venerdì 28 aprile 2017
Cos'è un hashtag
Non esiste social network che non li usi, sempre più eventi ne lanciano uno per potersi sponsorizzare su internet. Anche i programmi tv ne hanno sempre uno.
Ma cos'è un hashtag?
Cosa significa e come funziona di preciso questa funzione che da alcuni anni a questa parte è diventata di uso comune tra tutti?
Se volete sapere cos'è un hashtag, intanto dobbiamo dire che si tratta di un tag, un'etichetta, usata sul web per aggregare le discussioni e i file legati a un determinato argomento. Diversamente dai tag, che vengono associati a un file o a un articolo, l'hashtag è inserito direttamente nel testo, con l'obiettivo di renderne l'inserimento più semplice all'utente e comprendere il tema in modo più immediato al lettore.
Per rendere possibile questo, diversamente dai tag semplici l'hashtag è preceduto da un cancelletto, che in inglese è chiamato "hash": per questa ragione questo tipo di etichette hanno ottenuto il nome di hashtag.
Ora che abbiamo visto cos'è un hashtag, vediamo quando è nato e come mai è diventato uno strumento così diffuso.
Il primo social network a fare uso di questo tipo di etichette è stato Twitter, dove nel 2007 un utente, Chris Messina, propose di usare parole precedute da un cancelletto per evidenziare il tema della discussione e raggruppare tutti i tweet a riguardo.
Lo stesso anno, l'utente Nate Ritter ne utilizzò uno per raccontare gli incendi che stavano colpendo la città di San Diego, #sandiegofire , che ebbe particolare successo, facendo diventare l'hashtag uno strumento comune.
Ora che abbiamo raccontato cos'è un hashtag, perché si chiama così e qual è la sua storia, è giusto dire qualche parola anche su come sia bene usare un hashtag e come invece possa risultare poco producente.
Ad esempio, su Twitter è bene non utilizzare troppi hashtag in un unico post, saper scegliere bene la parola chiave per il testo che si sta scrivendo e cercare di usarne una o al massimo due.
E' inoltre positivo sceglierne uno intorno al quale si sono già raccolti molti post in modo da non disperdere eccessivamente i risultati ed evitare di usarne di troppo generici.
Fonte: tpi.it
mercoledì 26 aprile 2017
Scoperta tomba egizia di 3mila anni fa a Luxor
Otto mummie custodite in 10 sarcofagi intatti ritrovati in una tomba di 3mila anni fa.
La sensazionale scoperta è avvenuta in Egitto, nella necropoli di Dra Abu el-Naga, vicino alla celebre Valle dei Re. A farla è stata un'equipe di archeologi, guidati da Mostafa Waziry, direttore generale delle Antichità di Luxor.
La tomba risalirebbe al periodo della 21esima dinastia e apparterebbe a un nobile che svolgeva le funzioni di giudice cittadino.
La tomba si trova a sud dell'Egitto e - riferisce la Cnn - ha una struttura a forma di "T", è costituita da un cortile aperto che porta a una sala rettangolare, a un corridoio e a una camera interna dove sono stati trovati sarcofagi con mummie avvolte nel lino.
Il ministro delle Antichità egiziano, Khaled El-Enany, ha spiegato ad Al-Ahram che, nonostante le dimensioni limitate della tomba, si tratta di un'importante scoperta per la presenza di un corredo funerario in gran parte intatto.
Sono state rinvenute bare in legno decorate, maschere funerarie e quasi mille statuine (ushabti) in terracotta e legno.
E' stata trovata anche una collezione di vasi di terracotta di varie forme e dimensioni
Fonte: huffingtonpost.it
lunedì 24 aprile 2017
Venta Rapid, la cascata più bassa del mondo e più larga d'Europa
La Venta Rapid è una delle più piccole cascate del mondo e si trova a Kuldīga in Lettonia.
La sua particolarità è che nonostante le dimensioni ridotte, essa ha una larghezza impressionate, la più ampia d’Europa.
