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sabato 30 maggio 2020

Le Victoria Falls sono tornate più fragorose che mai


Lo scorso inverno le immagini delle Victoria Falls hanno fatto il giro del mondo: prosciugate e praticamente silenziose. Ora però sono tornate più scroscianti che mai. 
Questa meraviglia della natura, patrimonio dell'umanità protetto dall'Unesco, si trova al confine fra Zambia e Zimbabwe e due mesi fa è stata chiusa ai turisti in via precauzionale, a causa della pandemia da coronavirus. 
Insomma, non è stata una stagione florida per il turismo e l'economia locale di questo angolo di Africa, tuttavia le cascate hanno riaperto nel culmine della loro stagione e in pochi giorni hanno già accolto un migliaio di turisti.


Fortunatamente la città di Livingstone, appena fuori dal Parco Nazionale Mosi-oa-Tunya, principale punto di partenza per le escursioni, non ha ancora registrato un caso di Covid-19 mentre complessivamente in Zimbabwe sono stati 46 e in Zambia 832.

 In ogni caso, potrebbe volerci un po' di tempo prima che il turismo internazionale torni ai livelli impressionanti degli scorsi anni, essendo questa una popolare attrazione turistica sin dal periodo del dominio coloniale inglese.


Le immagini delle Victoria Falls prosciugate avevano fatto il giro del mondo: difficile non rimanere impressionati davanti alla scarsissima portata di quelle che sono una delle cascate più grandi del mondo. 

Nella stagione delle piogge, il fiume scarica una quantità d'acqua pari a 9.100 m cubi al secondo, causando un fragore assordante oltre a nebbia e foschia che rendono praticamente impossibile ammirare la gola sottostante. 
Non a caso sono conosciute localmente con il nome Mosi-oa-Tunya, Fumo che tuona.





Fonte: lastampa.it

venerdì 29 maggio 2020

La basilica di San Petronio


La basilica di San Petronio è in assoluto la chiesa più famosa, maestosa ed importante di tutta Bologna.
 L’imponente edificio domina Piazza Maggiore che gli si staglia di fronte e, sebbene si tratti di un’opera incompiuta, cionondimeno è la sesta chiesa più grande di tutta Europa dopo San Pietro in Vaticano, Saint Paul a Londra, la cattedrale di Siviglia, il Duomo di Milano ed il Duomo di Firenze.
 Questo fa della basilica di San Petronio di fatto la terza chiesa più grande d’Italia, dopo il Duomo di Milano ed il Duomo di Firenze. 


La chiesa, come suggerisce la sua stessa denominazione, è dedicata alla figura che dal 1253 rappresenta il patrono della città di Bologna, ovvero San Petronio. 
Fu il Consiglio dei Seicento del comune a deliberare, nel 1388, di costruire una basilica ad egli intitolata, e la prima pietra dell’edificio venne posta il 7 Giugno 1390, nel corso di una solenne processione. 
Questa chiesa rappresenta inoltre l’ultima grande opera gotica italiana, dal momento che la sua costruzione fu iniziata appena un anno più tardi rispetto al Duomo di Milano (che fu quindi parallelamente edificato nello stesso periodo).


La basilica di San Petronio, oltre ad essere un’importantissima opera religiosa, aveva anche una forte valenza politica: rappresentava infatti, nella figura del martire cristiano, l’idea di un Comune finalmente autonomo e libero dalla dominazione papale e signorile.
 Non dimentichiamo infatti che poco più di due secoli prima, all’alba dell’amministrazione comunale, Federico Barbarossa scese in Italia per ribadire la propria supremazia sulla nostra penisola, e lo stesso Papa Anastasio IV vide di buon occhio l’avvento dell’Imperatore nel convulso e caotico scenario politico italico.
 I cittadini romani infatti, sotto la guida del monaco Arnaldo da Brescia, avevano appena creato un pericolosissimo precedente storico, proclamando di fatto l’autonomia del Comune di Roma. Arnaldo predicava infatti il ritorno alla purezza spirituale della Chiesa, e ciò avrebbe comportato la totale perdita dello smisurato potere temporale che il Vaticano era allora in grado di esercitare liberamente.
 Fu così che grazie all’intervento dell’Imperatore, Arnaldo fu messo al rogo, la figura del Papa tornò a regnare su Roma, e la neonata istituzione comunale si trovò nuovamente chiusa tra l’incudine ed il martello.


A complicare ulteriormente le cose furono i contrasti interni che lacerarono i Comuni dalla fine del XII all’inizio del XIV secolo, tra gli interminabili contrasti fra borghesia e nobiltà inurbata, che portarono al varo delle cosiddette leggi antimagnatizie; v’era inoltre una marcata differenza sociale tra il popolo grasso (la borghesia, composta da ricchi popolani e commercianti) ed il popolo magro (gli artigiani e gli ancor più infimi, nella scala d’importanza dell’epoca, lavoratori dipendenti). 

