle.
Questi aveva incontrato non poche opposizioni, durante la costruzione del Partenone. Alcuni ritenevano, non senza ragione, che non fosse giusto utilizzare il tesoro federale per gli scopi della sola città di Atene.
Pericle venne attaccato nell'assemblea di Atene.
Durante un discorso di Tucidide, figlio di Melesias, quest'ultimo, che era riuscito a calamitare con passione l'attenzione e l'assenso dei convenuti, dovette interrompersi perché gli si bloccò improvvisamente la mascella.
Probabilmente era stato colpito da un ictus, ma per gli astanti Tucidide era stato realmente colpito da una maledizione.
Questo potrebbe spiegare l'improvviso aumento di tavolette di maledizione nel Kerameikos durante il V secolo a.C.
Fonte: oltre-la-notte
martedì 25 febbraio 2020
Il mistero della cattedrale belga con le fondamenta fatte di ossa umane
Mura d'ossa umane.
Gli archeologi ne hanno scoperte nove nelle fondamenta della Cattedrale di San Bavone di Gand, in Belgio.
Un macabro ritrovamento, di cui non si conoscono le origini storiche.
In base ai primi rilievi, i muri d'ossa risalgono intorno alla seconda metà del Quindicesimo secolo. Ma l'insolito materiale edile ritrovati dagli esperti del Ruben Willaert Bvba è sicuramente più antico: per realizzare gli spessi muri sono stati utilizzati le ossa delle gambe di corpi adulti oltre a teschi, interi o a frammenti.
La cattedrale di San Bavone, in fiammingo Sint-Baafskathedraal, è l'edificio religioso più importante della città belga di Gand.
Siamo nella regione delle Fiandre e questa struttura rappresenta uno dei migliori esempi di architettura in stile gotico brabantino, ovvero secondo il gusto fiammingo.
Secondo l'archeologo Janiek de Gryse le strutture «furono probabilmente costruite quando il cortile della chiesa fu sgombrato per fare spazio a nuove sepolture».
Gli unici documenti che fanno riferimento al cimitero risalgono però al 1784, quando la cattedrale smise di accettare nuove sepolture per mancanza di spazio.
E' plausibile quindi che le tumulazioni più antiche fossero state già rimosse e che, non sapendo dove scaricare le ossa, le abbiano utilizzate al posto di pietra e mattoni.
«Quando si "cancella" un cimitero, gli scheletri non possono essere semplicemente gettati via – prosegue de Gryse – . Dato che i fedeli credevano in una risurrezione del corpo, le ossa erano considerate la parte più importante». Ma «non ci sono altri termini di paragone in Belgio: avevamo trovato fosse comuni, ma mai muri costruiti intenzionalmente con ossa umane».
Non si sa dove siano finite le restanti ossa e soprattutto quanti corpi siano stati utilizzati: un calcolo di cui ora si occuperà l'Università di Gand, dove le ossa saranno esaminate e inventariate.
Fonte: www.lastampa.it
Lítla Dímun: la minuscola isola avvolta da una nuvola lenticolare
Lítla Dímun è la più piccola delle 18 isole principali delle Faroe. Nonostante la sua dimensione contenuta in 0,82 chilometri quadrati di superficie, il piccolo scoglio è in grado di influenza l’atmosfera. Sulla sommità di Lítla Dímun, che oltrepassa i 400 metri di altezza sul livello del mare, si forma spesso una nuvola lenticolare, che avvolge l’area come una specie di coperta bagnata e vaporosa.
Le nuvole lenticolari si formano in genere sulle vette delle montagne o su altre masse di roccia sporgenti, e a Lítla Dímun prende corpo sulla sommità per poi spostarsi sulla parte inferiore e sparire verso il gelido mare del nord.
Di tutte le 18 isole principali delle Faroe, Lítla Dímun è l’unica che è rimasta disabitata dagli esseri umani, ma questo non significa sia disabitata in senso generale.