La Venta Rapid o Ventas Rumba come la chiamano i lettoni raggiunge, infatti, fino a 270 metri di larghezza e anche nel periodo estivo, quando c’è meno acqua le cascate sono di 250 metri. Lo spettacolo è straordinario considerando che è alta solo 180 centimetri.
Dal 1 gennaio 1997, la Venta Rapid è monumento naturale della Lettonia, sono centinaia i turisti e gli appassionati di escursionismo che la visitano soprattutto nei periodi dell’anno meno freddi. Dall’alto, la cascata può essere vista in tutta la sua lunghezza, mentre dal ponte di mattoni si riesce a scorgere tutto il letto del fiume Venta che si trova a 200metri a valle dalla Vanta Rapid.
Ma c’è un altro fenomeno che appassiona i visitatori: ogni autunno e inverno qui si può vedere la risalita dei salmoni su per il corso d’acqua.
Tratto da: greenme.it
venerdì 21 aprile 2017
Canada, dietro la casa spunta... l’iceberg
Il primo iceberg della stagione «calda» fa sempre un certo effetto. Stupore, fascino, magia. Ma anche qualche preoccupazione, visto che il piccolo villaggio di Ferryland, sulla costa della regione della Newfoundland, in Canada, è stato letteralmente preso d’assalto da centinaia di turisti e fotografi, professionali e non, nessuno dei quali voleva perdere l’appuntamento con la prima montagna di ghiaccio artica staccatasi dai ghiacciai della Groenlandia.
Risultato: strade bloccate e traffico impazzito. Ma tante foto spettacolari.
Ferryland, all’estremità orientale dell’isola di Newfoundland, è un modesto villaggio abitato da poche famiglie di pescatori. Desolato, ma non per questo poco affascinante.
L’ampio canale che va dalla Baia di Baffin, all’estremo nord, fino alla regione del Labrador e e all’isola di Newfoundland, per concludersi nell’Oceano Atlantico, è anche chiamato «Iceberg Alley», ovvero il corridoio delle montagne di ghiaccio.
In questo «budello» si infilano infatti i grandi ammassi di ghiaccio che si staccano dai ghiacciai della Groenlandia o dalla banchisa nel loro percorso verso Sud, trascinati dalle correnti verso le acque più calde.
La particolare forma dell’iceberg apparso a Ferryland è che sembra molto più largo della media.
Come noto, la parte più imponente della massa di ghiaccio rimane sommersa dalle acque marine (circa il 90%).
Pertanto, passando vicino alla costa, gli iceberg rischiano di incagliarsi sul fondo marino.
Fonte: http://www.corriere.it
Craig P. Burrow, il fotografo che mostra la luce invisibile emessa dalle piante
Craig Burrow racconta di aver iniziato a fotografare le piante, i fiori e la loro luminescenza visibile alla luce ultravioletta, dopo aver visto i lavori di Oleksandr Holovachov's.
Il tipo di fotografia è chiamata (UVIVF), Fluorescenza visibile indotta da radiazione ultravioletta, grazie alla quale, anche le piante più semplici rivelano una bellezza incredibile.
La cosa interessante di questo tipo di fotografia, è che il risultato finale è una sorpresa: non si può prevedere quale fiore darà il risultato più particolare.
La fluorescenza UV è la proprietà che posseggono alcuni corpi di emettere radiazioni di energia minore, quindi a maggiore lunghezza d'onda, nella banda del visibile quando sono sottoposti ad irraggiamento con radiazione UV.
Quando questo avviene si dice che la sostanza è fluorescente. Il fenomeno, che termina in pratica quando cessa l'eccitazione (con ritardi nell'ordine di 10-9 – 10-3s), ha spesso entità molto modesta e risulta osservabile solo in un ambiente totalmente oscurato e dopo un adattamento visivo dell'occhio a bassi livelli di luminosità.