 Il Comune, in sostanza, sentiva l’impellente necessità di autodeterminarsi, di ribadire con fermezza la propria emancipazione dal giogo papale ed imperiale. E la figura di San Petronio fu scelta come il paradigma stesso dell’indipendenza comunale che si contrapponeva alle ingerenze esterne. 

 Nel corso del 1300 la borghesia artigiana, mercantile e professionistica stava facendosi sempre più attiva nella realtà politica comunale, tant’è che riuscì a riportare in auge l’iniziale ideale di governo del “popolo e delle arti”, che portò alla formazione del Consiglio dei Quattrocento prima, e dei Seicento poi. 

 Tra le prime iniziative promosse dal nuovo governo vi fu il forte rilancio del culto di San Petronio, tant’è che sembra che l’ipotesi di erigere una chiesa in onore del patrono della città fosse nata già nel 1307, ma per un gran numero di intricate vicende politiche e situazioni contingenti, la realizzazione del progetto fu continuamente rimandata fino alla fine del secolo.


 Un fattore probabilmente determinante nel fornire la spinta alla scelta di edificare finalmente la basilica di San Petronio fu probabilmente offerta, più che dalla volontà interna della città, dall’operato di Milano e Firenze. 
Bisogna infatti ricordare che Bologna, nel XIV secolo, era una delle città più grandi e popolose di tutta l’Europa, e le sue rivali per eccellenza, il capoluogo toscano e quello lombardo, avevano già costruito il proprio duomo l’una (parliamo di Firenze, che lo realizzò addirittura un secolo prima), e gettato le basi per edificarlo l’altra.
 Bologna non poteva più permettersi di cedere all’inerzia, ma parimenti non intendeva erigere un Duomo sotto la spinta della volontà ecclesiastica, come accadde per Firenze e per Milano, ma costruire invece un monumento che fosse innanzitutto foriera di libertà, autonomia ed emancipazione per il popolo e per la città stessa.


Come già detto in precedenza, tuttavia, questo grandioso progetto si protrasse nel tempo senza mai trovare una vera e propria soluzione di continuità, e finendo col rimanere un’opera incompiuta.
 La facciata non venne mai completata, e Giacomo Ranuzzi iniziò (senza finirlo) il rivestimento marmoreo nel 1538; degne di nota sono anche la meravigliosa Porta Magna, un capolavoro di Jacopo della Quercia e la Cappella di San Abbondio (dove fu incoronato imperatore Carlo V da Papa Clemente VII, nel 1530) fu restaurata in falso gotico nel 1865 (sebbene gli interni del tempio presentino un pregevole stile classico). 

 La Cappella dei Re Magi è invece l’unica che conserva ancora quasi intatta la decorazione originale, ed è così chiamata per via degli affreschi di Giovanni da Modena, che vi dipinse un ciclo raffigurante il paradiso e l’inferno a sinistra, mentre la parete destra fu dedicata alle “Storie dei Re Magi”.
 Nella parete in fondo sono invece rappresentate scene della vita di San Petronio.




Vi sono poi la Cappella Maggiore, la Cappella delle Reliquie, la Cappella di San Pietro Martire, la Cappella di Sant’Antonio da Padova, la Cappella del Santissimo, la Cappella di San Girolamo, la Cappella dell’Immacolata, e numerose altre cappelle.

 La copertura della navata maggiore e la chiusura dell’abside furono completate solo nel 1663, grazie ad un progetto di Girolamo Rainaldi, mentre la controfacciata fu decorata da Francesco da Milano, dal Lombardi e da Zaccaria Zacchi. 

 Il 21 Febbraio 1508 venne posta sulla facciata l’imponente statua in bronzo di Papa Giulio II realizzata da Michelangelo (peraltro l’unico bronzo prodotto dall’artista oltre al David De Rohan, andato ufficialmente perduto), e questo fu un messaggio incredibilmente da parte del Pontefice: stava infatti a sottolineare che, sebbene la basilica fosse nata sotto la ventata di spirito autonomo e libertario dei bolognesi, la città rimaneva comunque sotto il pesante ed irriducibile dominio papale.


Un’altra interessante curiosità relativa a quell’aspro dualismo fra Chiesa e Comune ruota attorno alla costruzione dell’Archiginnasio. 

Papa Pio IV si pronunciò espressamente a favore dell’edificazione dell’Archiginnasio, ufficialmente per fornire una sede allo Studium bolognese, ma in realtà l’intento del Pontefice era di tutt’altra natura, nemmeno lontanamente filantropica: egli era infatti seriamente intimorito dal progetto della basilica di San Petronio, e voleva evitare ad ogni costo che con la sua edificazione potesse rischiare di superare, per dimensioni, la basilica romana di San Pietro.


