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lunedì 20 dicembre 2021

Straordinaria scoperta archeologica nel Canale di Otranto: un relitto alto arcaico getta nuova luce sulla storia della Magna Grecia

 


I recenti studi della Soprintendenza nazionale per il patrimonio culturale subacqueo sul relitto individuato nel 2019 a 780 metri di profondità nel Canale di Otranto gettano nuova luce sugli albori della Magna Grecia. 

Con l’ausilio di un mezzo sottomarino filoguidato (Remotely Operated Vehicle) e dotato di strumentazioni di alta tecnologia è stato possibile riportare alla luce una parte del carico del relitto: ventidue reperti di ceramiche fini e contenitori da trasporto provenienti dalla regione di Corinto che, grazie al recente studio condotto dagli archeologi del ministero della Cultura, sono stati datati intorno alla prima metà del VII secolo a.C.. 

I reperti – attualmente conservati nei laboratori di restauro della Soprintendenza istituita dal ministro Franceschini nel dicembre del 2019 nell’ambito della riorganizzazione del ministero –  costituiscono un ritrovamento eccezionale e di grande importanza scientifica.


L’archeologia subacquea – ha dichiarato il ministro della Cultura, Dario Franceschini –  è uno dei settori di ricerca più importanti del nostro Paese su cui è necessario tornare a investire. Siamo un paese circondato dal mare e abbiamo un ricco patrimonio culturale sommerso che va ancora studiato, salvaguardato e valorizzato. Le recenti indagini nel Canale di Otranto confermano che si tratta di un patrimonio ricchissimo in grado di restituirci non solo i tesori nascosti nei nostri mari, ma anche la nostra storia”.

Le tecnologie solitamente utilizzate nell’ambito dei lavori della pratica subacquea industriale del comparto “oil & gas”, utilizzate sotto il controllo attento degli archeologi della Soprintendenza, hanno permesso di portare in superficie parte del carico del primo relitto databile all’inizio del VII secolo a.C. ritrovato nel mar Adriatico – ha spiegato la Soprintendente, l’archeologa subacquea Barbara Davidde e ha aggiunto – si tratta di un evento di eccezionale importanza, anche per le tecnologie utilizzate per il recupero, realizzato nei mari italiani a quasi 800 metri di profondità“.


La scoperta ci restituisce un dato storico che racconta le fasi più antiche del commercio mediterraneo agli albori della Magna Grecia, meno documentate da rinvenimenti subacquei, e dei flussi di mobilità nel bacino del mediterraneo – ha spiegato il Direttore dei Musei, Massimo Osanna, che ha visitato il laboratorio di restauro della Soprintendenza nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo, in occasione del 60° Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia,  e ha proseguito – è un  carico intatto che getta luce sulla prima fasi della colonizzazione greca in Italia meridionale, grazie anche allo stato di conservazione significativo che ci permette di capire quello che trasportavano: non solo cibi come olive, ma anche coppe da vino considerate beni di prestigio e molto apprezzate anche dalle genti italiche”.




Si tratta in particolare di tre anfore della tipologia corinzia A, dieci skyphoi di produzione corinzia, quattro hydriai di produzione corinzia, tre oinochoai trilobate in ceramica comune e una brocca di impasto grossolano, di forma molto comune a Corinto. Molto interessante il pithos, recuperato frammentario”, spiega la Davidde, “con tutto il suo contenuto costituito da skyphoi impilati al suo interno in pile orizzontali ordinate. In questa fase, se ne contano almeno 25 integri, oltre a diversi frammenti pertinenti ad altre coppe. 

Il numero totale degli skyphoi ed eventuali altri elementi contenuti originariamente nel pithos saranno definiti attraverso uno scavo in laboratorio con la rimozione del sedimento marino”.

In considerazione dell’importanza del relitto, il Ministero della Cultura ha in previsione di procedere al recupero dell’intero carico che risulta costituito da circa duecento reperti, ancora sparsi sul fondale, di cui si dispone già di una mappatura georiferita, al restauro dei reperti e alla realizzazione delle analisi archeometriche sui materiali e archeobotaniche su residui organici e vegetali che potrebbero essere ancora presenti nel sedimento che riempie molte delle ceramiche recuperate, come per esempio in una delle anfore corinzie che ha restituito i resti di noccioli di olive.

