venerdì 31 dicembre 2021
venerdì 24 dicembre 2021
lunedì 20 dicembre 2021
Straordinaria scoperta archeologica nel Canale di Otranto: un relitto alto arcaico getta nuova luce sulla storia della Magna Grecia
I recenti studi della Soprintendenza nazionale per il patrimonio culturale subacqueo sul relitto individuato nel 2019 a 780 metri di profondità nel Canale di Otranto gettano nuova luce sugli albori della Magna Grecia.
Con l’ausilio di un mezzo sottomarino filoguidato (Remotely Operated Vehicle) e dotato di strumentazioni di alta tecnologia è stato possibile riportare alla luce una parte del carico del relitto: ventidue reperti di ceramiche fini e contenitori da trasporto provenienti dalla regione di Corinto che, grazie al recente studio condotto dagli archeologi del ministero della Cultura, sono stati datati intorno alla prima metà del VII secolo a.C..
I reperti – attualmente conservati nei laboratori di restauro della Soprintendenza istituita dal ministro Franceschini nel dicembre del 2019 nell’ambito della riorganizzazione del ministero – costituiscono un ritrovamento eccezionale e di grande importanza scientifica.
“L’archeologia subacquea – ha dichiarato il ministro della Cultura, Dario Franceschini – è uno dei settori di ricerca più importanti del nostro Paese su cui è necessario tornare a investire. Siamo un paese circondato dal mare e abbiamo un ricco patrimonio culturale sommerso che va ancora studiato, salvaguardato e valorizzato. Le recenti indagini nel Canale di Otranto confermano che si tratta di un patrimonio ricchissimo in grado di restituirci non solo i tesori nascosti nei nostri mari, ma anche la nostra storia”.
“Le tecnologie solitamente utilizzate nell’ambito dei lavori della pratica subacquea industriale del comparto “oil & gas”, utilizzate sotto il controllo attento degli archeologi della Soprintendenza, hanno permesso di portare in superficie parte del carico del primo relitto databile all’inizio del VII secolo a.C. ritrovato nel mar Adriatico – ha spiegato la Soprintendente, l’archeologa subacquea Barbara Davidde e ha aggiunto – si tratta di un evento di eccezionale importanza, anche per le tecnologie utilizzate per il recupero, realizzato nei mari italiani a quasi 800 metri di profondità“.
“La scoperta ci restituisce un dato storico che racconta le fasi più antiche del commercio mediterraneo agli albori della Magna Grecia, meno documentate da rinvenimenti subacquei, e dei flussi di mobilità nel bacino del mediterraneo – ha spiegato il Direttore dei Musei, Massimo Osanna, che ha visitato il laboratorio di restauro della Soprintendenza nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo, in occasione del 60° Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia, e ha proseguito – è un carico intatto che getta luce sulla prima fasi della colonizzazione greca in Italia meridionale, grazie anche allo stato di conservazione significativo che ci permette di capire quello che trasportavano: non solo cibi come olive, ma anche coppe da vino considerate beni di prestigio e molto apprezzate anche dalle genti italiche”.
“Si tratta in particolare di tre anfore della tipologia corinzia A, dieci skyphoi di produzione corinzia, quattro hydriai di produzione corinzia, tre oinochoai trilobate in ceramica comune e una brocca di impasto grossolano, di forma molto comune a Corinto. Molto interessante il pithos, recuperato frammentario”, spiega la Davidde, “con tutto il suo contenuto costituito da skyphoi impilati al suo interno in pile orizzontali ordinate. In questa fase, se ne contano almeno 25 integri, oltre a diversi frammenti pertinenti ad altre coppe.
Il numero totale degli skyphoi ed eventuali altri elementi contenuti originariamente nel pithos saranno definiti attraverso uno scavo in laboratorio con la rimozione del sedimento marino”.
