«Giambologna fece l’Appennino / ma si pentì d’averlo fatto a Pratolino»
Con questa rima anonima rimasta celebre, fu commentata la gigantesca opera che il Giambologna creò in quel di Villa Demidoff, originariamente Villa Medicea a Pratolino in provincia di Firenze.
Certo sarebbe stato molto difficile trovare una montagna di pietra nel centro di Firenze da scolpire con le fattezze dell’incarnazione allegorica dell’Appennino.
Il colosso è infatti alto più di quattordici metri e se fosse stato fatto in un posto più facilmente visitabile, sarebbe stata una delle meraviglie rinascimentali tra le più conosciute al mondo.
Fu voluto da Francesco I° de Medici e realizzato dall’artista fiammingo nel suo soggiorno fiorentino.
L’amore tra Giambologna e Firenze o meglio per la corte dei Medici, è testimoniato dalle altre opere , sempre di fattura considerevole che lasciò nella città: “Il Ratto Delle Sabine”, “Firenze Vittoriosa Su Pisa”, “L’Architettura”, “Ercole E IL Centauro”, Venere”, “L’Oceano”, “Apollo”, “Astronomia” in bronzo, “San Luca”, il famosissimo “Mercurio” e molte altre.
“L’Appennino” è un’ opera particolare all’interno della sua produzione, non solo per la grandezza ma anche per la complessità architettonica.
Sembra in realtà che lo stupendo gigante sia stato costruito con materiale riportato artificialmente in loco, cemento, pietre, laterizi, ridotto in parte nel 1600 sul retro, dove fu realizzato un magnifico drago da Giovan Battista Foggini.
Dalla base dell’enorme scultura, si aprono delle camere organizzate su tre piani.
Gli ambienti erano in principio riccamente decorati con fontane, pitture, statue, mosaici, il tempo li ha deteriorati e un recente restauro ha cercato di riportarli per quanto possibile alla vista.
Nell’ ambiente denominato “grotticina superiore”, è stata poi ricollocata la statua in marmo detta “Venerina”.
Nonostante la mole notevole dell’opera, il Giambologna non smentisce i suoi criteri estetici, il gigante è infatti proporzionalmente funzionale e bel modellato nelle anatomie, complesso nella posa incline a dare vita o nascondere anfratti, aperture, collegamenti con altre masse scolpite.
L’Appennino posa accovacciato, prendendo la forma appunto di una montagna, con la mano poggiata sulla testa di un enorme serpente dal quale sgorga una fontana, dal getto che si tuffa nel lago davanti.
Racchiuso tra la gamba allungata all’indietro e il braccio destro, sorge, dalla schiena, quello che resta della montagnola originaria, sovrastata dal drago ad ali spiegate.
Sotto, si aprono due passaggi per entrare nelle grotte interne dei due piani, infine tramite ripidi scalini, si arriva all’altro vano al centro della testa, dove si trovano ancora i resti di un camino che, acceso avrebbe fatto uscire il fumo dalle narici.
Progetto ambizioso ed enigmatico, complicato anche da una serie di canali idraulici serviti ad alimentare le numerose fontane interne, si pensa sia stato costruito come maniero di caccia o come rifugio, comunque come luogo isolato e segreto.
La presenza della piccola statua di Venere, potrebbe farci pensare alla possibilità dell’essere stato concepito come alcova per furtivi incontri amorosi.
Dall’aria di possente, gigantesco vecchio, il “Colosso Dell’Appennino” veglia sul lago artificiale posto in luogo dell’originaria fontana e, ricoperto di escrescenze fatte ad arte, sembra essere sorto dalle acque come l’omonimo monte che si è eretto un tempo sopra il Mediterraneo.
La Villa Medicea di Pratolino, oggi Villa Demidoff, era un capolavoro dell’arte rinascimentale decantata dai contemporanei per la grandezza, la quantità e la qualità delle opere che racchiudeva.
Nel tempo, molte statue sono state trasferite, alcune in musei, altre nel Giardino dei Boboli, altre vendute.
Il “Colosso Dell’Appennino”, ci si incastonava come una immensa gemma preziosa, tra un esteso giardino contornato da 26 statue antiche sul davanti e un labirinto d’alloro che si estendeva sul retro.
Descritto come magnifico all’epoca della costruzione, mantiene intatta la sua bellezza anche oggi, ma possiamo solo immaginare la grandiosità di quello che fu l’insieme di tutto il parco al tempo del suo massimo splendore.
Fonte: mcarte.altervista.org
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