Per secoli gli abitanti delle isole limitrofe hanno utilizzato lo scoglio come pascolo per il bestiame, lasciando a vivere le pecore allo stato brado e venendo a prenderle, di tanto in tanto, per la loro tosatura.
La storia degli animali dell’isola affonda le radici all’epoca neolitica, quando un primo gregge fu portato a Lítla Dímun per popolarla.
Gli animali erano delle pecore nere dalla coda corta, che popolarono l’area sino alla metà del XIX secolo.
In un anno imprecisato dell’800 l’ultima delle pecore nere di Lítla Dímun fu uccisa, e gli allevatori locali ripopolarono i pascoli con alcune pecore domestiche delle Fær Øer.
Ogni autunno gli allevatori raggiungono Lítla Dímun, scalano le sue scivolose scogliere e tosano le pecore.
Nonostante la natura impervia dello scoglio, su Lítla Dímun si è addirittura combattuta una battaglia.
Lo scontro vide Brestur, padre di quel Sigmundur che fu il missionario che introdusse il cristianesimo alle Faroe, e Gøtuskeggjar.
Lo scontro si concluse con la morte di Brestur e dei suoi seguaci e la deportazione di Sigmundur Brestirson in Norvegia.
Qui, il figlio di Brestur conobbe e divenne amico di Olaf Trygvasson, Re di Norvegia dal 995 al 1000, che lo mandò indietro alle Faroe per prenderne possesso in nome della Corona Norvegese. Lítla Dímun, come tutte le altre 17 isole dell’arcipelago delle Faroe, nel 1397 entrò a far parte delle proprietà congiunte fra Danimarca e Norvegia, ma nel 1814, dopo il trattato di Kiel, la Corona Danese fu l’unica a mantenere la proprietà dell’arcipelago.
La piccola isola venne venduta dalla Danimarca nel 1852, e da allora è rimasta di proprietà degli allevatori delle isole limitrofe, che la usano, oggi come migliaia di anni fa, come placido pascolo per le proprie pecore.
Fonte: vanillamagazine
sabato 22 febbraio 2020
mercoledì 19 febbraio 2020
I magnifici disegni nella Stanza Segreta di Michelangelo a Firenze
Nel 1530, per fuggire all’ira dei Medici di ritorno a Firenze, Michelangelo si rintanò in una minuscola stanza segreta sotto la Cappella Medicea della Basilica di San Lorenzo.
L’artista era terrorizzato dal ritorno dei signori di Firenze perché aveva sostenuto la rivolta che li aveva fatti cacciare, nel 1527, ed era stato attivissimo nel governo repubblicano della città, giungendo ad acquisire incarichi di grande rilevanza.
Quando i Medici tornarono, nell’Agosto del 1530, Michelangelo sapeva di rischiare la propria vita come “ribelle”, e si nascose alla vista dei signori fiorentini e dei loro seguaci.
All’interno di una piccola stanza sotto la Sagrestia Nuova della Basilica di San Lorenzo il geniale artista toscano trascorse un periodo di circa 2 (o 3) mesi, in attesa di riuscire a sbloccare la situazione.
Michelangelo trascorse dentro le quattro mura un periodo di circa 2 mesi, dal 12 Agosto del 1530 fino alla fine di settembre dello stesso anno, quando riuscì infine a scappare a Venezia.
Il Buonarroti non dormì all’ombra del Campanile di San Marco ma nell’isola della Giudecca, entrando molto poco a far parte del tessuto sociale della città.
Pochissimo tempo dopo Papa Clemente VII (alias Giulio Zanobi di Giuliano de’ Medici) perdonò Michelangelo, e questi tornò al lavoro per completare la Basilica di San Lorenzo, nel centro di Firenze.