Fonte: meteoweb

domenica 19 dicembre 2021

San Gregorio Armeno: la via dei presepi


 Nel periodo natalizio non può che trovare spazio per il racconto una delle vie più celebri di Napoli: San Gregorio Armeno.

Si colloca nel cuore della città partenopea tra la famosa Spaccanapoli e la via dei Tribunali ed è il cuore pulsante del Natale perché è qui che si trovano le note e numerosissime botteghe artigiane che ne fanno la via dei presepi più conosciuta d’Italia. 
Ogni maestro opera secondo tecniche che vengono tramandate per generazioni e conosce il significato simbolico di ogni personaggio. Ad attrarre i visitatori non è solo la tradizione di quest’arte secolare ma anche la capacità di rinnovarsi come con le statuette che riproducono o parodizzano i più famosi personaggi contemporanei.

San Gregorio Armeno è conosciuta anche come Strada Nostriana o via San Liguoro, ed è la strada di Napoli dove hanno sede le numerose botteghe dei maestri presepiali che creano le statuette fatte a mano e riproducono i protagonisti tradizionali del presepe, ma anche personaggi che non appartengono alla Natività classica.
Gli artigiani, infatti, hanno saputo cavalcare il cambiamento e hanno rinnovato i personaggi del presepe proponendo anche personaggi politici o sportivi, celebrità nostrane e personaggi famosi di tutto il mondo.

Un tempo San Gregorio Armeno era una strada di origine romana su cui si trovava il tempo consacrato alla dea Cerere, la divinità della terra e della fertilità.

 I cittadini vi si recavano portando in dono statuette votive di terracotta e per tale motivo la strada era ricca di botteghe artigiane che realizzavano gli ex voto.

In epoca altomedievale, sulle fondamenta dell’antico edificio templare fu edificato un monastero di monache dell’ordine di San Basilio.

 Queste, fuggite da Costantinopoli all’epoca delle epurazioni iconoclaste, vi si rifugiarono e portarono con loro le reliquie di San Gregorio, vescovo d’Armenia.

Con il tempo gli artigiani locali vennero incaricati dalle più ricche famiglie napoletane di produrre i personaggi dei Vangeli che erano parte della Natività cristiana e a partire dal Settecento, la tradizione del presepe napoletano portò San Gregorio Armeno ad essere nota come la via dei presepi.


Ancora oggi le pregiate produzioni degli artigiani vengono apprezzate dai visitatori provenienti da ogni parte del mondo, le botteghe sono aperte tutto l’anno ed è possibile osservare le maestranze all’opera, ma il momento migliore per ammirare queste opere d’arte è certamente il colorato e luminoso periodo delle festività natalizie.

I maestri del presepe di San Gregorio armeno sono dei veri virtuosi della realizzazione dei tipici presepi in sughero e dei personaggi in terracotta.
Ma la tradizione vuole anche che ogni maestro presepiale sappia consigliare perfettamente i clienti sulla scelta delle componenti del presepe. Conoscono e spiegano, infatti, il significato e la simbologia che si cela dietro ogni personaggio.
I personaggi e i pastori non riproducono meramente la fisionomia dei lavoratori di un tempo ma rappresentano un dipinto dell’anima che si esplicita in ogni dettaglio, in ogni movenza e in ogni abito rigorosamente cucito a mano.


A detta di tutti coloro che si sono recati in visita nella via dei presepi, l’acquisto è un vero e proprio viaggio culturale nella tradizione della città partenopea. 

Lontani dal trambusto delle città, i presepi e le statuette conservano un’atmosfera magica che non è possibile trovare in alcun luogo del mondo.

A completare gli elementi del presepe vi sono gli edifici che spesso sono azionati meccanicamente ed elettricamente per far muovere mulini a vento, cascate e tutte le botteghe che vengono riprodotte con le tecniche personali di ogni maestro e tramandate di generazione in generazione.