Anche la Meridiana di San Petronio merita senz’altro una menzione. 
Ideata e concretizzata da Gian Domenico Cassini intorno al 1656, si tratta della meridiana più lunga del mondo (ben 67, 72 metri) lunghezza fra l’altro che corrisponde alla seicentomillesima parte del meridiano terrestre.
 Fu in seguito ristrutturata dall’astronomo Eustachio Mafredi nel 1775, che rimosse la linea di ferro per sostituirla con una analoga realizzata in ottone.




Fu in seguito ristrutturata dall’astronomo Eustachio Mafredi nel 1775, che rimosse la linea di ferro per sostituirla con una analoga realizzata in ottone.

giovedì 28 maggio 2020

Guoliang road, uno dei passaggi stradali più pericolosi del mondo


Guoliang Road, detta anche “la strada che non ammette errori”, si trova in Cina, esattamente nella provincia dell’Henan, a sud di Pechino. 

Considerata uno dei passaggi stradali più pericolosi del mondo, fu costruita verso la metà degli anni ‘70 lungo il lato della montagna Taihang per collegare il villaggio di Guoliang al resto del paese. 

Prima di allora, per raggiungere le province vicine dello Huixian e dello Xinxiang, gli abitanti del borgo erano costretti ad affrontare un percorso molto pericoloso, attraverso un’impervia e vertiginosa salita tra burroni e precipizi.


Nel 1972, dopo che il governo rifiutò la realizzazione di una vera e propria strada, una squadra di soli 13 uomini, guidati dal capo villaggio Shen Mingxin, si armarono di coraggio e iniziarono i lavori per aprirsi un passaggio verso la civilizzazione.
 Con l’aiuto di mazze e scalpelli scavarono un tunnel di 1.200 metri, alto 5 e largo 4, lavorando duramente per ben 5 anni.
 Interi pezzi montagna furono fatti saltare con dell’esplosivo, e le “finestre” che si aprono lungo le pareti servirono solo a scaricare fuori le macerie, evitando continui e faticosi spostamenti per liberarsene.


A maggio del 1977 la strada fu ufficialmente aperta al pubblico, trasformando Guoliang in una meta turistica di fama mondiale. Un’opera realizzata per vincere l’isolamento, scavata “a mano” nelle viscere della montagna da pochi uomini valorosi e da cui oggi è possibile ammirare un panorama mozzafiato. 


 Fonte: mybestplace

domenica 24 maggio 2020

Il muro della gelosia in Irlanda: l’ultima “follia” di un conte maledetto


Sembra una favola antica, di quelle che cominciano con “C’era una volta”, ma la storia di Mary Molesworth (1720 – …), del marito e di suo fratello non ha un lieto fine, ed è tutt’altro che inventata. Robert (1708-1774) fu un marito crudele, soprannominato il “conte maledetto”, che accusò la giovane moglie Mary di adulterio, consumato per di più con uno dei suoi fratelli.
 Quest’ultimo fuggì dal paese, mentre la sfortunata sposa, costretta ad una falsa ammissione di colpa, venne reclusa per oltre trent’anni nel tetro castello del nobile marito. 

Nel frattempo, il conte costruì un’amena dimora per sé e per i figli, oggi conosciuta come “Belvedere House and Gardens” circondata da un meraviglioso paesaggio. 
Quando un’altro dei suoi fratelli costruì una villa ancora più lussuosa della sua, a poca distanza, l’invidioso nobiluomo fece erigere un muro, per togliergli il piacere di una bella vista.


Alla morte del malvagio signore, i figli di Mary la liberarono, ma la donna aveva ormai perduto la ragione, e si ritirò in Francia, per vivere da eremita. 

Questa storia potrebbe apparire come una delle tante favole lugubri che circolarono con varie versione dal tardo medioevo in poi, ma in realtà la povera Mary e il “conte maledetto” sono personaggi di una vicenda reale, che si svolse in Irlanda nel 18° secolo.


Mary Molesworth aveva appena 16 anni quando sposò Robert Rochfort, primo Conte di Belvedere, dopo la morte della sua prima moglie. 
Nonostante i quattro figli nati dal secondo matrimonio, Rochfort continuò a mantenere uno stile di vita da scapolo, lasciando spesso sola la giovane sposa nella dimora di Gaulstown.


 Cominciarono a circolare delle voci, forse messe in giro da George Rochfort (un altro fratello), che tra Mary e Arthur ci fosse una relazione adulterina. 
Robert tentò di uccidere il fratello traditore, che riuscì a fuggire in Inghilterra, e poi affrontò la moglie, che non trovò aiuto nemmeno nel padre. 

 Il Conte portò la vicenda in tribunale: il fratello Arthur fu condannato, per l’adulterio, al pagamento di una multa di 20 mila sterline (cifra esorbitante per l’epoca), mentre Mary fu riconsegnata al marito, perché ne facesse “ciò che voleva”. 