Il nascondiglio che ospitò Michelangelo Buonarroti per 2 mesi circa, fuggiasco nel cuore della Firenze Medicea, rimase segreto per oltre 4 secoli quando, nel 1975, l’allora direttore del Museo del Bargello, dal quale dipendono le Cappelle Medicee, Paolo del Poggetto, decretò l’inizio dei lavori per una nuova uscita di sicurezza dall’importante monumento.
Gli operai al lavoro iniziarono a rimuovere l’intonaco e di fronte a loro si palesarono i disegni di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.
Michelangelo Buonarroti aveva lasciato una traccia del suo periodo da fuggiasco con dei graffiti in tutta la stanza.
Aveva disegnato il volto di Laocoonte, il suo David, finito di scolpire circa 25 anni prima, riletture della Leda, alcuni disegni della Cappella Sistina e infine una figura china su se stessa che in molti vogliono un autoritratto di Michelangelo stesso, rinchiuso in un ambiente di 2 metri per 7 per circa 2 mesi.
La piccola stanza, scoperta ormai 45 anni fa, è stata visitata da pochi appassionati e studiosi, ma presto, si spera entro questo 2020, potrebbe aprire al pubblico, diventando parte integrante del percorso museale delle Cappelle Medicee.
Fonte: vanillamagazine.it
Scoperto un sarcofago del VI secolo a.C. nel Foro Romano: è la tomba di Romolo?
Un' eccezionale camera sotterranea è stata scoperta a Roma, dove sorgevano l’antica piazza del Comizio e l’edificio della Curia.
Al suo interno vi era un sarcofago in tufo lungo circa 1,40 metri, associato a un elemento circolare, probabilmente un altare.
Il sarcofago era stato scavato nel tufo del Campidoglio e dovrebbe pertanto risalire al VI sec. a.C.
L’incredibile ipotesi è che potrebbe essere il sepolcro di Romolo, fondatore della città di Roma.
Le indagini archeologiche erano iniziate un anno fa sulla base del lavoro dell’archeologo Giacomo Boni all’inizio del ‘900.
I documenti di Boni avevano consentito di ipotizzare la presenza di un sepolcro (un heroon) dedicato a Romolo nel Foro Romano, a pochi metri dal sito del Lapis Niger e dalla piazza del Comizio.
Il sito si trova sotto la Curia e, evidentemente, era stato preservato per il suo significato simbolico.
Secondo la lettura di un testo di Varrone, coincide col luogo della sepoltura di Romolo, proprio dietro le tribune del Foro Romano (i rostri repubblicani).
Non è un caso che la camera sotterranea scoperta sia sull’asse del Lapis Niger, la pietra nera indicata come luogo funesto perché correlato alla morte di Romolo.
Ulteriori dettagli dello scavo saranno illustrati venerdì dalla direttrice del Parco archeologico del Colosseo, Alfonsina Russo, e dalla squadra di archeologi e architetti coinvolti nella ricerca.
Fonte: ilfattostorico
lunedì 17 febbraio 2020
Maldive, due sub italiani salvano uno squalo balena impigliato nella rete dei pescatori
Reti, pezzi grandi o spezzoni piccoli con un unico denominatore comune, la plastica indissolubile che inquina e ammazza gli animali marini.
Un tappeto di plastica che imprigiona anche le tartarughe e i delfini e sta aumentando vistosamente.
Due sub italiani, Simone Musumeci e Antonio Di Franca, durante un’immersione alle Maldive si sono imbattuti in uno squalo balena, considerato il pesce più grande al mondo, che era rimasto impigliato in una rete da pescatori.
Secondo quanto hanno raccontato, lo squalo era lungo 4 metri. I due sub hanno tagliato la rete con dei taglierini e l’operazione, avvenuta alla profondità di 14 metri, è durata 10 minuti.
Una volta libero, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, lo squalo se ne è andato, ma poco dopo è tornato come se volesse ringraziare i due sub.
“È stato il più bel momento delle nostre vite, non lo scorderemo mai!”, hanno raccontato i ragazzi.