Gli artigiani poi entrano in competizione su chi riesca a creare la statuina più verosimigliante ai personaggi del mondo dello spettacolo e della politica, tanto che avere una propria caricatura a San Gregorio Armeno rappresenta una vera e propria consacrazione alla quale ambiscono molte personalità.

La tradizione è stata quindi in grado di seguire il corso dei tempi e rinnovarsi in un’arte che pur modernizzata sopravvive da secoli con il suo fascino intatto.

Fonte: meteoweb.

venerdì 17 dicembre 2021

Ballysaggartmore Towers: la storia delle rovine più singolari d’Irlanda


 Girovagando per l’Irlanda è facile trovare antiche strutture abbandonate: castelli, cimiteri e abbazie la fanno da padroni, nel verde delle campagne irlandesi. Uno degli edifici più particolari che è possibile trovare nell’Isola di Smeraldo è un insieme di torri alle porte di Lismore, nella contea di Waterford: le Ballysaggartmore Towers. Il loro nome deriva dal vicino villaggio di Ballysaggart.

Queste torri fanno parte di una categoria architettonica che, in inglese, viene definita “folly”. Le follies sono costruzioni solitarie, che svettano in mezzo alle campagne come sovrani decaduti. Solitamente, una folly ha uno stile molto eccentrico e funge per lo più da decorazione.

Le Ballysaggartmore Towers non fanno eccezione: furono costruite nel 1834 da Arthur Keily-Ussher, un proprietario terriero anglo-irlandese, tenutario di poco più 8000 acri di terreno proprio dove sorgono queste torri.


Il motivo della costruzione di queste torri è presto detto: il fratello di Elizabeth Keily-Ussher, moglie di Arthur, aveva preso dimora a Strancally Castle, una residenza maestosa sul confine tra la contea di Waterford e quella di Cork.

 Si narra che la moglie di Arthur fosse molto invidiosa della cognata, che viveva in quel castello così lussuoso. 

Pare che Arthur Keily-Ussher spendesse molti soldi per far felice la moglie, che alla fine lo convinse a costruire una residenza che battesse in ricchezza e maestosità quella di Strancally Castle.

Fu così che, intorno al 1830, cominciarono i lavori per la costruzione del castello.

È importante notare che le Ballysaggartmore Towers non costituiscono la residenza effettiva: se andrete a visitarle, vedrete che sono grandi, ma non abbastanza da poter contenere una famiglia con tutta la servitù. 

Si trattava, infatti, delle logge di accesso, che dovevano essere mastodontiche per impressionare gli ospiti. Non a caso, il complesso di torri è diviso in due parti, attualmente collegate tra loro da un sentiero percorribile a piedi in circa 20 minuti.


Era prevista la costruzione di una villa enorme, anche se, pare, di fattura molto più semplice rispetto alle Ballysaggartmore Towers, progettate peraltro dal giardiniere al servizio dei Keily-Ussher. Tuttavia, la storia ebbe altri piani.

Il costo delle logge fu un duro colpo per la famiglia Keily-Ussher. 

Il prezzo per la costruzione era altissimo e, inoltre, pare che Arthur fosse uno sfruttatore che si approfittava dei fittavoli che non potevano pagargli l’affitto.

 Di conseguenza, perse molte delle sue entrate, dal momento che diversi fittavoli scelsero di lasciare la zona.

 Il colpo finale alle sue finanze fu inferto dalla Grande Carestia del 1845, che mise il punto ai sogni di gloria della famiglia Keily-Ussher.

 La dinastia non si estinse con Arthur, ma proseguì nei suoi figli e discendenti. L’ultimo di cui si abbia notizia è morto nel 2003 nell’Ontario, in Canada. Tuttavia, Arthur fu costretto a vendere il terreno su cui aveva costruito le Ballysaggartmore Towers che, pare, passarono di famiglia in famiglia fino agli anni Settanta del Novecento, quando vennero definitivamente abbandonate.