Ogni volta che un fiore è esposto alla luce solare, emette la una luminosità, ma il nostro occhio non riesce a percepirla, dato che è inondato dalla luce: semplicemente queste foto catturano qualcosa che è sempre presente, ma che non riusciamo a cogliere ad occhio nudo.
Fonte: traccediclorofilla.com
giovedì 20 aprile 2017
Edimburgo sotterranea e noir, le strade dannate del Mary King’s Close
«Non tutta la storia di Edimburgo è in ciò che appare.
Nascosti nell’ombra delle profondità, sotto il livello delle strade battute dai turisti, la capitale della Scozia nasconde molti segreti. Stretti cunicoli e case abbandonate che sono stati teatro di pestilenze e persecuzioni durante il XVII° secolo , storie di streghe, distillerie illegali e fantasmi.
Venite, andiamo a scoprirli».
In cima a una ripida scala di pietra, la guida in costume dalla voce teatrale e misteriosa accenna con la testa alla prossima discesa. Benvenuti nell’oscuro The Real Mary King’s Close, proprio sotto il Royal Mile, la via centrale della città.
Durante il XVII° secolo, la città vecchia di Edimburgo soffrì di un penoso sovraffollamento.
Le mura, che erano state pensate per proteggere i residenti, diventarono l’impedimento principale all’espansione verso l’esterno, così le case finirono per essere costruite sempre più vicine e strette e crebbero in altezza fino a otto piani.
Una ragnatela di cunicoli si irradiava dalla via principale e poteva essere sbarrata alle estremità durante la notte, in modo da tenere fuori gli «indesiderabili».
I più ricchi vivevano nei piani alti, dove le case ricevevano più luce e il fetore dei liquami era meno pungente, mentre i più poveri vivevano al buio anche di giorno, in squallidi sotterranei nei quali si trovava rinchiuso anche il bestiame, con le fogne che scorrevano davanti alle loro porte più volte al giorno.
Nessuna sorpresa se in simili condizioni igieniche la città veniva periodicamente sconvolta dalle epidemie.
Alcune testimonianze storiche affermano che in questo quartiere sotterraneo nel 1600 venissero murati vivi gli appestati.
Tra le tante storie noir, la visita guidata vi racconterà anche di due killer famelici, Burke e Hare, procacciatori di cadaveri per gli studenti di anatomia della prestigiosa università cittadina.
E poi distillerie illegali di whisky, covi di contrabbandieri e alcove di prostitute, negozi, abitazioni infestate da fantasmi e cerchi di pietre allestiti per rituali di streghe.
Ma ci sono anche storie commoventi, come quella del fantasma di Annie.
La sua fama si deve alla serie televisiva realizzata da Aiko Gibo, medium e parapsicologa tra le più importanti del Giappone. In una delle puntate della serie, dopo aver visitato uno dei locali sotterranei, «Gibo ebbe l’impressione che qualcosa si fosse aggrappato ai suoi pantaloni - racconta la guida - e quando si girò per vedere di cosa si trattava, vide una bambina di 5 anni che piangeva.
Le chiese chi fosse e perché fosse lì e la bambina rispose che si chiamava Annie e che nel 1644 era stata abbandonata dalla sua famiglia perché aveva la peste.
Le disse anche che piangeva perché aveva perso la sua bambola di pezza, l’unica cosa che ancora avesse al mondo.
La medium, commossa, uscì dai sotterranei e andò a comprare una bambola di pezza, poi tornò giù e la lasciò appoggiata al muro della stanza dove aveva visto Annie e la sensazione di dolore e di freddo che aveva sentito prima scomparve».
Da allora migliaia di visitatori visitano la casa di Annie, portandole decine di pupazzi.
Fonte: lastampa.it
mercoledì 19 aprile 2017
Torre dell' Orso e la leggenda delle due sorelle
Torre dell’Orso è una splendida località balneare che si trova nel Salento, un luogo suggestivo e insignito dalla Bandiera blu e delle cinque vele di Legambiente che ne testimoniano anche la sostenibilità turistica.