Lo squalo balena non rappresenta alcun pericolo per l’uomo, perché si nutre quasi esclusivamente di plancton, filtrando il cibo con le branchie.
domenica 16 febbraio 2020
L’antico sistema di drenaggio scoperto sotto la città di Pompei
Molto sotto le ampie strade di pietra lavica dell’antica città di Pompei, una vasta rete di sistemi di drenaggio dell’acqua un tempo forniva sollievo alla città durante i temporali, raccogliendo l’acqua piovana in eccesso e drenandola in mare.
Dal 2018, gli speleologi che lavorano con il Parco archeologico di Pompei hanno esplorato 457 metri di passaggi sotterranei nel tentativo di studiare il sistema di drenaggio dell’acqua piovana della città.
Si ritiene che una rete di tunnel e canali che si snodano da una coppia di cisterne poste sotto il centro città, sia stata costruita nel corso di tre fasi: una fase ellenistica iniziale nel III secolo a.C., una seconda fase nel tardo repubblicano intorno al I secolo a.C., e una terza fase corrispondente all’età augustea e imperiale poco prima della fine della città nel 79 d.C.
Gli esperti hanno ripulito i tunnel dai depositi di pietre che si erano accumulate nel corso dei secoli, nel tentativo di ripristinare la funzionalità del sistema.
Hanno anche identificato potenziali problemi e soluzioni necessarie per mantenere funzionanti i tubi di drenaggio nel rispettando il sito archeologico.
Complessivamente, il lavoro mira ad ampliare la nostra comprensione del sito, che è essenziale per monitorare e salvaguardare le sue caratteristiche storiche.
Il ripristino dei tunnel dimostra che c’è ancora molto da scoprire sull’antica città.
“Inoltre, molte lacune nelle conoscenze del passato relative a determinati aspetti o aree della città antica vengono colmate, grazie alla collaborazione di esperti in vari settori, che ci consentono di raccogliere dati sempre più accurati grazie a competenze specializzate che non erano mai state impiegate in altri periodi di scavo o studio “, ha dichiarato il direttore generale del parco Massimo Osanna.
La prima fase del progetto è terminata alla fine di gennaio.
Gli esperti affermano che ora lavoreranno per riutilizzare canali e le cisterne per continuare a drenare correttamente l’acqua.
Tratto da: www.iflscience.com
mercoledì 12 febbraio 2020
Karma: cos’è e come funziona la legge karmica
Il termine “Karma” al giorno d’oggi è spesso usato con leggerezza e scarsa comprensione della sua profondità.
Molte persone affermano “è il mio karma”, riferendosi ad eventi fortunati o sfortunati nelle loro vite.
Tuttavia quest’accezione non potrebbe essere più lontana dalla realtà: l’uso della frase “è il mio karma” suggerisce vittimismo e passività, mentre il Karma è esattamente l’opposto.
Le buone azioni sono ciò che la società moderna ci insegna a fare, di tanto in tanto o periodicamente, quando vogliamo sentirci in pace col mondo o con il prossimo.
A Natale si fa volontariato, si dona ciò che non si usa più, si lascia qualche spicciolo ad un senzatetto incrociato per strada, si danno indicazioni ad uno straniero anche se si fa fatica a comunicare. Tutti questi gesti, grandi e piccoli, sono ciò che viene comunemente definito una “buona azione”.
Ma una buona azione è davvero il semplice gesto di aiutare chi ne ha bisogno in quel momento e poi andarsene a casa?
In India la maggior parte delle religioni e delle filosofie danno a questo concetto della “buona azione” il nome di Karma.
Il termine è un’occidentalizzazione della parola sanscrita “Karman” ( कर्मन् ) , che si può tradurre approssimativamente in “azione”.
Quello che per noi rappresenta un semplice gesto (positivo o negativo che sia), per i seguaci di queste filosofie o religioni è un concetto molto più profondo: il Karma è il principio di azione e reazione, di giusta legge universale, poiché ogni nostra azione coinvolge altri esseri viventi e questo porta a delle conseguenze che, presto o tardi, si ripercuoteranno su di noi.
