“Quella der boia é ‘na missione. Perché ammazzá un omo ner nome de la giustizia nun é come scannà uno dentro a un’osteria quanno se sta’ bevuti, è ‘na cosa diversa. Perché tu ammazzi un’omo che nun t’ha fatto gnente. Quindi lo fai senza odio, senza rancore anzi con una certa educazione, un certo garbo: Permette? Prego! Zac! Je stacchi la testa e buonanotte.”
Così sentenziava Aldo Fabrizi nella commedia musicale Rugantino del 1962 nei panni del famigerato Mastro Titta, all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti, boia del Papa-Re.
Il nostro uomo era nato a Senigallia il 6 marzo 1779 e cominciò la sua carriera di “carnefice giudiziario” assai precocemente, all’età di appena diciassette anni, nell’anno del Signore 1796.
La sua prima vittima si chiamava Nicola Gentilucci, un ragazzo di Foligno, che fu dal Bugatti impiccato e squartato perché “Tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima il prete di Cannaiola di Trevi e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato [rapinato in italiano desueto] due frati”.
Il testo citato è un estratto di una finta autobiografia dello stesso Mastro Titta scritta da un autore anonimo sul finire del XIX secolo prendendo spunto da una serie di appunti lasciati su un taccuino dallo stesso carnefice.
Il testo fu redatto quando ormai il Bugatti era già da anni passato a miglior vita, molto probabilmente allo scopo di screditare lo stesso regime papalino, di cui Mastro Titta viene descritto come lo spietato e implacabile braccio della morte.
Al di là delle demonizzazioni, un’altra testimonianza della ferocia del boia più famoso dello Stato Pontificio arriva direttamente dall’archivio del comune di Valentano, in provincia di Viterbo. Qui, come ebbe a scrivere lo stesso Bugatti “Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità”.
Va tuttavia precisato come Mastro Titta svolgesse il suo lavoro di carnefice come mansione “part-time”, tanto è vero che tra un’esecuzione e l’altra il Bugatti svolgeva la professione di ombrellaio presso la propria casa, situata nel Rione di Borgo, in Vicolo del Campanile al civico 2.
Ovviamente, date le sue funzioni di carnefice Mastro Titta era alquanto malvisto dai propri concittadini e dunque, anche per salvaguardare la propria incolumità, gli era fatto divieto di recarsi nei rioni centrali dell’Urbe, oltre il fiume Tevere.
Solamente quando era in programma un’esecuzione allora mastro Titta, chiusa bottega e indossato il suo tristemente celebre mantello scarlatto (oggi visibile al Museo criminologico di Roma assieme agli altri suoi “ferri del mestiere”), attraversava Ponte Sant’Angelo per recarsi sul suo macabro “luogo di lavoro”.
Nella Roma papalina le sentenze di morte erano tradizionalmente eseguite a Piazza del Velabro (dove Monicelli ha ambientato l’esecuzione del prete-brigante don Bastiano nel film Il marchese del Grillo) oppure a Campo de Fiori o a Piazza del Popolo ed erano seguite da folle imponenti tanto da assumere l’aspetto di veri e propri spettacoli pubblici, come accadde il 23 novembre 1825 in occasione della decapitazione dei carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari.
Dall’abitudine di Mastro Titta di attraversare il Tevere soltanto in occasione di un’esecuzione derivò il detto romanesco “Boia nun passa ponte” che significa “ciascuno se ne stia nel suo ambiente”. Sempre da questo fatto ebbe origine un altro modo di dire romano, “Mastro Titta passa ponte“.
Quando questa frase cominciava a rimbalzare di bocca in bocca per i quartieri della Città Eterna significava che quel giorno qualcuno ci avrebbe rimesso la testa. Mentre il boia raggiungeva il luogo dov’era stato montato il patibolo, i ragazzini che lo incontravano canticchiavano strada facendo una sinistra filastrocca “Sega, sega, Mastro Titta / ‘na pagnotta e ‘na sarciccia / un´a me, un´a te / un´a mammeta che so´tre”.
