Figlio di buona famiglia Vicenzo Tiberio frequentava la facoltà di Medicina di Napoli quando, ospite a casa degli zii ad Arzano (Napoli), notò che il pozzo usato per le necessità domestiche incideva sulla salute di tutti: ogni volta che veniva ripulito dalle muffe, gli inquilini avevano infezioni intestinali che cessavano solo quando le muffe ricomparivano.
Il ragazzo iniziò a raschiare le muffe con una spatolina. Non solo: le portò in laboratorio per analizzarle e le catalogò una a una.
Farlo non fu difficile: in quegli anni frequentava l’istituto di Igiene di Napoli.
Tiberio non si limitò a osservare il fenomeno, ma si dedicò anche alla sperimentazione: dopo aver ottenuto i primi risultati in laboratorio, individuò un terreno di coltura adatto ed estrasse un siero concentrato di quello che può essere considerato un antesignano degli antibiotici. Lo iniettò in alcune cavie precedentemente infettate e attese. I topi di laboratorio guarirono
A questo punto mancava solo la sperimentazione sull’uomo e la messa in produzione dell’antibiotico.
Le sue ricerche in facoltà suscitarono poco interesse e soltanto nel 1895, dopo la laurea, pubblicò la sua ricerca "Sugli estratti di alcune muffe" negli Annali di Igiene sperimentale, una delle più importanti riviste scientifiche italiane dell’epoca.
Scriveva Tiberio: «Ho voluto osservare quale azione hanno sugli schizomiceti [batteri, ndr] i prodotti cellulari, solubili in acqua, di alcuni ifomiceti [un tipo di funghi, ndr] comunissimi: Penicillium glaucum, Mucor mucedo ed Aspergillus flavescens. […] Per le loro proprietà le muffe sarebbero di forte ostacolo alla vita e alla propagazione dei batteri patogeni».
Purtroppo però il nostro Paese, da poco diventato nazione, era alla periferia del mondo scientifico del tempo. Gli Annali di Igiene Sperimentale erano una rivista di nicchia nel panorama internazionale e la comunità scientifica italiana si dimostrò assai poco lungimirante: le conclusioni di Tiberio furono derubricate a semplici coincidenze e il fascicolo archiviato in uno scaffale dell’Istituto di igiene dove rimase per 60 anni, riscoperto solo 40 anni dopo la morte.
Oltremanica le cose andarono doversamente. Quando 35 anni dopo, nel 1929, Alexander Fleming annunciò la sua scoperta al Medical Research Club di Londra, la comunità scientifica inglese intuì immediatamente il potere rivoluzionario di quelle muffe che potevano essere il primo passo per la creazione di un farmaco in grado, almeno in linea teorica, di guarire da tubercolosi, broncopolmoniti, infezioni postoperatorie e soprattutto ferite di guerra.
Nei 12 anni successivi gli studi sulla penicillina proseguirono grazie al cosiddetto "gruppo di Oxford" composto dall'australiano Howard Florey e dall'ebreo tedesco Ernst Chain: nel 1940 fu possibile condurre le prime sperimentazioni.
Tutte diedero ottimi risultati e il primo uso che si fece della penicillina, mentre infuriava la Seconda Guerra Mondiale, fu proprio sui campi di battaglia. Non a caso già due anni dopo, nel 1943, la produzione a uso militare dell'arma segreta, come veniva chiamata la penicillina, ebbe un’impennata.
L'epilogo della storia è risaputo: nel 1945, a guerra finita, Fleming, Florey e Chain furono insigniti del premio Nobel per la medicina e la fisiologia. Nello stesso anno in Europa la penicillina sarà distribuita nelle farmacie anche ad uso civile.
E Tiberio? Lui morì nel 1915, ad appena 46 anni, stroncato da un infarto.
Deluso dalla tiepida accoglienza delle sue ricerche, dopo la sua scoperta (incompresa) abbandonò l’Università: partecipò al concorso per medico nel Corpo sanitario marittimo e si arruolò nella Marina militare, rinunciando alla carriera accademica.
Oggi sulla facciata della sua casa natale a Sepino (Campobasso) una lapide lo ricorda così: "Primo nella scienza, postumo nella fama".