In considerazione dell’importanza del relitto, il Ministero della Cultura ha in previsione di procedere al recupero dell’intero carico che risulta costituito da circa duecento reperti, ancora sparsi sul fondale, di cui si dispone già di una mappatura georiferita, al restauro dei reperti e alla realizzazione delle analisi archeometriche sui materiali e archeobotaniche su residui organici e vegetali che potrebbero essere ancora presenti nel sedimento che riempie molte delle ceramiche recuperate, come per esempio in una delle anfore corinzie che ha restituito i resti di noccioli di olive.
Fonte: meteoweb
domenica 19 dicembre 2021
San Gregorio Armeno: la via dei presepi
Nel periodo natalizio non può che trovare spazio per il racconto una delle vie più celebri di Napoli: San Gregorio Armeno.Si colloca nel cuore della città partenopea tra la famosa Spaccanapoli e la via dei Tribunali ed è il cuore pulsante del Natale perché è qui che si trovano le note e numerosissime botteghe artigiane che ne fanno la via dei presepi più conosciuta d’Italia.
San Gregorio Armeno è conosciuta anche come Strada Nostriana o via San Liguoro, ed è la strada di Napoli dove hanno sede le numerose botteghe dei maestri presepiali che creano le statuette fatte a mano e riproducono i protagonisti tradizionali del presepe, ma anche personaggi che non appartengono alla Natività classica.
Gli artigiani, infatti, hanno saputo cavalcare il cambiamento e hanno rinnovato i personaggi del presepe proponendo anche personaggi politici o sportivi, celebrità nostrane e personaggi famosi di tutto il mondo.
Un tempo San Gregorio Armeno era una strada di origine romana su cui si trovava il tempo consacrato alla dea Cerere, la divinità della terra e della fertilità.
I cittadini vi si recavano portando in dono statuette votive di terracotta e per tale motivo la strada era ricca di botteghe artigiane che realizzavano gli ex voto.
In epoca altomedievale, sulle fondamenta dell’antico edificio templare fu edificato un monastero di monache dell’ordine di San Basilio.
Queste, fuggite da Costantinopoli all’epoca delle epurazioni iconoclaste, vi si rifugiarono e portarono con loro le reliquie di San Gregorio, vescovo d’Armenia.
Con il tempo gli artigiani locali vennero incaricati dalle più ricche famiglie napoletane di produrre i personaggi dei Vangeli che erano parte della Natività cristiana e a partire dal Settecento, la tradizione del presepe napoletano portò San Gregorio Armeno ad essere nota come la via dei presepi.
Ancora oggi le pregiate produzioni degli artigiani vengono apprezzate dai visitatori provenienti da ogni parte del mondo, le botteghe sono aperte tutto l’anno ed è possibile osservare le maestranze all’opera, ma il momento migliore per ammirare queste opere d’arte è certamente il colorato e luminoso periodo delle festività natalizie.
I maestri del presepe di San Gregorio armeno sono dei veri virtuosi della realizzazione dei tipici presepi in sughero e dei personaggi in terracotta.
Ma la tradizione vuole anche che ogni maestro presepiale sappia consigliare perfettamente i clienti sulla scelta delle componenti del presepe. Conoscono e spiegano, infatti, il significato e la simbologia che si cela dietro ogni personaggio.
I personaggi e i pastori non riproducono meramente la fisionomia dei lavoratori di un tempo ma rappresentano un dipinto dell’anima che si esplicita in ogni dettaglio, in ogni movenza e in ogni abito rigorosamente cucito a mano.
A detta di tutti coloro che si sono recati in visita nella via dei presepi, l’acquisto è un vero e proprio viaggio culturale nella tradizione della città partenopea.
Lontani dal trambusto delle città, i presepi e le statuette conservano un’atmosfera magica che non è possibile trovare in alcun luogo del mondo.
A completare gli elementi del presepe vi sono gli edifici che spesso sono azionati meccanicamente ed elettricamente per far muovere mulini a vento, cascate e tutte le botteghe che vengono riprodotte con le tecniche personali di ogni maestro e tramandate di generazione in generazione.