Per questo motivo buddisti e induisti cercano sempre di agire secondo questa legge, poiché non solo influenza la loro vita attuale, ma ha ripercussioni anche nel ciclo della reincarnazione in cui credono fermamente e che è inscindibile dal Karma stesso, in quanto è la legge universale che lo regola.
Davanti a queste credenze il nostro concetto di “buona azione” perde il suo potere di appagamento momentaneo in favore di una filosofia di vita molto più spirituale.
Ma dove nasce esattamente il concetto di Karma?
Il termine Karma e la sua concezione risalgono a circa l’ottavo secolo a.C. e sono menzionati nelle Upaniṣad, un insieme di testi e riflessioni religiose e filosofiche indiane trasmesse solo per via orale.
Oggi è un concetto molto centrale nel Buddhismo e nell’Induismo poiché al centro della credenza cardine di queste religioni: la reincarnazione.
Il suo significato etimologico significa “fare, causare”, da qui il motivo per cui viene considerato come una legge.
Tratto da : meditazionezen.it
martedì 11 febbraio 2020
Le Grotte di Elephanta in India
Le Grotte di Elephanta si trovano su una piccola lingua di terra lunga meno di 2 chilometri, un’isola nel Mar Arabico, a pochi chilometri da Mumbai sulla costa occidentale dell’India.
Il nome dell’isola è cambiato varie volte nel corso dei secoli. Se anticamente si chiamava Puri o Purika in seguito prese quello di Gharapuri (Città delle grotte).
Con il dominio portoghese l’isola assunse il nome attuale di Elephanta per la presenza di una enorme statua oggi conservata nel giardino del Museo Bhau Daji Lad di Mumbai (Dr. Bhau Daji Lad Mumbai City Museum).
Le grotte dell’isola Elephanta furono costruite probabilmente tra il V e l’VIII secolo d.C.
Gli studiosi hanno tuttavia ancora molti dubbi su chi furono i costruttori di queste imponenti costruzioni. L’attribuzione propende verso i Chalukyas (o Chaluykae) o i Kalacuri.
Due grotte sono buddiste mentre le altre cinque sono indù le cui statue e rilievi sono dedicati a Brama, Vishnu e Shiva.
Proprio la grotta principale è universalmente famosa per le sue sculture dedicate alla gloria di Shiva, che viene esaltata in vari modi.
La grotta è composta da un mandapa (una sala con pilastri usata per i riti pubblici pubblici) a pianta quadrata i cui lati misurano circa 27 m. Il turista, come i credenti dello Shivaismo, hanno modo di ammirare anche due grandi pannelli intagliati che rappresentano, a sinistra, Shiva Yogisvara (Maestro di Yoga) e, a destra, Shiva Nataraja (Re della Danza).
L’architettura è una parte di grande importanza per conoscere la storia e la cultura dell’India. Ci sono più di 1.500 strutture scolpite in tutto il paese, più che in qualsiasi altra parte del mondo. Le Grotte di Elephanta (grotte dell’Elefante) sono solo una piccola parte della straordinaria architettura rupestre dell’India, come i templi scavati ad Ajanta.
La grotta di Elephanta è stata dichiarata patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1987.
Fonte: caffebook.it
lunedì 10 febbraio 2020
Anche i Vichinghi amavano i giochi da tavola: ritrovato in un’isola britannica un raro pezzo di 1200 anni fa
Rozzi, violenti e quanto mai barbari? I Vichinghi in realtà amavano anche i giochi da tavola.
Nel corso di uno scavo in un monastero britannico sull’isola di Lindisfarne, al largo della costa nord orientale inglese, è stato ritrovato un raro pezzo risalente alla loro epoca.
L’incredibile ritrovamento è avvenuto in realtà a settembre 2019 ma solo da poco se ne è scoperta l’importanza.