Attualmente, di quell’ambizioso progetto, rimangono le torri, che segnano l’ingresso in una folta foresta dall’aspetto fiabesco.

Fonte: vanillamagazine

martedì 7 dicembre 2021

Ussuri Bay: la spiaggia di vetro in Russia


 Ussuri Bay è la  particolare spiaggia di vetro, situata a Vladivostok, in Russia, nella regione siberiana di Primorsky. Ad oggi  è una delle spiagge più belle che esistano al mondo, una baia trasformatasi nel tempo da inferno a paradiso.

 Gli orrori umani a volte si pagano, altre volte, fortunatamente ci pensa lei,  madre natura, a correggere scempi, deturpazioni e contaminazioni e così è avvenuto in molte zone del mondo: dalle Hawaii, alla bellissima spiaggia di Glass Beach, in California, le baie ex discariche sono diventate dei veri e propri paradisi naturali, dove natura vicit in omnibus.

Ussuri Bay, zona marittima protetta, con le sue gemme luminose e ciottoli colorati, attira ogni anno milioni di visitatori, pronti a lasciarsi incantare dalla potenza di madre natura che, grazie alle correnti oceaniche del Pacifico, ha regalato nuova vita a questo tratto di mare. 


 La spiaggia di Ussuri Bay, nasce in epoca sovietica come discarica per bottiglie di vetro e porcellana, quando, con forte ignoranza, l’uomo era convinto che l’oceano potesse inghiottire tutto.

 Con il passare degli anni la potenza del mare, con le sue onde, ha lavato via vino, birra e vodka, trasformando la baia, con i suoi minuscoli sassolini colorati, in una delle cale più belle al mondo. 

Una sabbia nera vulcanica e il bianco della neve che d’inverno la ricopre, sono la cornice perfetta di uno scenario suggestivo e mozzafiato, in grado di regalare emozioni uniche soprattutto nelle giornate di sole, quando i ciottoli colorati si riflettono luminosi dentro ai nostri occhi.

 Inquinamento, trasformatosi in questo caso in un luogo da favola, un disastro ambientale trasformatosi in ricchezza paesaggistica in grado di attirare ogni anno milioni di visitatori, creando nuove fonti turistiche per la zona. 

Ovviamente gli errori del passato non vanno fatti nuovamente in quanto la natura non sempre regala una seconda opportunità.

Fonte: lineadiretta24

sabato 4 dicembre 2021

Questa gigante caverna di cristalli del Messico è tanto magnifica quanto mortale


 Sepolta a 300 metri di profondità sotto la montagna Sierra de Naica di Chihuahua, Messico, l'enorme "Caverna dei Cristalli" (Cueva de los cristales) contiene alcuni dei cristalli più grandi del mondo

Ancorati alle mura e alle pareti della caverna, questi cristalli sono cresciuti, lentamente ma inesorabilmente, per almeno mezzo milione di anni.

Si tratta di cristalli di selenite (una varietà di gesso cristallino): il più grande arriva quasi a 11 metri e mezzo di lunghezza e ad un volume di 5 metri cubici, con una massa stimata di 12 tonnellate. I cristalli creano uno spettacolo unico nella caverna di Naica, ma purtroppo pochissime persone possono assistervi: l'accesso alle grotte, infatti, è al momento proibito ed entrarci è estremamente pericoloso.


La Caverna dei Cristalli ha una temperatura che varia tra i 47°C e i 58°C (tra quelle registrate). I livelli di umidità, soprattutto, sono altissimi: vicini al 100%, impediscono a qualsiasi visitatore di tollerare l'ambiente per più di 10 minuti. Il rischio è che l'umidità condensi nei polmoni e diventi fatale.

A causa di ciò, la caverna è relativamente inesplorata e poco conosciuta.

 Alla fine del XVIII secolo, nell'area erano stati scoperti diversi giacimenti di metalli preziosi. 