Gli artigiani poi entrano in competizione su chi riesca a creare la statuina più verosimigliante ai personaggi del mondo dello spettacolo e della politica, tanto che avere una propria caricatura a San Gregorio Armeno rappresenta una vera e propria consacrazione alla quale ambiscono molte personalità.
La tradizione è stata quindi in grado di seguire il corso dei tempi e rinnovarsi in un’arte che pur modernizzata sopravvive da secoli con il suo fascino intatto.
Fonte: meteoweb.
venerdì 17 dicembre 2021
Ballysaggartmore Towers: la storia delle rovine più singolari d’Irlanda
Girovagando per l’Irlanda è facile trovare antiche strutture abbandonate: castelli, cimiteri e abbazie la fanno da padroni, nel verde delle campagne irlandesi. Uno degli edifici più particolari che è possibile trovare nell’Isola di Smeraldo è un insieme di torri alle porte di Lismore, nella contea di Waterford: le Ballysaggartmore Towers. Il loro nome deriva dal vicino villaggio di Ballysaggart.
Queste torri fanno parte di una categoria architettonica che, in inglese, viene definita “folly”. Le follies sono costruzioni solitarie, che svettano in mezzo alle campagne come sovrani decaduti. Solitamente, una folly ha uno stile molto eccentrico e funge per lo più da decorazione.
Le Ballysaggartmore Towers non fanno eccezione: furono costruite nel 1834 da Arthur Keily-Ussher, un proprietario terriero anglo-irlandese, tenutario di poco più 8000 acri di terreno proprio dove sorgono queste torri.
Il motivo della costruzione di queste torri è presto detto: il fratello di Elizabeth Keily-Ussher, moglie di Arthur, aveva preso dimora a Strancally Castle, una residenza maestosa sul confine tra la contea di Waterford e quella di Cork.
Si narra che la moglie di Arthur fosse molto invidiosa della cognata, che viveva in quel castello così lussuoso.
Pare che Arthur Keily-Ussher spendesse molti soldi per far felice la moglie, che alla fine lo convinse a costruire una residenza che battesse in ricchezza e maestosità quella di Strancally Castle.
Fu così che, intorno al 1830, cominciarono i lavori per la costruzione del castello.
È importante notare che le Ballysaggartmore Towers non costituiscono la residenza effettiva: se andrete a visitarle, vedrete che sono grandi, ma non abbastanza da poter contenere una famiglia con tutta la servitù.
Si trattava, infatti, delle logge di accesso, che dovevano essere mastodontiche per impressionare gli ospiti. Non a caso, il complesso di torri è diviso in due parti, attualmente collegate tra loro da un sentiero percorribile a piedi in circa 20 minuti.
Era prevista la costruzione di una villa enorme, anche se, pare, di fattura molto più semplice rispetto alle Ballysaggartmore Towers, progettate peraltro dal giardiniere al servizio dei Keily-Ussher. Tuttavia, la storia ebbe altri piani.
Il costo delle logge fu un duro colpo per la famiglia Keily-Ussher.
Il prezzo per la costruzione era altissimo e, inoltre, pare che Arthur fosse uno sfruttatore che si approfittava dei fittavoli che non potevano pagargli l’affitto.
Di conseguenza, perse molte delle sue entrate, dal momento che diversi fittavoli scelsero di lasciare la zona.
Il colpo finale alle sue finanze fu inferto dalla Grande Carestia del 1845, che mise il punto ai sogni di gloria della famiglia Keily-Ussher.
La dinastia non si estinse con Arthur, ma proseguì nei suoi figli e discendenti. L’ultimo di cui si abbia notizia è morto nel 2003 nell’Ontario, in Canada. Tuttavia, Arthur fu costretto a vendere il terreno su cui aveva costruito le Ballysaggartmore Towers che, pare, passarono di famiglia in famiglia fino agli anni Settanta del Novecento, quando vennero definitivamente abbandonate.
