Lalibela è, secondo alcune stime, una delle cinquanta città che bisogna vedere almeno una volta nella vita.
Questo è dovuto non tanto alla città in sé, ma alle sue dodici chiese, che sono state riconosciute patrimonio dell’UNESCO.
La città di Lalibela non è poi così diversa dalle altre città etiopi: è un agglomerato di case più o meno povere, per lo più capanne, tra cui si alza qualche albergo e si aprono piazze e rotonde.
È una città molto viva, tra turisti che girano per le strade e bambini che corrono e giocano intorno ai tavoli da ping pong e ai biliardini sparsi per le vie della città.
Le strade sono coperte da sanpietrini che testimoniano la presenza italiana agli inizi del secolo scorso.
Camminando per la città e allontanandosi dal centro si arriva al complesso sacro formato dalle dodici chiese.
Si tratta di edifici monolitici o semi-monolitici scavati in un unico blocco roccioso.
La leggenda dice che il Re Lalibela, ispirato da Dio e da San Giorgio, abbia costruito numerosissime chiese di questo genere in tutta l’Etiopia, aiutato dagli angeli che lavoravano durante la notte. Le uniche che sono state trovate, e da cui si origina la leggenda, sono le dodici chiese di Lalibela.
Questi edifici monumentali sono scavati nella roccia, alcuni appena sbozzati all’esterno, tanto da sembrare vere e proprio caverne, alcuni invece finemente lavorati, come la chiesa di Biete Giyorgis. Le dimensioni delle Chiese non sono regolari: ce ne sono alcune tanto piccole da essere semplici stanze all’interno delle quali possono entrare all’incirca dieci persone, mentre altre sono più ampie e spaziose.
In entrambi i casi, le decorazioni interne sono mozzafiato: illuminato per lo più solo da candele, da finestre ogni tanto, l’interno è tappezzato di affreschi risalenti al tempo della costruzione, di bassorilievi e dipinti, mentre il pavimento è ricoperto da tappeti per non far appoggiare i piedi nudi sulla roccia (si entra scalzi).
Fiore all’occhiello di Lalibela è la sopraccitata Biete Giyorgis. Questa chiesa cruciforme si sviluppa verso il basso.
Gli operai che l’hanno costruita hanno iniziato a scavare dal livello del terreno e sono scesi per circa dodici metri durante i lavori. L’edificio è visibile da vari punti di osservazione.
Quello che dà maggiormente la possibilità di guardare l’edificio nel suo insieme è una piccola altura al lato della chiesa: da qui si può ammirare il paesaggio, la piana in cui è scavato l’edificio e la sua pianta.
Si può poi camminare intorno al tetto: se ci si sporge appena si può osservare perfettamente la profondità dello scavo e le decorazioni lungo tutte le pareti della costruzione.
Si può inoltre scendere al livello del pavimento: tramite una scalinata e un cancello si accede allo spiazzo che circonda l’edificio.
Se si guarda verso l’alto ci si rende conto dell’altezza e della maestosità di Biete Giyorgis, della sua imponenza.
Il profilo cruciforme della chiesa si staglia contro il cielo e si imprime nella mente dei visitatori e dei pellegrini.
La pietra è di un rosa pallido e la decorazione è semplice: sul soffitto sono scolpite croci concentriche, mentre sui lati è essenziale, geometrica.
La porta principale permette l’accesso ad un interno, che ricalca la forma a croce, ben più modesto, anche se ricco di tesori, la cui vista è però interdetta ai visitatori.
Uscendo si può vedere una nicchia scavata nel muro: lì riposano le ossa di pellegrini giunti a Lalibela da ogni parte dell’Africa e che giurarono di rimanere per l’eternità vicino alla chiesa.
Dall’altro lato, una “pozza” con del papiro: acqua santa.
Qui, infatti, l’acqua santa non manca mai.
Nell’intenzione di ricreare una Gerusalemme terrestre e una celeste, il Re ribattezzò il fiume che scorre tra i due poli delle chiese Giordano
Tutte le chiese sono collegate da stretti passaggi che permettono ai monaci e ai preti che vivono lì di spostarsi facilmente.
Questi passaggi posso essere alla luce del sole o sotterranei e proprio quelli sotterranei sono una delle caratteristiche del complesso sacro di Lalibela.
Si tratta di tunnel completamente bui in cui non è permessa alcuna forma di illuminazione: bisogna appoggiare la mano al muro e andare avanti, fino a che la luce, prima fievole e poi sempre più accesa e vibrante, non acceca e si esce dal tunnel per trovarsi in un posto completamente nuovo, una nuova chiesa in un punto diverso del complesso.
Questi tunnel, oltre che per spostarsi, hanno una funzione e un significato sacro: rappresentano il percorso dall’inferno al paradiso, la strada che il fedele deve fare per purificarsi e passare dall’oscurità dell’inferno e del peccato alla luce del paradiso e della salvezza divina.
Fonte: viaggionelmondo.net
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