Nel 1910 fu inizialmente scoperta una caverna di 120 metri, simile all'enorme Caverna dei Cristalli ma più piccola e meno letale. Fu battezzata "Caverna delle Spade". La caverna più grossa, invece, fu scoperta soltanto nel 2000. Era piena d'acqua, che venne estratta dalla Peñoles Mining Company ancor prima che si scoprissero le magnifiche colonne di selenite.


Negli anni successivi, gli scienziati riuscirono ad esplorare le caverne in escursioni che duravano dai 15 ai 60 minuti, grazie a dispositivi che garantivano loro aria respirabile. 

La direttrice del NASA Astrobiology Institute, Penelope Boston, è scesa nella Caverna dei Cristallli di Naica e ha contribuito alla scoperta di diverse forme di vita microbiche intrappolate dentro ai cristalli (in bolle d'aria al loro interno). I minuscoli organismi avevano almeno 50.000 anni.

Fonte: wonews.it

giovedì 2 dicembre 2021

12 cose che (forse) non sai sul Teatro alla Scala


Il Teatro alla Scala di Milano è un'istituzione nel mondo della Lirica e della cultura. 

La sua storia è ricca di curiosità storiche (e musicali) a iniziare dal nome che deriva da quello dalla piazza dove è stato costruito, l’omonima piazza della Scala.

Questa, a sua volta, si chiama così perché vi sorgeva, dal 1381, la chiesa di Santa Maria alla Scala.

 Questa chiesa prese il nome della sua committente, Beatrice Regina della Scala, discendente della potente dinastia veronese, oggi estinta, dei della Scala (era nota anche come “famiglia scaligera”).

Regina della Scala sposò nel 1345, a soli 12 anni, Bernabò Visconti, signore di Milano, e gli diede 15 figli. 

Quando nel 1776 Maria Teresa d’Austria ordinò la costruzione del teatro, la preesistente chiesa, di stile gotico, fu abbattuta per far posto al nuovo tempio della lirica.

Il Teatro alla Scala venne inaugurato il 3 agosto 1778. Realizzato per decreto di Maria Teresa d’Austria. 

Doveva essere il più grande e la stessa Opera di Vienna venne poi costruita sul suo esempio. 

Nacque dalle ceneri del Teatro Regio di Villa Reale, distrutto da un incendio il 23 febbraio del 1776. E dalle macerie della chiesa pericolante di Santa Maria della Scala, demolita per fargli posto, da cui prese il nome. 

Nel 1778 l’architetto Giuseppe Piermarini portò a termine il teatro, che fu inaugurato il 3 agosto con un’opera di Antonio Salieri, L’Europa riconosciuta.

 Soltanto dal 1940 la Prima, ovvero la prima rappresentazione della nuova Stagione, si tiene nella sera del 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, patrono di Milano.

 Il palchetto era di proprietà delle singole famiglie (era una forma di sovvenzione al teatro) e ciascuna lo addobbava a piacimento. Anzi, dalla sontuosità del palchetto si riconosceva lo status sociale del proprietario.

 Solo la tendina, che dà sulla platea, doveva essere rigorosamente uniforme. Ma non è sempre stata rossa. Anzi, a metà Ottocento tutti i tendaggi erano azzurri. E non mancava chi dietro le tende faceva il caffé o... altro.


Le 700 seggiole della platea, un tempo destinate alle classi “inferiori”, erano mobili così da poter essere facilmente spostate per far posto a un’area libera, dove si poteva ballare e persino partecipare a gare di equitazione. Nel ‘800, nel ridotto della Scala la bisca funzionava da mezzodì alle 4 del mattino. Le 700 seggiole della platea, un tempo destinate alle classi “inferiori”, erano mobili così da poter essere facilmente spostate per far posto a un’area libera, dove si poteva ballare e persino partecipare a gare di equitazione. Nel ‘800, nel ridotto della Scala la bisca funzionava da mezzodì alle 4 del mattino.


IL PALCHETTO NUMERO 13.
 Non si sa esattamente a quale famiglia appartenesse (anche perché i palchetti potevano essere rivenduti) ma certamente doveva trattarsi di gente curiosa. 
Il palchetto è interamente tappezzato di specchi, disposti con perizia, in modo da poter osservare ogni angolo del teatro e “spiare” le mosse di tutti.