Lo scavo, condotto da DigVentures e Durham University, ha dato alla luce anche parte dell’iconico monastero.
Nel 793 d.C il famoso popolo antico fece un vero e proprio assalto al monastero ed è proprio da quella data che gli storici fissano l’inizio della dominazione vichinga in Gran Bretagna.
Il pezzo di gioco risale ad un periodo compreso tra il 700 e il 900 d.C. e non è quindi certo che sia stato prodotto dai Vichinghi, ma probabilmente da loro usato.
Realizzato in vetro blu brillante e impreziosito da un anello di cinque bobine bianche, per gli archeologi è stato un capolavoro e proviene probabilmente da un set utilizzato per giocare a una versione unicamente britannica del romano Ludus Latrunculorum, gioco di guerra in voga in Gran Bretagna, Danimarca, Islanda, Irlanda, Norvegia e Svezia prima dell’arrivo degli scacchi nell’XI-XII secolo.
“Molte persone avranno familiarità con le versioni del gioco e sono sicuro che molte persone si chiederanno se questo pezzo di gioco è stato lasciato cadere da un vichingo durante l’attacco a Lindisfarne – spiega Lisa Westcott Wilkins, Amministratore delegato di DigVentures – ma in realtà crediamo che appartenga a una versione del gioco utilizzato dall’élite della Gran Bretagna del Nord prima che i Vichinghi mettessero piede qui”.
Un vero gioiello non solo per il valore in sé, quindi, ma anche perché consente oggi di ricostruire un altro tassello della vita dei monasteri e persino degli stessi barbari, che molto probabilmente non disdegnavamo queste attività ludiche.
“Questa è una scoperta davvero meravigliosa, che ci fornisce una visione molto speciale della vita nel monastero in quel momento – riferisce a tal proposito David Petts, della Durham University, che co-dirige lo scavo con DigVentures – È simile a una serie di altri esempi trovati in insediamenti e siti commerciali intorno al Mare del Nord, e ci mostra non solo che c’erano persone su Lindisfarne che avevano tempo libero, ma anche come fossero ben collegate.
Giunto alla sua quarta stagione, lo scavo ha rivelato anche parte di un cimitero e di un laboratorio entrambi risalenti al 700-1000 d.C. quando l’attività sull’isola era al suo apice.
Fonte: greenme.it
venerdì 7 febbraio 2020
L’enigma della Maschera in Pietra Verde scoperta nella Piramide del Sole a Teotihuacan
Il Messico possiede una terra ricca di reperti archeologici che consentono di comprendere la sua antichissima storia precolombiana.
Una delle strutture più celebri, la Piramide del Sole, è colma di tesori ancora tutti da scoprire.
La Piramide del Sole, il più grande edificio di Teotihuacan, è stata studiata approfonditamente dagli archeologi che sono sicuri che sia stata costruita intorno al 100 d.C. Sebbene siano stati rinvenuti pochi reperti sul posto, nel 2011 i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico (INAH) fecero una scoperta sorprendente.
Usando un tunnel lungo circa 120 metri scavato dagli archeologi negli anni ’30, il gruppo fu in grado di raggiungere il livello della madre-roccia.
Una volta lì, scoprirono un raro scrigno di tesori. Trovarono frammenti di terracotta, ossa di animali, pezzi di ossidiana, tre figurine umane e una straordinaria maschera.
La maschera verde è particolarmente interessante perché, al momento della sua scoperta, rappresentava l’unica maschera del suo genere che si trovava in un contesto rituale a Teotihuacan.
Si ritiene che queste offerte siano state lasciate come parte di un rituale per celebrare la costruzione della piramide, e da qui la sua posizione al livello della roccia.
La maschera è estremamente realistica, il che ha fatto pensare che si tratti, in realtà, di un ritratto.
Nonostante a noi europei possa sembrare usuale, gli esperti spiegano che questo sarebbe un caso più unico che raro perché non esistono praticamente informazioni riguardo le persone che costruirono Teotihuacan.