Torre dell’Orso, assieme a Roca Vecchia, San Foca, Torre Sant’Andrea e Torre Specchia, fa parte delle Marine di Melendugno.
E’ una delle baie salentine più grandi e anche più amate da centinaia di turisti che ogni anno, la scelgono per trascorrere le vacanze estive.
Torre dell’Orso è annoverata come una tra le migliori località balneari della costa adriatica, grazie alla sue spiagge e alla limpidezza del suo mare cristallino.
Qui si trova sabbia bianchissima e accecante, incorniciata da una folta vegetazione tipica della macchia mediterranea.
Quindi accanto a fondali marini limpidi c’è anche una perfetta armonia con la natura.
Non a caso, viene considerata una delle spiagge più belle del Salento.
Lo scenario di Torre dell’Orso è caratterizzato da due faraglioni che nascondono una leggenda, quella delle due sorelle.
C’erano una volta due sorelle bellissime che trascorrevano una giornata come tante vicino al mare per godersi la brezza marina sulle selvagge scogliere del Salento.
Si narra che una delle due sorelle era salita sul punto più alto, rapita dall’ipnotico fragore delle onde del mare e dal profumo di salsedine.
Una sensazione di richiamo che fece perdere i sensi alla giovane, tanto da indurla a gettarsi dalla scogliera per fondersi con il mare. Una volta in acqua però, quell’incanto e quell’illusione sparirono del tutto, lasciando spazio alla paura e al terrore.
La donna si dimenava e l’altra sorella, sentendola gridare, si gettò nel mare di Torre dell’Orso.
Ma entrambe non fecero mai più ritorno, i loro corpi furono trasformati in due faraglioni sotto lo sguardo attonito di un pescatore che aveva assistito alla scena e che battezzò le due strutture rocciose con il nome di ‘le due sorelle’.
Dominella Trunfio
martedì 18 aprile 2017
Spettrali torri di tufo e acqua alcalina formano un paesaggio alieno ai piedi della Sierra Nevada
Un piccolo gioiello incastonato ai piedi della Sierra Nevada, con acque scintillanti che in alcuni momenti della giornata - in particolare al tramonto e all'alba - assumono la caratteristica colorazione rosa.
Il Mono Lake è uno dei laghi alcalini più antichi d'America ed è reso unico al mondo dalle stravaganti formazioni di tufo che emergono dal suo fondale.
Un paesaggio quasi alieno, ad alta quota nel deserto, formatosi almeno 760 mila anni fa da un'eruzione vulcanica.
Nessun affluente alimenta il Mono Lake e questa mancanza ha causato nei secoli un accumulo di sali che hanno abbassato talmente tanto il ph dell'acqua da renderla tossica per quasi ogni forma di vita.
Unici a resistere alla sua alcalinità sono dei gamberetti che alimentano due milioni di uccelli migratori che ogni anno tornano in questa riserva naturale per nidificare.
Ed è sempre questa particolare composizione chimica ad aver creato queste spettrali torri di tufo .
Il tufo è essenzialmente calcare comune: quello che è raro qui è il modo in cui si forma.
In questo lago esistono delle sorgenti sottomarine ricche di calcio che si mescolano all'acqua ricca di carbonati, generando una reazione chimica così «violenta» da far uscire dall'acqua il calcare che si è formato.
Parliamo di colonne che possono raggiungere anche i nove metri d'altezza, dalle forme più particolari.
I sedimenti presenti sotto lo strato di cenere del fondale suggeriscono che questo specchio d'acqua potrebbe essere un residuo di un lago più grande e antico che un tempo ricopriva gran parte del Nevada e dello Utah.
Oggi la sua acqua salmastra è due volte e mezzo più salata rispetto all’oceano e il livello è sceso drasticamente: una condizione che sta mettendo a rischio l'ecosistema circostante, più fiorente di quanto si possa pensare.