Leggenda vuole che il Teatro alla Scala ospiti il fantasma di Maria Malibran, celebre soprano del XIX secolo, morta giovane. Altri, invece, hanno “visto” qui lo spirito di Maria Callas.

In uno dei ridotti, al secondo piano, si trovava una vera e propria cucina, dove i signori ordinavano alla servitù di preparare gustosi manicaretti. E, dalle carte dell’epoca, risulta che molti, nel piano sottostante, si siano lamentati per i resti di cibo che volavano da sopra!

Una delle attrattive più note della Scala è l’enorme lampadario centrale, che conta ben 400 lampadine. Per dare un’idea delle dimensioni, basti pensare che nella coppa con cui è applicato al soffitto può entrare un uomo. 

Ebbene, non è tutto cristallo di Boemia: le cupolette sono di plastica, ma la decisione non è stata presa per motivi economici, bensì di sicurezza, perché altrimenti la struttura avrebbe raggiunto un peso eccessivo.

 Il lampadario che vediamo oggi non è quello originale ottocentesco, ma una copia, realizzata dopo i bombardamenti della II Guerra mondiale.

 Per pulirlo, occorrono venti giorni.
Il “do di petto” del tenore Francesco Tamagno (1850-1902), tra i preferiti da Giuseppe Verdi, si dice fosse così potente da farlo tremare.

Fino al 2000, all’interno del complesso edificio c’era un piccolo teatro, chiamato la Piccola Scala. 

Dotato di soli 600 posti, originariamente era destinato all’allestimento di opere da camera moderne e al patrimonio melodrammatico antico. Inaugurata il 26 dicembre 1955 con il Matrimonio segreto, opera di Domenico Cimarosa, la Piccola Scala fu chiusa nel 1983 e definitivamente abbattuta, anzi inglobata nella Scala, con la ristrutturazione del 2000.

 Il Teatro alla Scala è ottimo per la lirica, ma è solo discreto per la musica sinfonica, al punto che, secondo gli esperti, anche le orchestre migliori talvolta sembra che suonino con la sordina.

 La musica strumentale, infatti, necessita di un tempo di riverbero più lungo, e per ottenerlo si ricorre a strutture in grado di “rompere” il suono e diffonderlo in tutta la sala. Queste strutture mancano alla Scala.

La Callas individuò il punto preciso del palcoscenico da dove far arrivare la sua voce ovunque. Il famoso «punto Callas».
Oggi la Scala è sede dell’omonima orchestra, corpo di ballo, coro e Filarmonica, oltre che dell’Accademia e di una scuola di musica, ballo e mestieri legati al teatro. Ospita anche il Museo teatrale da dove si può entrare nel Teatro per affacciarsi da un palco e ammirare l'interno della Scala.

 A Parigi, a partire dal 1820, comparvero agenzie specializzate che proponevano veri professionisti dell’applauso o della richiesta di bis. Alla Scala di Milano, nel 1919, per supportare i cantanti d’opera il listino prezzi prevedeva il pagamento di 25 lire (30 euro attuali) per gli uomini e di 15 per le donne.
Notoriamente i loggionisti della Scala sono il pubblico più competente ed esigente della lirica.

 I loro applausi e soprattutto le loro contestazioni fanno parte di una liturgia che può piacere o no, ma che secondo l’attuale sovraintendente e direttore artistico della Scala, Alexander Pereira, porta molti cantanti a evitare il palcoscenico della Scala.

Tra il 2002 e il 2004 la Scala è stata ristrutturata: il progetto dello svizzero Mario Botta ha aggiunto una torre scenica più grande, mentre un'avveniristica macchina scenica è stata realizzata dall'ingegnere Franco Malgrande. Ed è ora il nuovo cuore creativo della Scala di Milano: ha una movimentazione articolata che da 18 metri sotto terra - dove si prepara l'arredo - può portare le scene fino a 4 metri di altezza sopra il livello normale del palco.

Fonte: focus.it



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