Rochfort la fece rinchiudere in una stanza del castello di Gaulstown, in un regime di totale isolamento: non le fu concesso di vedere i figli, i servitori avevano l’ordine di non parlarle, e poteva uscire dalla sua stanza, previo consenso del marito, solo in casi eccezionali e sempre preceduta da uno degli sgherri del conte. Dopo quindici anni di questa tristissima vita, Mary riuscì ad organizzare, con l’aiuto di un cocchiere, una fuga a Dublino, dove doveva incontrarsi con Arthur, per poi fuggire insieme in Francia. 

I due cognati non ebbero fortuna: Arthur fu catturato e gettato in prigione, dove rimase fino alla morte, perché non poteva pagare le duemila sterline di multa, mentre Mary fu riportata a Gaulstown, dove cominciò a dare i primi segni di squilibrio: si aggirava per la galleria dei quadri, parlando con i ritratti come se fossero persone vere.


Nel frattempo, intorno al 1740, Robert Rochfort aveva fatto costruire la Belvedere House, un lussuoso rifugio di caccia, corredato in seguito da un’imponente “follia neogotica”: il muro della gelosia.


George Rochefort, il cognato che aveva accusato Mary, aveva costruito nella tenuta la sua dimora, Tudenham House, una costruzione ancora più bella e grande di Villa Belvedere.

 Robert ne fu così geloso, da far costruire un gigantesco muro, che doveva assomigliare ad un’abbazia in rovina, per impedire la vista tra le due case. 

 Robert morì nel 1774, non si sa se di morte naturale o violenta: fu trovato nella sua tenuta con il cranio fracassato, forse per una caduta, o forse per la vendetta di qualcuno cui aveva fatto un torto… 

 Immediatamente il figlio primogenito di Mary, George, fece liberare la madre, che espresse il desiderio, poi esaudito, di far demolire la casa in cui era stata così a lungo confinata. 
La donna, che a 54 anni sembrava una vecchia decrepita, dopo aver trascorso qualche tempo con la figlia, pare si sia ritirata in un convento in Francia, per vivere in eremitaggio. 

 Oggi, Belvedere House è una meta turistica molto conosciuta, forse per la sua triste storia, o forse per l’incredibile “muro della gelosia”, una delle “follie” architettoniche più celebri dell’Irlanda. 

 Fonte: vanillamagazine.it

mercoledì 20 maggio 2020

Figura 8 Pools, le suggestive piscine del Royal national park di Sydney


Ci troviamo in Australia all’interno del Royal National Park di Sydney, il secondo parco nazionale più antico del mondo dopo lo YellowStone.

 Queste insolite piscine si chiamano Figura 8 Pools e sono un gruppo di formazioni naturali perfettamente scolpite nella roccia dalla forza delle onde oceaniche. 
Si tratta di vere e proprie vasche idromassaggio riempite e svuotate di acqua marina a seconda delle maree.


Situate a circa un'ora di auto da Sydney, su un promontorio della spiaggia Burning Palms, le 8 Pools offrono una vista panoramica di straordinaria bellezza.

 La piscina più grande e ben definita a forma di “otto” è chiamata Big pool, misura una lunghezza di circa 3 metri e una profondità di 3, perfetta per un tuffo e una breve nuotata. 
Le vasche circostanti sono in fase di formazione, pertanto ancora poco profonde per bagnarsi completamente.


 Il sito è raggiungibile con una camminata di 3,5 chilometri, inclusa una scalata finale sulla scogliera.
 Si tratta di un percorso di un’ora, attraverso un sentiero di alberi e vegetazione che si conclude sulla vista mozzafiato dell’oceano. 


Le piscine sono accessibili solo con la bassa marea, non solo per la pericolosità del forte moto ondoso, ma soprattutto perché l’intera area risulterà sommersa e quindi completamente invisibile.



Fonte: mybestplace.com

lunedì 18 maggio 2020

Le Montagne arcobaleno di Zhangye Danxia


Un’antica leggenda racconta che là dove nasce un arcobaleno è sepolta una pentola piena di monete d’oro! E se invece di un tesoro in metalli preziosi, l’arcobaleno stesso si fondesse con il terreno, con i monti e le colline da dove nasce, donando i suoi colori direttamente alla terra, dipingendola dei suoi spettacolari riflessi? 
È quello che sembra essere accaduto nella provincia di Gansu, nella Cina nord-occidentale. E precisamente nel Parco Geologico Nazionale di Zhangye Danxia, meglio conosciuto come le Montagne arcobaleno.


 Le Montagne arcobaleno di Zhangye Danxia sono un’area spettacolare, considerata tra le più incredibili della nazione e non a caso utilizzata da numerosi set cinematografici (tra cui film come Avatar o la saga di Guerre stellari). 
Si estende per ben 510 km² in una zona arida non lontana dal deserto del Gobi. 