Fonte: lastampa.it
Il gambero Pink Floyd uccide con il suono
Secondo una diffusa leggenda metropolitana, nel 1971, durante un concerto al London's Crystal Palace, i Pink Floyd suonarono così forte da uccidere i pesci del laghetto che separava il palco dal pubblico.
Una nuova specie di gambero pistolero, il cui nome si ispira a quello della band, produce, con la sua sproporzionata chela rosa, un rumore talmente assordante, che mette ko i piccoli pesci di cui poi si nutre.
Il Synalpheus pinkfloydi, come è stato chiamato il crostaceo, è stato scoperto al largo delle coste di Panama, dai ricercatori dell'Oxford University Museum of National History, dell'Universidade Federal de Goiás (Brasile) e della Seattle University (USA).
Come gli altri "gamberi pistola" della famiglia degli Alpheidae, ha una chela più sviluppata dell'altra, che apre e richiude velocemente producendo schiocchi che arrivano a 210 decibel, più forti dei suoni di un tipico concerto rock e sufficienti a stordire, con le onde d'urto prodotte, le prede di cui il musicista di nutre.
Per gli autori della scoperta si tratta di uno dei suoni oceanici più forti mai documentati.
Non è però per la storia dei pesci morti che il gambero è stato chiamato così. C'entra piuttosto il colore rosa acceso della sua chela, che evoca il nome della band di cui Sammy De Grave, a capo della ricerca, è da sempre fan.
Il nuovo arrivato farà concorrenza a un altro crostaceo "rock star", l'Elephantis jaggerai, un gambero che prende il nome da Mick Jagger.
Fonte: focus.it
giovedì 13 aprile 2017
Resti di una piramide della XIII dinastia riaffiorano a Dahshur
E’ di questi giorni la notizia che nell’area a ridosso della piramide romboidale di Dahshur sono riaffiorati i resti di una piramide della XIII dinastia (1793-1645 a.C., prima dinastia del II Periodo Intermedio).
I resti, portati alla luce dalla missione archeologica egiziana guidata da Adel Okasha, la quale sta lavorando in una zona a nord della famosa piramide a doppia pendenza di Snefru, sono in ottime condizioni e sono già previsti ulteriori scavi con la speranza che si possa scoprire altro della struttura piramidale.
La porzione del monumento finora scoperta mostra parte della sua struttura interna che è composta da un corridoio di accesso all’interno della piramide, da una sala che conduce a una rampa meridionale, nonché da una camera nella parte più occidentale.
Per quanto riguarda la superficie esterna si pensa che possa essere stata impiegata nei secoli successivi la sua costruzione come materiale edilizio; per questo motivo non ne rimane più niente e tutto quello che ne resta è rimasto coperto per millenni dalle sabbie della necropoli facendone perdere ogni traccia.
Lungo il corridoio è stato trovato un blocco di alabastro di 15 cm per 17 con incise in senso verticale dieci linee di geroglifici che sono ancora in fase di studio.
Un architrave in granito e dei blocchi mostrano in parte il design della struttura che doveva misurare 35 m in altezza ed avere una base di 52 m per lato.
Anche se alcune ipotesi sono già state avanzate, resta da scoprire chi fosse il titolare di questo antico monumento edificato nella necropoli di Dahshur durante la XIII dinastia, periodo in cui si vide la frantumazione del potere centrale ed il sorgere di dinastie locali che regnarono contemporaneamente su parte dell’Egitto e talvolta anche su un solo nomo (ci furono addirittura 60 regnanti – secondo Manetone – a governare nei circa 150 anni di potere di questa dinastia) e momento in cui le sponde del Nilo furono invase dagli Hyksos
.