Attualmente, di quell’ambizioso progetto, rimangono le torri, che segnano l’ingresso in una folta foresta dall’aspetto fiabesco.
Fonte: vanillamagazine
martedì 7 dicembre 2021
Ussuri Bay: la spiaggia di vetro in Russia
Ussuri Bay è la particolare spiaggia di vetro, situata a Vladivostok, in Russia, nella regione siberiana di Primorsky. Ad oggi è una delle spiagge più belle che esistano al mondo, una baia trasformatasi nel tempo da inferno a paradiso.
Gli orrori umani a volte si pagano, altre volte, fortunatamente ci pensa lei, madre natura, a correggere scempi, deturpazioni e contaminazioni e così è avvenuto in molte zone del mondo: dalle Hawaii, alla bellissima spiaggia di Glass Beach, in California, le baie ex discariche sono diventate dei veri e propri paradisi naturali, dove natura vicit in omnibus.
Ussuri Bay, zona marittima protetta, con le sue gemme luminose e ciottoli colorati, attira ogni anno milioni di visitatori, pronti a lasciarsi incantare dalla potenza di madre natura che, grazie alle correnti oceaniche del Pacifico, ha regalato nuova vita a questo tratto di mare.
La spiaggia di Ussuri Bay, nasce in epoca sovietica come discarica per bottiglie di vetro e porcellana, quando, con forte ignoranza, l’uomo era convinto che l’oceano potesse inghiottire tutto.
Con il passare degli anni la potenza del mare, con le sue onde, ha lavato via vino, birra e vodka, trasformando la baia, con i suoi minuscoli sassolini colorati, in una delle cale più belle al mondo.
Una sabbia nera vulcanica e il bianco della neve che d’inverno la ricopre, sono la cornice perfetta di uno scenario suggestivo e mozzafiato, in grado di regalare emozioni uniche soprattutto nelle giornate di sole, quando i ciottoli colorati si riflettono luminosi dentro ai nostri occhi.
Inquinamento, trasformatosi in questo caso in un luogo da favola, un disastro ambientale trasformatosi in ricchezza paesaggistica in grado di attirare ogni anno milioni di visitatori, creando nuove fonti turistiche per la zona.
Ovviamente gli errori del passato non vanno fatti nuovamente in quanto la natura non sempre regala una seconda opportunità.
Fonte: lineadiretta24
sabato 4 dicembre 2021
Questa gigante caverna di cristalli del Messico è tanto magnifica quanto mortale
Sepolta a 300 metri di profondità sotto la montagna Sierra de Naica di Chihuahua, Messico, l'enorme "Caverna dei Cristalli" (Cueva de los cristales) contiene alcuni dei cristalli più grandi del mondo.
Ancorati alle mura e alle pareti della caverna, questi cristalli sono cresciuti, lentamente ma inesorabilmente, per almeno mezzo milione di anni.
Si tratta di cristalli di selenite (una varietà di gesso cristallino): il più grande arriva quasi a 11 metri e mezzo di lunghezza e ad un volume di 5 metri cubici, con una massa stimata di 12 tonnellate. I cristalli creano uno spettacolo unico nella caverna di Naica, ma purtroppo pochissime persone possono assistervi: l'accesso alle grotte, infatti, è al momento proibito ed entrarci è estremamente pericoloso.
La Caverna dei Cristalli ha una temperatura che varia tra i 47°C e i 58°C (tra quelle registrate). I livelli di umidità, soprattutto, sono altissimi: vicini al 100%, impediscono a qualsiasi visitatore di tollerare l'ambiente per più di 10 minuti. Il rischio è che l'umidità condensi nei polmoni e diventi fatale.
A causa di ciò, la caverna è relativamente inesplorata e poco conosciuta.
Alla fine del XVIII secolo, nell'area erano stati scoperti diversi giacimenti di metalli preziosi.