L’etnia degli abitanti di Teotihuacan è oggetto di studi, e i possibili gruppi etnici dei suoi costruttori sono i Nahua, gli Otomi o i Totonachi.
Persino il nome della grande Piramide (ma anche di Teotihuacan stesso) non è originale, perché furono gli Aztechi, secoli dopo che il sito fu abbandonato, a darle nome “Piramide Del Sole”.
Fonte: vanillamagazine.it
mercoledì 5 febbraio 2020
Filippine, la sorgente letale sul fondo del mare che rimane un "mistero"
Se in fondo all'Artico si nasconde il Dito della morte, una corrente in grado di ghiacciarsi all'istante diventando una stalattite e intrappolando tutto quello che trova, al largo delle Filippine si trova uno sfiato altrettanto «letale».
Immergendosi nel Verde Island Passage, stretto tratto di oceano fra le isole di Luzon e Mindoro, per puro caso i ricercatori dell'University of Texas Jackson School of Geosciences di Austin hanno avvistato un insolito «punto gorgogliante»: una sorgente sotterranea di anidride carbonica pura.
Sotto la superficie marina del Verde Island Passage si trova uno degli ecosistemi marini più diversificati al mondo.
Qui le barriere coralline, a differenza di molte altre della zona, sono fiorenti e non soffrono lo
martedì 4 febbraio 2020
L’anemone e il pesce pagliaccio
Molte specie hanno deciso di darsi una mano a vicenda per ottenere un reciproco vantaggio: “L’unione fa la forza”.
Simbiosi e mutualismo sono strategie per vivere meglio o, addirittura, per sopravvivere.
Se si è un piccolo pesce in un ambiente pericoloso come una barriera corallina, quale migliore difesa che vivere in una fortezza di cellule urticanti? È proprio quello che fanno i pesci pagliaccio, un gruppo di pesci tropicali dell’Indo-Pacifico resi famosi dal film d’animazione “Alla ricerca di Nemo” della Pixar Animation Studios.
Questi pesci vivono in simbiosi con le anemoni, invertebrati imparentati con le meduse.
I pesci pagliaccio riescono a evitare le punture perché sono rivestiti da un muco protettivo che impedisce ai tentacoli dell’anemone di rilevarli come nemici.
Per il pagliaccio il vantaggio è ovvio e, infatti, questi pesci sono molto gelosi delle loro “anemoni personali”.
In cambio l’anemone riceve un servizio di sorveglianza contro i pesci farfalla che possono attaccare le sue parti non protette.
In un’unica anemone s’incontrano solitamente più pesci: quella più grande è la femmina, di solito accompagnata da un maschio maturo e spesso da altri maschi giovani.
Se la femmina muore o scompare il maschio più grande cambia sesso, prendendo il posto della compagna, mentre l’individuo giovane di taglia maggiore diventa il maschio dominante.
Tutto questo però non si vede in Nemo: forse il cambio di sesso era un tema un po’ audace per un film di animazione.
Fonte: https://rivistanatura.com/
lunedì 3 febbraio 2020
Ercolano: resti di cervello vetrificato in una vittima dell'eruzione
I resti di un cervello vivo e attivo 2000 anni fa sono stati ritrovati nel corpo di una vittima dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., un uomo che ancora "riposa" nel Parco Archeologico di Ercolano.
La scoperta appena pubblicata sul New England Journal of Medicine, rappresenta un traguardo scientifico di eccezionale valore.
In primo luogo, perché la conservazione di tessuto cerebrale è un evento molto raro in ambito archeologico, e poi perché il materiale in questione è vetrificato: trasformato dal calore estremo in un frammenti simili a ossidiana (un vetro vulcanico) ma molto più fragili.