Fonte: mediterraneoantico.it
mercoledì 12 aprile 2017
Le vere storie dei ragazzi selvaggi
Una scena di Greystoke, la leggenda di Tarzan (1984), dal romanzo di Edgar Rice Burroughs
Abbandonati o persi nella giungla, destinati a una fine di stenti per fame, freddo o a diventare vittime di predatori. Eppure scampati alla morte e ritrovati dopo anni, nudi, con gli occhi assenti, incapaci di camminare eretti e di parlare, adattati a muoversi velocemente a quattro zampe o ad arrampicarsi sugli alberi.
Sono i ragazzi selvaggi, poco meno di 100 casi registrati nella letteratura e nelle cronache degli ultimi secoli.
Ma come hanno potuto farcela a copravvivere in condizioni così dure? Riconoscere l’esistenza di ragazzi (o bambini) selvaggi significa ammettere la possibilità che esseri umani a partire da circa 2 anni di età possano resistere in un ambiente selvatico nutrendosi di foglie, erba, bacche, radici, uova di uccelli e piccoli animali, come insetti, rane e pesci. O che possano farlo aiutati da altri mammiferi.
«È pensabile che alcuni animali tollerino la presenza di un piccolo della specie umana.
Stando in contatto anche solo visivo con loro, un bambino può così individuare fonti d’acqua e di cibo, ripararsi la notte in luoghi caldi e sicuri» dice Angelo Tartabini, docente di Psicologia evoluzionistica all’Università di Parma.
Gli studi di Konrad Lorenz, il padre dell’etologia, sulle caratteristiche infantili nelle specie di mammiferi, indicano che essere paffutelli, con testa grande e rotonda, muoversi in modo goffo, sono caratteri che inibiscono l’aggressività e innescano istinti protettivi anche nei confronti di cuccioli di altri.
Dopotutto i bambini, cioè i cuccioli di uomo, non sono troppo diversi da quelli delle scimmie e come gli altri animali possono anche subire un imprinting da parte della specie che li ha adottati, finendo per assomigliare ai nuovi “genitori”.
Per questo nella letteratura si parla di bambini lupo, bambini orso, bambini gazzella o bambini scimmia.
La teoria dell’imprinting, che procurò il premio Nobel a Konrad Lorenz, sostiene infatti che un giovane essere vivente impara a riconoscersi in una specie piuttosto che in un’altra a partire dal legame con una figura di riferimento (la chioccia per i pulcini, la lupa per il lupacchiotti, eccetera). In effetti, questi ragazzi selvaggi ai loro salvatori sono sempre apparsi del tutto “animaleschi”.
«I loro problemi, però, dipendono dal fatto che non sono stati esposti a sufficienza all’ambiente umano durante fasi importanti dello sviluppo cognitivo, e non sono dovuti a “tare” presenti già alla nascita» aggiunge Tartabini.
Il primo caso registrato di ragazzo selvaggio risale al 1344, un episodio divulgato dal grande naturalista Carlo Linneo e poi ripreso dal filosofo francese Jean Jaques Rousseau: alcuni cacciatori ritrovarono fra i lupi un bambino selvaggio di circa 10 anni e lo portarono al principe d’Assia.
Ma il caso che fece più clamore risale al 1798, quando fu catturato nei boschi francesi dell’Aveyron un ragazzino selvaggio di 12 anni: completamente nudo, mordeva e graffiava e, chiuso in una stanza, andava avanti e indietro come un animale in gabbia.
Affidato a una vedova e poi a un naturalista, per ordine del ministero dell’Interno fu portato a Parigi e rinchiuso nell’Istituto per sordomuti, dove venne prelevato dal medico Jean Itard che ne tentò il recupero comportamentale e linguistico.
Egli segnò su un diario tutti i progressi fatti dal ragazzo nel corso di 5 anni.
Progressi limitati, però: Victor imparò abbastanza presto a comunicare con una sorta di pantomime (per esempio, se voleva uscire portava il cappotto e il cappello al suo tutore), ma non riuscì mai a parlare.