Nel 1910 fu inizialmente scoperta una caverna di 120 metri, simile all'enorme Caverna dei Cristalli ma più piccola e meno letale. Fu battezzata "Caverna delle Spade". La caverna più grossa, invece, fu scoperta soltanto nel 2000. Era piena d'acqua, che venne estratta dalla Peñoles Mining Company ancor prima che si scoprissero le magnifiche colonne di selenite.
Negli anni successivi, gli scienziati riuscirono ad esplorare le caverne in escursioni che duravano dai 15 ai 60 minuti, grazie a dispositivi che garantivano loro aria respirabile.
La direttrice del NASA Astrobiology Institute, Penelope Boston, è scesa nella Caverna dei Cristallli di Naica e ha contribuito alla scoperta di diverse forme di vita microbiche intrappolate dentro ai cristalli (in bolle d'aria al loro interno). I minuscoli organismi avevano almeno 50.000 anni.
Fonte: wonews.it
giovedì 2 dicembre 2021
12 cose che (forse) non sai sul Teatro alla Scala
Il Teatro alla Scala di Milano è un'istituzione nel mondo della Lirica e della cultura.
La sua storia è ricca di curiosità storiche (e musicali) a iniziare dal nome che deriva da quello dalla piazza dove è stato costruito, l’omonima piazza della Scala.
Questa, a sua volta, si chiama così perché vi sorgeva, dal 1381, la chiesa di Santa Maria alla Scala.
Questa chiesa prese il nome della sua committente, Beatrice Regina della Scala, discendente della potente dinastia veronese, oggi estinta, dei della Scala (era nota anche come “famiglia scaligera”).
Regina della Scala sposò nel 1345, a soli 12 anni, Bernabò Visconti, signore di Milano, e gli diede 15 figli.
Quando nel 1776 Maria Teresa d’Austria ordinò la costruzione del teatro, la preesistente chiesa, di stile gotico, fu abbattuta per far posto al nuovo tempio della lirica.
Il Teatro alla Scala venne inaugurato il 3 agosto 1778. Realizzato per decreto di Maria Teresa d’Austria.
Doveva essere il più grande e la stessa Opera di Vienna venne poi costruita sul suo esempio.
Nacque dalle ceneri del Teatro Regio di Villa Reale, distrutto da un incendio il 23 febbraio del 1776. E dalle macerie della chiesa pericolante di Santa Maria della Scala, demolita per fargli posto, da cui prese il nome.
Nel 1778 l’architetto Giuseppe Piermarini portò a termine il teatro, che fu inaugurato il 3 agosto con un’opera di Antonio Salieri, L’Europa riconosciuta.
Soltanto dal 1940 la Prima, ovvero la prima rappresentazione della nuova Stagione, si tiene nella sera del 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, patrono di Milano.
Il palchetto era di proprietà delle singole famiglie (era una forma di sovvenzione al teatro) e ciascuna lo addobbava a piacimento. Anzi, dalla sontuosità del palchetto si riconosceva lo status sociale del proprietario.
Solo la tendina, che dà sulla platea, doveva essere rigorosamente uniforme. Ma non è sempre stata rossa. Anzi, a metà Ottocento tutti i tendaggi erano azzurri. E non mancava chi dietro le tende faceva il caffé o... altro.
Le 700 seggiole della platea, un tempo destinate alle classi “inferiori”, erano mobili così da poter essere facilmente spostate per far posto a un’area libera, dove si poteva ballare e persino partecipare a gare di equitazione. Nel ‘800, nel ridotto della Scala la bisca funzionava da mezzodì alle 4 del mattino. Le 700 seggiole della platea, un tempo destinate alle classi “inferiori”, erano mobili così da poter essere facilmente spostate per far posto a un’area libera, dove si poteva ballare e persino partecipare a gare di equitazione. Nel ‘800, nel ridotto della Scala la bisca funzionava da mezzodì alle 4 del mattino.
IL PALCHETTO NUMERO 13.
Leggenda vuole che il Teatro alla Scala ospiti il fantasma di Maria Malibran, celebre soprano del XIX secolo, morta giovane. Altri, invece, hanno “visto” qui lo spirito di Maria Callas.