L’attrazione principale del luogo è data dalle particolari conformazioni rocciose.
 Lisce, taglienti e con accostamenti incredibilmente insoliti di colori, le montagne evocano vere e proprie tavolozze di pittori, che dando luogo a un paesaggio davvero unico al mondo.
 Non a caso, il sito è stato dichiarato dall’Unesco nel 2010 “Patrimonio dell’Umanità”.




In realtà le Montagne Arcobaleno sono il risultato di un lento processo orogenetico durato quasi 25 milioni di anni. 
Lo scontro fra la placca indo-australiana e quella euroasiatica ha generato queste “increspature geologiche” che hanno sollevato e portato allo scoperto depositi marini millenari di arenaria rossa e altri minerali. 
Successivamente sono stati ossidati e lavorati dall’incessante e millenaria azione combinata della pioggia e del vento. 


Secondo i geologi, la peculiarità delle formazioni rocciose Danxia è dovuta proprio al sovrapporsi di differenti strati di crosta oceanica. Gli strati di roccia hanno risposto in maniera differente alla luce solare e assunto svariati colori. E a seconda della consistenza e della densità hanno reagito in modo diverso all’erosione. 
Si sono così venuti a creare grotte, picchi aguzzi e colline sinuose.


Il parco è diviso in varie aree, in parte visitabili, tra cui due sono le principali. 
La più famosa e spettacolare è sicuramente “Qicai danxia“, i Monti Arcobaleno veri e propri, chiamati così per gli incredibili colori che le contraddistinguono. 
Un’altra zona molto particolare, anche se meno nota al pubblico, è il “Binggou danxia“, un’area dalle tinte meno intense, ma caratterizzata da rocce dalle forme bizzarre.

 Gli abitanti di Zhangye, la città più vicina al parco, consigliano di visitare Qicai danxia per i colori che sembrano dipinti e Binggou danxia per le forme che sembrano scolpite. 
Insomma un viaggio artistico attraverso la geologia che va diritto al cuore, soprattutto se si visitano questi paesaggi negli orari migliori, ovvero all’alba e al tramonto. 

 FONTE: RIVISTANATURA.COM

sabato 16 maggio 2020

La sera dei 31 maggio 1944 un incendio al museo di Nemi distrusse le navi romane di Caligola


Il recupero delle due navi di Caligola, affondate nel piccolo lago di Nemi, fu un’impresa molto complessa, che richiese cinque anni di lavoro, dal 1928 al 1932, e probabilmente rappresentò la più grande opera di recupero archeologico subacqueo mai compiuta sino ad allora. 
 Le grandi navi, che rimasero per 1900 anni sul fondo di quello che in età romana veniva chiamato Speculum Dianae (lo specchio di Diana), il lago Nemi, sono un esempio di tecnologia molto avanzata, tanto che per lungo tempo si ritenne che fossero di età posteriore. 
La nave più grande era in sostanza un palazzo galleggiante, ornato da marmi e mosaici, dotato di bagni e riscaldamento.


 Uno degli aspetti più affascinanti della storia delle navi è che si trasformò in leggenda: la loro presenza sul fondo del lago era narrata fin dal I secolo dC., e nel corso dei secoli si continuò a parlare di due grandi navi romane affondate nello specchio d’acqua: la leggenda del lago di Nemi.


Il laghetto di origine vulcanica, di soli 1,67 chilometri quadrati, si trova poco distante da Roma, sui Colli Albani, circondato da boschi e paesaggi meravigliosi: una delle mete di villeggiatura preferite dagli antichi romani, ma anche luogo di culto dedicato a Diana, la dea della caccia. 

Non si sa con certezza cosa spinse Caligola a costruire delle navi così grandi, destinate a non navigare, per un lago così piccolo; proprio le loro dimensioni (70 x 20 e 73 x 24 metri ) fanno pensare che si trattasse di palazzi galleggianti, usati come luogo di svago e vacanza, il lusso di un imperatore capriccioso e spendaccione.

 Gli storici avanzano ipotesi differenti: secondo alcuni la prima nave era un tempio galleggiante dedicato a Diana, mentre la seconda era un rifugio per il despota dai mille vizi. 
Altri sostengono che Caligola costruì le navi per dimostrare la supremazia di Roma su siracusani ed egiziani, mentre per altri ancora venivano usate per simulare battaglie navali. 


 Lo storico romano Svetonio (molto posteriore a Caligola) fece una descrizione delle due navi: per la struttura legno di cedro, e poi innumerevoli e preziose decorazioni. Le prue come gioielli, sculture ruotanti su sfere di piombo, vasi d’oro e d’argento, vele di seta viola, bagni di bronzo e alabastro sono solo alcuni dei lussi voluti da Caligola.