Cominciò a scrivere diverse parole, verbi e aggettivi (gli fu insegnato prima ad accoppiare oggetti ai disegni che li mostravano, poi parole scritte ai disegni), ma mai imparò a usare i termini in modo astratto, cioè applicando le parole in un discorso in assenza degli oggetti o delle emozioni a cui si riferivano.
Un altro caso fu documentato dal reverendo Joseph Singh, missionario di un orfanotrofio di Midnapore, in India.
Nel 1920 il reverendo volle verificare alcune segnalazioni di contadini che riferivano di aver visto due bimbe fra i lupi.
Si appostò su un albero fuori da una piccola grotta, dove si sospettava si rifugiassero questi animali.
Vide uscire i lupi e subito dopo entrò nella tana, dove trovò due bambine che camminavano a quattro zampe.
Una aveva circa 8 anni, l’altra solo un anno e mezzo. Probabilmente non erano nemmeno sorelle ed erano state abbandonate in momenti diversi, attirando poi l’interesse solo protettivo dei lupi di quell’area.
Mangiavano soltanto latte e carne cruda, annusando e lappando, senza mai prendere il cibo con le mani. Che usavano invece con i piedi per muoversi velocemente a quattro arti.
Amala, la più piccola, morì presto di nefrite.
Kamala visse invece altri 8 anni.
Imparò a pronunciare 50 parole, a comunicare con i gesti, a ridere e a giocare con altri bambini.
Un altro tentativo di recupero fu documentato dallo psicologo sperimentale Jorge Ramirez: si trattava di un fanciullo di 5 anni trovato nel 1933 in una foresta del Salvador: nudo, capelli lunghi, postura ricurva, vocalizzazioni da scimmia.
Battezzato con il nome di Tarzancito, imparò a ripetere alcune parole senza però capirne il significato.
Poi, vivendo nella comunità umana, cominciò a lavarsi, a vestirsi a scrivere e a leggere alcune parole, a fare anche semplici conti.
Un’immagine del film Sopravvivere con i lupi: aldilà di storie inventate, i casi registrati di bambini-lupo sono 13.
Nel 1992, un altro caso: un ragazzino di circa 15 anni, avvistato nei pressi di una mandria di bufali nel Parco nazionale Marahouè, in Costa d’Avorio.
Non parlava e aveva ginocchia callose, segno di andatura a carponi.
«Faceva alcuni versi, emettendo i vocalizzi degli scimpanzé» raccontò il capo dei ranger del Parco.
«Non è un demente» assicurò l’assistente sociale dell’ospedale di Boufalé, dove fu ricoverato.
Di lui però si persero presto le tracce: secondo un giornalista della televisione nazionale ivoriana, che seguì il caso, fu nascosto da presunti parenti al preciso scopo di preservare i suoi poteri magici, che gli derivavano dalla vicinanza alla natura selvaggia e agli spiriti.
Tra gli ultimi casi segnalati (di attendibilità non chiara) ci sono quelli di John Sebunya in Uganda e di Bello in Nigeria.
Scappato di casa quando vide il padre uccidere sua madre a circa 4 anni di età,
Sebunya sopravvisse nella foresta e fu catturato nel 1991 mentre era con un gruppo di cercopitechi verdi che tentarono di difenderlo. Bello fu invece trovato piccolissimo (circa 3 anni) nella foresta di Alore, in Nigeria, nel 1996.
Mostrava i comportamenti degli scimpanzé della zona, facendo pensare di essere stato adottato da loro. Nonostante gli sforzi degli educatori, non ha mai imparato a parlare ed è morto nel 2005.
Sopravvivere nella Russia postcomunista dopo essere fuggiti da una madre indifferente e un padre alcolizzato non è affatto semplice.
La storia di Ivan Mishukov, però, dimostra che ci si può arrangiare cooperando con i cani randagi.
Ivan lo fece per due anni (1996-97), chiedendo la carità per le strade di Mosca e poi dividendo il cibo con il branco.
In cambio poteva dormire e scaldarsi in mezzo a loro per sopravvivere al freddo.