In uno dei ridotti, al secondo piano, si trovava una vera e propria cucina, dove i signori ordinavano alla servitù di preparare gustosi manicaretti. E, dalle carte dell’epoca, risulta che molti, nel piano sottostante, si siano lamentati per i resti di cibo che volavano da sopra!
Una delle attrattive più note della Scala è l’enorme lampadario centrale, che conta ben 400 lampadine. Per dare un’idea delle dimensioni, basti pensare che nella coppa con cui è applicato al soffitto può entrare un uomo.Ebbene, non è tutto cristallo di Boemia: le cupolette sono di plastica, ma la decisione non è stata presa per motivi economici, bensì di sicurezza, perché altrimenti la struttura avrebbe raggiunto un peso eccessivo.
Il lampadario che vediamo oggi non è quello originale ottocentesco, ma una copia, realizzata dopo i bombardamenti della II Guerra mondiale.
Per pulirlo, occorrono venti giorni.
Il “do di petto” del tenore Francesco Tamagno (1850-1902), tra i preferiti da Giuseppe Verdi, si dice fosse così potente da farlo tremare.
Fino al 2000, all’interno del complesso edificio c’era un piccolo teatro, chiamato la Piccola Scala.
Dotato di soli 600 posti, originariamente era destinato all’allestimento di opere da camera moderne e al patrimonio melodrammatico antico. Inaugurata il 26 dicembre 1955 con il Matrimonio segreto, opera di Domenico Cimarosa, la Piccola Scala fu chiusa nel 1983 e definitivamente abbattuta, anzi inglobata nella Scala, con la ristrutturazione del 2000.
Il Teatro alla Scala è ottimo per la lirica, ma è solo discreto per la musica sinfonica, al punto che, secondo gli esperti, anche le orchestre migliori talvolta sembra che suonino con la sordina.
La musica strumentale, infatti, necessita di un tempo di riverbero più lungo, e per ottenerlo si ricorre a strutture in grado di “rompere” il suono e diffonderlo in tutta la sala. Queste strutture mancano alla Scala.
La Callas individuò il punto preciso del palcoscenico da dove far arrivare la sua voce ovunque. Il famoso «punto Callas».
Oggi la Scala è sede dell’omonima orchestra, corpo di ballo, coro e Filarmonica, oltre che dell’Accademia e di una scuola di musica, ballo e mestieri legati al teatro. Ospita anche il Museo teatrale da dove si può entrare nel Teatro per affacciarsi da un palco e ammirare l'interno della Scala.
A Parigi, a partire dal 1820, comparvero agenzie specializzate che proponevano veri professionisti dell’applauso o della richiesta di bis. Alla Scala di Milano, nel 1919, per supportare i cantanti d’opera il listino prezzi prevedeva il pagamento di 25 lire (30 euro attuali) per gli uomini e di 15 per le donne.
Notoriamente i loggionisti della Scala sono il pubblico più competente ed esigente della lirica.
I loro applausi e soprattutto le loro contestazioni fanno parte di una liturgia che può piacere o no, ma che secondo l’attuale sovraintendente e direttore artistico della Scala, Alexander Pereira, porta molti cantanti a evitare il palcoscenico della Scala.
Tra il 2002 e il 2004 la Scala è stata ristrutturata: il progetto dello svizzero Mario Botta ha aggiunto una torre scenica più grande, mentre un'avveniristica macchina scenica è stata realizzata dall'ingegnere Franco Malgrande. Ed è ora il nuovo cuore creativo della Scala di Milano: ha una movimentazione articolata che da 18 metri sotto terra - dove si prepara l'arredo - può portare le scene fino a 4 metri di altezza sopra il livello normale del palco.Fonte: focus.it
martedì 30 novembre 2021
La storia della stanza del pavone
Nel 1876, l'armatore britannico Frederick Richards Leyland acquistò una grande casa al 49 di Princes Gate nel quartiere alla moda di Kensington a Londra. Poco dopo, incaricò l'architetto Richard Norman Shaw di ristrutturare e ridecorare la sua casa. La riprogettazione della sala da pranzo, invece, fu affidata al talentuoso architetto Thomas Jeckyll, noto per i suoi stili anglo-giapponesi.