Il giovane imperatore fu assassinato, a soli 28 anni, nel 41 dopo Cristo, da alcuni pretoriani, per ordine del Senato romano, probabilmente a causa della sua sconsiderata gestione delle casse dello stato, oltre che per la sua (presunta) crudeltà e dissolutezza. 
I senatori, spesso umiliati da Caligola, odiavano a tal punto quel giovane despota che per cancellarne il ricordo fecero distruggere le opere da lui costruite. 
Fra queste anche le navi di Nemi, che furono fatte affondare.


La gente del luogo, ed in particolare i pescatori, hanno sempre saputo della presenza di questi relitti, perché nel corso dei secoli sono affiorati molti reperti, mentre altri erano “pescati” con l’ausilio di rampini.

 Il primo tentativo di recupero, nel 1446, fu affidato a Leon Battista Alberti dal Cardinale Prospero Colonna, ma fu un fallimento, seguito da diversi altri nei secoli successivi.


Il recupero andato a buon fine, voluto a scopo propagandistico dal governo fascista di Benito Mussolini, richiese cinque anni, con il drenaggio di parte delle acque del lago, effettuato grazie ad un tunnel sotterraneo di epoca romana, che collegava il lago con i terreni agricoli della zona. 


 L’impresa riuscì grazie all’interessamento gratuito dell’ingegner Guido Uccelli e alla fornitura della strumentazione necessaria da parte della Riva Calzoni di Milano, uno dei gioielli dell’industria meccanica di precisione italiana di inizio-metà ‘900. 

Con l’abbassamento di oltre 20 metri del livello del lago, finalmente dopo 1900 anni, le navi rivedevano la luce, anche se molto danneggiate dai precedenti tentativi di recupero.


 Dopo nemmeno dodici anni dalla conclusione dell’immane lavoro, nella notte fra il 31 maggio e il 1° Giugno del 1944, le navi furono distrutte, all’interno del Museo di Nemi, da un incendio di origine dolosa, con ogni probabilità provocato dai soldati tedeschi che presidiavano la zona.
 La storia dell’incendio è una delle pagine più tristi della conservazione dei beni culturali italiani della Seconda Guerra Mondiale, e dimostra bene il dramma della guerra e dei soldati in fuga dai territori italiani, incalzati dagli alleati.

 Il 28 Maggio i soldati tedeschi giunsero nei pressi del museo di Nemi, portando con sé 4 cannoni di artiglieria. 

Il comandante della truppa, un tenente, fece allontanare i 4 custodi e le loro famiglie, che trovarono riparo nelle caverne naturali a circa 300 metri dal museo.
 Il 29 e 30 Maggio la batteria dei tedeschi venne individuata dai soldati alleati, che bombardarono la zona antistante il museo, senza causare danni all’edificio, all’interno del quale i militari nel frattempo avevano trovato riparo.

 La sera del 31 Maggio si svolse un grande conflitto a fuoco, che vide gli alleati cannoneggiare i dintorni del museo sino alle 20.15, secondo quanto riportato dal capo custode Giacomo Cinelli. 
Alle 21.20 i custodi osservarono un lume aggirarsi all’interno del museo, e poi alle 22.00, un’ora e tre quarti dopo la fine dei bombardamenti, il fuoco divampò all’interno dell’edificio, mandando in cenere un’eredità culturale romana custodita dalle acque del lago di Nemi per quasi due millenni.


 Il 1° Giugno il museo risultò interamente distrutto, e i nazisti abbandonarono la postazione il 2 Giugno. Due giorni dopo gli statunitensi giunsero infine al museo, ma per le navi romane non c’era più nulla da fare.

  Scrive

Giuseppina Ghini nel suo: Museo delle Navi Romane – Santuario di Diana – Nemi: 
 “Una commissione appositamente creata giunse alla conclusione che con ogni verisimiglianza l’incendio che distrusse le due navi fu causato da un atto di volontà da parte dei soldati germanici che si trovavano nel Museo la sera dei 31 maggio 1944″.

 Fonte: vanillamagazine.it

Ezio Bosso e la teoria delle 12 stanze


“C’è una teoria antica che dice che la vita sia composta da dodici stanze. 
Sono le dodici in cui lasceremo qualcosa di noi, che ci ricorderanno. 
Dodici sono le stanze che ricorderemo quando passeremo l’ultima. Nessuno può ricordare la prima stanza perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo. 
E quindi si può tornare alla prima. E ricominciare”.

 Ezio Bosso lo aveva detto presentando il suo primo disco solista di pianoforte: “The 12th Room”, un concept album composto da due CD.


Nella sua stessa vita si era aperta una stanza che gli aveva fatto conoscere Helena Blavatsky, “una teosofa che tra i suoi libri cita frammenti del libro tibetano proibito o maledetto che si chiamava proprio ‘Libro delle 12 stanze’, un libro perduto che racchiude il pensiero di cui scrivevo all’inizio”.