I cani lo riconobbero come loro leader e non esitavano a difenderlo dai malintenzionati.
Per tre volte la polizia, venuta a conoscenza del caso, tentò di prendere il ragazzo, che riuscì a scappare protetto dai cani.
Le forze dell’ordine, poi, riuscirono a catturarlo in un momento che era lontano dal branco.
Indirizzato al recupero, Ivan dimostrò che non aveva perso la capacità di parlare, crescendo arricchì il suo linguaggio come un ragazzo normale ed ebbe anche buoni risultati scolastici.
A questi casi si sono poi aggiunti anche quelli di Rochom P’ngieng, una ragazza cambogiana ritrovata nel 2007 dopo aver vissuto alcuni anni nella giungla (si era persa all’età di 8 anni) e il cosiddetto bird-boy, un bambino di sette anni scoperto nel 2008 nella campagna russa e cresciuto un una casa di due stanze in cui viveva insieme a decine di uccellini in gabbia.
Era incapace di parlare: emetteva solo cinguettii.
I bambini che si ritiene siano stati allevati da animali, come Kamala, e quelli vissuti soli nella foresta come Victor dell’Aveyron, hanno avuto tutti un recupero difficile e molto parziale, sopratutto nella verbalizzazione.
Anche quando impararono alcune parole, non riuscirono a usarle se non davanti agli oggetti reali e ai loro bisogni immediati.
«E tanto più uno di loro è stato a contatto con gli animali, tanto più è difficile il suo recupero» spiega Anna Ludovico, autrice di un libro dedicato all’argomento.
«Lo studio dei bambini selvaggi ci porta alla scomoda considerazione che senza il linguaggio verbale, che ci viene dato dall’ambiente sociale in cui viviamo, viene meno la più importante caratteristica della nostra specie, vale a dire la possibilità di pensare in modo astratto».
Questi casi ci dicono quindi che, in un certo senso, esseri umani si diventa, non si nasce.
Senza la trasmissione culturale di migliaia di generazioni che ci hanno preceduto, noi torneremmo probabilmente a vivere come scimmie.
Fonte: focus.it
La super fioritura nel Carrizo Plain National Monument
Un'immensa distesa di fiori colorati.
Uno spettacolo per gli occhi.
Siamo in California dove alcuni fortunati hanno avuto la possibilità di ammirare il super-bloom.
Un evento vista la grave siccità che negli ultimi tempo ha colpito lo stato americano.
Giallo, rosso, viola, arancio, il tutto condito da una distesa verde.
Il Carrizo Plain National Monument sta sperimentando questa eccezionale fioritura, a un'altitudine di 700 metri nell'entroterra tra San Luis Obispo e Santa Barbara.
Quest'area è considerata semiarida.
La siccità ha colpito duramete Carrizo Plain negli ultimi anni ma in questo 2017 è avvenuto un piccolo miracolo: la pioggia è tornata a bagnare questi campi.
Al resto ha pensato la Natura, spruzzando i suoi colori attraverso i fiori selvatici endemici dell'area.
Una vera e propria esplosione arrivata praticamente all'improvviso, come spesso accade nelle zone aride e desertiche bagnate dalla pioggia.
“Il fondovalle ha infinite distese di coreopsis gialli e viola, di phacelia, e di piccole macchie di decine di altre specie,” spiega Bob Wick, fotografo ed esperto del Bureau of Land Management.
“Per non essere da meno, il RangeTemblor è dipinto con strisce di colore arancione, giallo e viola, come se fosse un libro di fiabe. Non ho mai visto un allineamento così spettacolare di fioriture. Mai".
Tra gli americani e i turisti è già scattata la corsa verso Carrizo Plain.
Le aree dedicate ai campeggiatori stanno facendo registrate il tutto esaurito. E non c'è da stupirsi vista la splendida e rara cornice naturale, una vera e propria opera d'arte.
Francesca Mancuso
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