Leyland aveva una vasta collezione di porcellane cinesi blu e bianche, principalmente dell'era Kangxi della dinastia Qing, che voleva esporre nella sua sala da pranzo.
Per questi, Jeckyll costruì un'intricata struttura reticolare di mensole in noce intagliato e fuso, e le completò con pelle dorata anticata che appese alle pareti.
Un dipinto dell'artista americano James McNeill Whistler, chiamato The Princess from the Land of Porcelain, occupava un posto ambito sopra il camino.
A quel tempo, lo stesso Whistler stava lavorando su un'altra parte della casa, supervisionando le decorazioni per l'ingresso.
Quando Jeckyll chiese a Leyland quali colori usare per le persiane e le porte della sala da pranzo, Leyland gli suggerì di consultare Whistler sulle combinazioni di colori.
Whistler pensava che i colori del bordo del tappeto e dei fiori sugli arazzi in pelle si scontrassero con i colori di The Princesse.
Con il permesso di Leyland, Whistler si offrì di ritoccare le pareti con tracce di giallo. Aggiunse un motivo a onde sul cornicione e la lavorazione del legno derivata dal design della porta in vetro piombato di Jeckyll.
Leyland approvò questi cambiamenti e tornò ai suoi affari a Liverpool. Anche Jeckyll si ammalò e fu costretto ad abbandonare il progetto.
Solo e senza sorveglianza, Whistler iniziò a prendersi qualche libertà con la sala da pranzo.
Ricoprì l'intera stanza, dal soffitto alle pareti, con metallo olandese, o finta foglia d'oro, su cui dipinse un lussureggiante motivo di piume di pavone. Poi dorò le scaffalature in noce di Jeckyll e abbellì le persiane di legno con quattro pavoni magnificamente piumati.
Quando Leyland tornò inaspettatamente nell'ottobre di quell'anno, rimase sbalordito nel trovare la sua sala da pranzo completamente trasformata, ma era più di quanto avesse chiesto. La pelle a motivi floreali sulle pareti era completamente dipinta e ogni superficie brillava di luminose sfumature di verde, oro e blu.
Per aggiungere benzina sul fuoco, Whistler aveva invitato altri artisti e membri della stampa in casa per vederlo lavorare nella stanza, senza il permesso di Leyland. La goccia che fece traboccare il vasofu il conto che Whistler presentò a Leyland: £ 2000, una somma enorme a quel tempo. Leyland si rifiutò di pagare.
Alla fine accettò di pagare la metà di quella cifra e bandì Whistler da casa sua.
Ferito e offeso, Whistler pianificò una rappresaglia.
Come tocco conclusivo del suo lavoro, Whistler disegnò un grande pannello, raffigurante una coppia di pavoni in lotta sulla parete di fronte alla Principessa , come allegoria del rapporto acida tra l'artista e il suo mecenate. Il pavone a sinistra rappresenta l'artista. Sulla destra è il mecenate avaro, distinguibile dalle monete scintillanti sul petto e sulle penne della coda. Anche un paio di monete sono sparse vicino ai suoi piedi.
Per assicurarsi che Leyland capisse il simbolismo, Whistler chiamò il murale “Arte e denaro; o La storia della stanza.”
Dopo aver terminato il suo lavoro, Whistler se ne andò per non vedere mai più la Peacock Room.
Leyland non ha mai affermato che gli piacesse la stanza, ma ha chiaramente riconosciuto qualcosa di valore perché non ha mai cambiato nulla nella stanza.