 Scriveva ancora Bosso: “La parola stanza significa fermarsi, ma anche affermarsi. E' una parola così importante eppure non ci pensiamo mai. La diciamo e basta. Le abbiamo inventate. Le abbiamo costruite quando abbiamo trovato finalmente un posto dove fermarci.
 E gli abbiamo dato nomi, numeri e significati, a volte poetici: la stanza dei giochi, la stanza della musica, la stanza dei sogni. La stanza della luce o la stanza cieca.
 Altre volte pratici: la sala, il salone, la stanza da bagno, la cucina. Sono infinite le stanze, ma non ci pensiamo mai”.

 Le stanze rappresentano le fasi della nostra vita ed i sentimenti che le accompagnano. Il dolore, l’amore, la rabbia, la felicità, la serenità, la pace. 

ROBERTA RAGNI

venerdì 15 maggio 2020

Il "tempio più noto al mondo" fu costruito 11.500 anni fa pensando alla geometria


Un nuovo sguardo a Göbekli Tepe, un complesso strutturale di 11.500 anni nella Mesopotamia superiore, ha ribadito che potrebbe essere uno dei siti più strabilianti della storia umana. 
 Gli archeologi dell'Università di Tel Aviv (TAU) e della Israel Antiquities Authority hanno applicato analisi basate su algoritmi al layout architettonico di Göbekli Tepe e hanno scoperto che il sito preistorico, ritenuto il primo tempio conosciuto, non era una semplice costruzione di strutture stranamente posizionate, ma un complesso orchestrato con un motivo geometrico sottostante. 


Considerando questo complesso di templi tentacolare fu costruito circa 11.500 anni fa - prima del diffuso sviluppo dell'agricoltura e circa 6.000 anni prima della costruzione di Stonehenge - questa è piuttosto un'impresa. 

 I risultati della nuova ricerca sono stati recentemente pubblicati sul Cambridge Archaeological Journal.


 Göbekli Tepe , il più antico monumento architettonico noto, continua a suscitare polemiche e confusione tra gli archeologi.
 Il sito si trova su una montagna lungo la mezzaluna fertile nell'attuale Turchia. 
È costituito da numerose strutture e monumenti, alcuni dei quali sono riccamente decorati con sculture e sculture di animali, costruiti durante il Neolitico tra il 9.600 e il 8.200 a.C.

 L'età del complesso è notevole in quanto suggerisce che fu costruito da cacciatori-raccoglitori prima dell'avvento dell'agricoltura e migliaia di anni prima che sorgessero altre complesse architetture monumentali. 

Deve essere stato di significato rituale.


Si pensava ampiamente che strutture come questa potessero essere raggiunte solo dopo che una società ha dominato l'agricoltura , ma Göbekli Tepe versa acqua fredda su questa ipotesi fondamentale. 

"Göbekli Tepe è una meraviglia archeologica", ha dichiarato il professor Avi Gopher, del dipartimento di archeologia del TAU . "Costruito dalle comunità neolitiche da 11.500 a 11.000 anni fa, presenta enormi strutture rotonde in pietra e monumentali pilastri in pietra alti fino a 5,5 metri (19 piedi)", ha spiegato. 
"Poiché all'epoca non vi sono prove di agricoltura o domesticazione degli animali, si ritiene che il sito sia stato costruito da cacciatori-raccoglitori. 
Tuttavia, la loro complessità architettonica è molto insolita per loro."


Come dimostra questa nuova ricerca, la costruzione del sito avrebbe richiesto una notevole quantità di capacità di pianificazione, organizzazione e conoscenza.
 Per uno, avrebbe richiesto una comprensione della geometria per creare le planimetrie, che secondo gli autori dello studio risiedevano in una forma geometrica che non è una coincidenza.

 La ricerca mostra anche che il complesso utilizza regolarmente un'architettura rettangolare e forme quadrate, che non erano comunemente utilizzate dagli umani dell'età della pietra, ma è spesso vista come una caratteristica dei primi agricoltori nell'antico Levante. 


 "I nostri risultati suggeriscono che le principali trasformazioni architettoniche durante questo periodo, come la transizione verso l'architettura rettangolare, furono processi top-down basati sulla conoscenza e condotti da specialisti", ha affermato Gil Haklay dell'Autorità israeliana per le antichità.
 "I metodi più importanti e di base della pianificazione architettonica sono stati ideati nel Levante nel tardo periodo epipaleolitico come parte della cultura natufica e attraverso il primo periodo neolitico.
 La nostra nuova ricerca indica che i metodi di pianificazione architettonica, regole di progettazione astratte e organizzazione i modelli erano già stati usati durante questo periodo formativo nella storia umana ". 

