Il monachesimo, insieme al papato, fu la grande forza che contribuì alla cristianizzazione di tutta l’Europa. Molti storici ritengono che furono i due fattori che maggiormente contribuirono alla definitiva caduta dell’impero romano. In parte è vero: la Chiesa diede una buona spallata all’impero con l’introduzione delle affrancazioni dalla schiavitù, insieme alle donazioni e ai pellegrinaggi, come opere meritorie per ottenere la remissione dei peccati. Per quanto riguarda il monachesimo, Voltaire diceva che, a quel punto dell’impero, c’erano più monaci che soldati. In realtà, quando il monachesimo si diffuse, l’impero era già disfatto: un enorme corpo agonizzante crollato su se stesso per il suo stesso peso.
Il monachesimo contribuì invece al costituirsi della grande proprietà ecclesiastica che è una delle cause all’origine del potere temporale della Chiesa.
San Benedetto non si aspettava una diffusione così massiccia del suo ordine, ma alla base della fortuna dell’ordine benedettino sta un’equazione molto semplice: l’idea giusta al momento giusto, ossia la fondazione dei primi monasteri e la Regola da lui scritta in un momento particolarmente difficile per il territorio imperiale. Il potere centrale dell’impero non funzionava più, anzi, nelle mani di persone fuori da ogni controllo era diventato motivo di oppressione: si era instaurata la legge del più forte; le continue e feroci invasioni dei Goti prima e dei Longobardi poi, seminavano il terrore tra le popolazioni che non sapeva più a quale santo votarsi. Le cittadelle monastiche, per quanto piccole, e quei 73 brevi articoletti che scandivano la giornata e la vita dei monaci secondo le loro esigenze spirituali e materiali, furono l’àncora di salvezza per intere comunità civili terrorizzate, disorientate e confuse; qualcosa a cui aggrapparsi, che conciliava la nuova fede con il bisogno di ordine esistenziale e di protezione. Il monastero diventò rifugio per comunità intere che offrivano il loro lavoro, anche gratis, nei campi in cambio della semplice protezione.
Quello che fece veramente grandi i monasteri furono tuttavia le donazioni “pro rimedio animae”, per rimediare ai peccati del donatore, come si voleva a quel tempo. Grandi donazioni terriere, non solo di privati ma anche di re che offrivano terre demaniali, in ogni angolo d’Italia andarono ad arricchire specifici monasteri e chiese. Lo spirito con cui queste donazioni venivano fatte era prettamente spirituale: non si donava ad un monastero o ad una chiesa, ma al santo patrono del monastero o della chiesa. Le donazioni a Montecassino venivano fatte a S. Benedetto, fondatore del monastero, mentre quelle alla Chiesa Romana venivano fatte a San Pietro, primo vescovo.
Al di là dei motivi spirituali, c’erano sempre dei motivi molto pratici ed opportunistici, soprattutto quando a donare era semplici cittadini. Essi preferivano donare il loro pezzo di terra ad un ente ecclesiastico, soprattutto ad un monastero, perché avevano la garanzia di un potente protettorato e un trattamento più umano come coloni.
L’abbazia di Montecassino e quella di San Vincenzo al Volturno, a volte in antagonismo tra loro, divennero le stupende cittadelle monastiche che conosciamo grazie a cospicue donazioni, di privati e di re, che le resero incredibilmente ricche e latifondiste, anticipando di qualche tempo il feudalesimo.
Il territorio carinolese non sfuggì a questa pratica che si estese per tutto il medioevo e, sul nostro territorio, diverse furono le proprietà appartenenti alle due abbazie.
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