Mastro Titta esercitò il mestiere di carnefice per ben sessantotto anni, dal 1796 sino al 1864, interrompendosi solamente durante i sei mesi della Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) durante la quale la pena capitale venne abolita.
Il Bugatti pertanto servì ben sei Papi a cominciare da Pio VI, passando per Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI e terminando la propria carriera sotto il pontificato di Pio IX, il quale lo collocò a riposo assegnandogli una pensione di trenta ducati al mese.
Nel corso della sua quasi settantennale carriera giunse a collezionare ben 516 esecuzioni fra decapitazioni, impiccagioni e squartamenti. Morì novantenne nel 1869, poco più di un anno prima che fosse aperta la Breccia di Porta Pia, che pose fine a quel regime papalino di cui lui era stato uno dei più feroci e implacabili difensori.
Mastro Titta non mostrò mai rimorso per il proprio operato. Anzi, si ritenne sempre un buon cristiano, giungendo a definirsi “Braccio esecutore della volontà di Dio, emanata dai suoi rappresentanti in Terra”.
Fino alla fine fu un convinto assertore della pena capitale di cui giustificava “l’utilità” sociale con la seguente argomentazione: “Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso. Un delinquente è un membro guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede od una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l’amputiamo?”.
Complice il lunghissimo periodo durante il quale restò in servizio, Mastro Titta entrò nella tradizione popolare romanesca al punto che la sua figura compare in diverse opere, letterarie cinematografiche e teatrali.
Già nel corso dell’Ottocento venne nominato in un sonetto del poeta dialettale Giuseppe Gioacchino Belli datato 1830 e intitolato “Er ricordo”, nel quale l’autore fa tra l’altro menzione dell’usanza “pedagogica” dei padri di far assistere i figli all’esecuzione per poi assestare loro un ceffone affinché si ricordassero quale fosse la fine riservata ai delinquenti e rigassero dritto.
Dell’opera di Mastro Titta scrisse anche Lord Byron, il quale nel corso di un soggiorno nella Città Eterna assistette alla decapitazione di tre condannati avvenuta in Piazza del Popolo il 19 maggio 1817. Si chiamavano Giovan Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni e vennero decapitati a Piazza del Popolo in quanto riconosciuti colpevoli da un tribunale pontificio di “omicidi e grassazioni” o, come si direbbe oggi, per rapina a mano armata. Byron rimase molto turbato da quanto aveva visto tanto che in una lettera indirizzata al suo editore John Murray scrisse: “La cerimonia, compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte – è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi”.
Nel 1845 un altro scrittore britannico, Charles Dickens, assistette nella giornata dell’8 marzo, all’esecuzione di Giovanni Vagnarelli, ventiseienne eugubino condannato per avere rapinato e ucciso a bastonate una contessa tedesca diretta a Roma in pellegrinaggio. Dickens riportò questa esperienza nel suo libro Lettere dall’Italia. Nel suo racconto traspare tutto il disgusto per la scena della quale si trovò ad essere spettatore “ […] Non vi era alcuna manifestazione di disgusto, o di pietà, o di indignazione, o di mestizia. Fu uno spettacolo brutto, sporco, ributtante; il cui unico significato non era altro che un’opera di macelleria, al di là del momentaneo interesse, ai danni dell’unico sventurato protagonista […]”.
Nel Novecento “Er boja de Roma” è stato rappresentato anche dal cinema: accanto alla memorabile interpretazione di Mastro Titta da parte di Aldo Fabrizi, la figura del carnefice più famoso della Roma papalina fa la sua comparsa verso la fine del film “Nell’Anno del Signore”, pellicola risalente al 1969, nella quale si racconta, in maniera romanzata, la vicenda dei carbonari Targhini e Montanari. Nell’ultima scena, poco prima di finire decapitato come l’amico, Montanari apostrofa Mastro Titta come “l’omo più moderno de Roma” perché nel clima di repressione e passatismo della Restaurazione almeno lui si serve della ghigliottina, uno strumento “moderno” che, per usare le parole di Montanari “non puzza de vecchio e de decrepito”, proprio perché inventato durante la Rivoluzione francese.
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