 Fonte: iflscience.com

giovedì 14 maggio 2020

A Copenaghen sorgono nuovi parchi pubblici su isole galleggianti


Mai come in questa quarantena abbiamo imparato ad apprezzare la vita all'aria aperta e il contatto con la natura e le sue bellezze.
 A Copenaghen un nuovo sistema di isole galleggianti nel porto sta per offrire ai cittadini  nuovi spazi pubblici e parchi verdi dove rilassarsi.
 Si possono raggiungere a nuoto, in barca o in kayak.


 Il progetto dell'architetto australiano Blecher e lo studio danese Studio Fokstrot mira a offrire alla città nuovi modi per vivere all'aperto e in modo sostenibile.

 Parkipelago sarà il nome del nuovo arcipelago in costruzione fatto di strutture galleggianti ecocompatibli, facili da spostare, per adattarsi a diversi utilizzi in base alle stagioni.

 Parkipelago sarà costruito nel porto di Copenaghen: d'estate le varie isole, che si potranno raggiungere a nuoto, in barca o in kayak, saranno posizionate in zone poco utilizzate della città per creare nuovi sistemi di parchi galleggianti dove rilassarsi, pescare o guardare le stelle; d'inverno le isole saranno avvicinate per usare le piattaforme per eventi speciali o festival.
 L'architetto australiano Blecher e lo studio danese Studio Fokstrot hanno creato il progetto "Isole di Copenaghen" per una vita sempre più sostenibile all'aria aperta e nel verde.


Le isole saranno ancorate al fondo del porto.
 Le strutture galleggianti saranno realizzate in acciaio e gli elementi di galleggiamento riciclati sono rivestiti in legno sostenibile approvato dalla Forest Stewardship Council. 

Il primo prototipo di isola galleggiante è stata chiamata CPH-Ø1 , ed è stata lanciata nel 2018 a Copenaghen per conferenze, una mostra fotografica e picnic.
 Ora sono in costruzione altre tre strutture. 


L'isola più grande sarà composta da nove moduli con ulteriori isole separate che galleggiano nelle vicinanze.

 Parkipelago avrà l'obiettivo anche di creare un nuovo habitat per la fauna selvatica di superficie e sotto l'acqua.

 Sulle isole saranno piantate erbe, cespugli e alberi endemici, che daranno la possibilità di sfruttare una parte inutilizzata del porto di Copenaghen e di creare oasi ideali per gabbiani, cigni, piccioni e anatre locali. 
Sotto la superficie dell'acqua cresceranno alghe e molluschi, creando l'habitat perfetto per i pesci e altra vita marina.

 Le Isole di Copenaghen saranno costruite nel porto con tecniche tradizionali di costruzione navale.

 In previsione di un rapido sviluppo urbano della città e di un progressivo innalzamento del livello del mare, "abbiamo in programma di aggiungere altre isole separate man mano che il progetto si sviluppa", ha affermato Blecher. "Il progetto è intrinsecamente flessibile e organico".



Fonte: design.fanpage.it

mercoledì 6 maggio 2020

Dalla buca che si è aperta davanti al Pantheon spunta pavimentazione di epoca imperiale


Era il 27 aprile quando, di fronte al Pantheon, circa 40 sampietrini avevano ceduto creando un buco di un metro quadrato e profondo circa 2. 
 In pieno lockdown, in una Roma deserta, per fortuna l’evento improvviso non ha causato danni a cose o persone ma, anzi, ha fatto emergere una bella sorpresa.
 Dalle indagini archeologiche, infatti, sono venute alla luce sette lastre di travertino appartenenti all’antica pavimentazione di epoca imperiale. 
Pavimentazione che negli anni ’90 era già rinvenuta in occasione della costruzione di una galleria di sottoservizi.






Come spiega a La Repubblica Daniela Porro, soprintendente speciale di Roma, infatti: 

 “Dopo oltre vent’anni dal loro primo rinvenimento riemergono intatte le lastre della pavimentazione antica della piazza antistante al Pantheon, protette da uno strato di pozzolana fine.
 Una dimostrazione inequivocabile di quanto sia importante la tutela archeologica, non solo una occasione di conoscenza, ma fondamentale per la conservazione delle testimonianze della nostra storia, un patrimonio inestimabile in particolare in una città come Roma”.


Le lastre di travertino delle dimensioni di 80/90 centimetri, si trovano a una quota di circa 2,30/2,70 metri sotto il manto stradale e risalirebbero all’epoca adriana.

 L’imperatore, infatti, avrebbbe fatto restaurare e pavimentare la piazza dove sorgeva il tempio dedicato a tutti gli dei fatto costruire da Agrippa tra il 27 e il 25 a.C.


 Il Pantheon continua a rivelare, dunque, antiche meraviglie rimaste nascoste e Roma a confermare il detto ” ‘ndo scavi scavi”. 

 Fonti: La Repubblica
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