La ricerca è stata coordinata da Pier Paolo Petrone, antropologo dell'Università Federico II di Napoli che da oltre 20 anni studia gli effetti delle eruzioni del Vesuvio sul territorio campano e sulla sua popolazione.
«Le poche testimonianze di materiale cerebrale ritrovato in ambito archeologico riguardano esclusivamente tessuti saponificati (gli acidi grassi, in ambiente umido-freddo, si tramutano in sapone)» spiega Petrone «Inoltre, resti di cervello vetrificati, come in questo caso, non sono stati mai prima rinvenuti né in contesti archeologici, né in ambito forense (medico-legale e giudiziario). E neppure in altre vittime di Ercolano, né in altri siti sepolti dall'eruzione del Vesuvio».
I frammenti di vetro-cervello sono stati individuati nel cranio del presunto custode del Collegio consacrato al culto di Augusto, un edificio religioso dell'antica Ercolano.
I resti dell'uomo furono rinvenuti negli anni '60, ma la scoperta delle "schegge" di tessuto cerebrale è avvenuta durante un recente sopralluogo, mentre Petrone e colleghi documentavano gli effetti del calore sullo scheletro carbonizzato della vittima.
Nel 79 d.C., l'eruzione del Vesuvio investì con valanghe di ceneri Pompei, Ercolano e l'intera area vesuviana nel raggio di 20 km dal vulcano.
Come accertato in precedenza dallo stesso Petrone, il custode morì (come i suoi concittadini) istantaneamente e per uno shock termico fulminante, non per effetto dei gas soffocanti.
«In natura la vetrificazione si verifica raramente - chiarisce Petrone - ed è ancor più rara in ambito archeologico, dove gli unici casi conosciuti riguardano tessuti vegetali, in particolare il legno carbonizzato.
Essa si ottiene riscaldando i materiali fino a quando non si liquefano e quindi raffreddando il liquido rapidamente, in modo che passi attraverso la transizione vetrosa per formare un solido.
Ed è questa l'esatta sequenza di eventi che debbono essersi verificati nel caso della vittima del Collegio degli Augustali.
I resti del cervello, esposti all'alta temperatura della cenere vulcanica, devono essersi prima liquefatti e subito dopo solidificati in una massa vitrea dal colore nero».
Alla ricerca hanno preso parte anche Massimo Niola, del Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate della Federico II, Piero Pucci del CEINGE (che ha condotto l'analisi per l'identificazione e la caratterizzazione delle proteine presenti nei frammenti) e Francesco Sirano, direttore del Parco Archeologico di Ercolano.
Un altro fatto eccezionale riguarda la composizione del materiale vetroso: al suo interno sono state identificate diverse proteine altamente rappresentate nei tessuti cerebrali umani (per esempio nella corteccia cerebrale, nel cervelletto, nell'ipotalamo e nell'amigdala) insieme ad acidi grassi tipici dei capelli e trigliceridi del cervello.
L'ipotesi è che l'alta temperatura dei flussi piroclastici che investirono Ercolano abbia bruciato il grasso e i tessuti corporei in modo simile a a quanto documentato per le vittime dei bombardamenti di Dresda ed Amburgo durante la Seconda Guerra Mondiale.
È la prima volta in assoluto che si trovano resti di cervello umano vetrificati per effetto del calore di un'eruzione vulcanica.
«Perché ad Ercolano un tale tipo di fenomeno si sia verificato solo in questo caso è presumibile sia dovuto alle condizioni ambientali a cui è stato esposto l'individuo al momento dell'impatto con la nube vulcanica: una temperatura di circa 500 °C (480-520 °C) e un breve tempo di esposizione al calore (dati accertati analizzando i frammenti di carbone provenienti dal Collegio). Recenti studi - continua Petrone - hanno infatti verificato che la vetrificazione di materiale ligneo in contesto archeologico può avvenire solo in un ristretto ambito di temperature comprese tra 310 e 530 °C, del tutto comparabili a quelle da noi determinate ad Ercolano».
Fonte : focus.it
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