Leyland tenne la sua sala da pranzo per 15 anni fino alla sua morte nel 1892. Nel 1904, l'industriale e collezionista d'arte americano Charles Lang Freer acquistò la Peacock Room, la smontò e la spedì attraverso l'Oceano Atlantico a Detroit, nel Michigan, dove la fece ricomporre in casa sua.
Fonte: amusingplanet
lunedì 29 novembre 2021
La mussola di Dacca, l'antico tessuto che nessuno sa più come produrre
Era così leggero da essere chiamato "aria tessuta". Così sottile e trasparente che, talvolta, le donne che lo indossavano venivano accusate di indecenza. Così difficile da produrre che il sapere necessario per produrlo è andato perso da tempo.
Circa 200 anni, tuttavia, la mussola di Dacca era il tessuto più prezioso e famoso del pianeta.
Nell'Europa del tardo XVIII secolo, le donne delle classi sociali più elevate iniziarono ad essere accusate di andare in giro nude: la stoffa semi-trasparente era agognata da tutte ed era diventata sinonimo di prestigio.
La mussola di Dacca era importata dall'omonima città, in quello che oggi è il Bangladesh, allora conosciuto come Bengal.
Oggi questo tipo di tessuto esiste ancora, ma non ha nulla a che fare con quello di un tempo. Due secoli fa esisteva un processo in 16 fasi, che impiegava un raro cotone raccolto sulle rive del sacro fiume Meghna. Oggi, però, il processo è dimenticato e quella rara pianta di cotone è estinta.
Si diceva che le mussole più pregiate fossero sottili e morbide quanto il vento.
Nella lingua originale, "aria tessuta" si diceva baft-hawa. Un viaggiatore raccontava che un rotolo di 90 metri di questa stoffa poteva passare attraverso un anello.
Tradizionalmente, essa veniva usata per fare saris e jamas, ma in Europa contribuì a cambiare il panorama della moda degli aristocratici. Tra le altre, ne erano innamorate la regina Maria Antonietta, l'imperatrice Joséphine Bonaparte e la scrittrice Jane Austen.
All'inizio del XX secolo, tuttavia, la mussola di Dacca era già scomparsa. Ne rimanevano alcuni esempi nelle collezioni private più preziose e nei musei.
La tecnica per produrla era già dimenticata da tempo. Il cotone da cui derivava, il Gossypium arboreum var. neglecta (conosciuto anche come Phuti karpas) si era estinto all'improvviso.
Le fibre del Phuti karpas, sfilacciabili con straordinaria facilità, venivano trasformate nel prezioso tessuto in un processo composto da 16 fasi, ognuna delle quali richiedeva competenze estremamente specifiche.
La lavorazione veniva effettuata in molti villaggi differenti nei pressi di Dacca, in quello che si potrebbe quasi definire uno sforzo comunitario.
In Occidente faticavano a credere che la mussola di Dacca potesse essere fatta da un essere umano. Alcune leggende sostenevano che venisse tessuta da sirene, fate o addirittura fantasmi. C'era chi riteneva che venisse per forza lavorata sott'acqua.
Secondo Saiful Islam, che ha avviato un'iniziativa per far tornare in vita il tessuto, le versioni odierne della mussola ha tra i 40 e gli 80 fili per pollice quadrato di tessuto.
La stoffa originale ne aveva tra gli 800 e i 1200.
Furono gli inglesi a distruggere la produzione e il commercio del tessuto, che veniva venduto in tutto il mondo fin dall'alba dei tempi. Gli antichi egizi, greci e romani lo conoscevano già, e la sua esistenza è ricordata da diversi autori classici, tra cui Petronio.
Nel 1793, però, la British East India Company si era aggiudicata il controllo dell'impero dei Moghul, e nel giro di un secolo la regione obbediva a un Raj britannico.
Anche se i londinesi dell'età vittoriana erano più che mai affascinati dalla mussola di Dacca, coloro che lo producevano vennero rapidamente mandati in rovina.
La East India Company iniziò a intromettersi nel processo di produzione della preziosa stoffa, dando la priorità assoluta ai clienti britannici e facendo pressioni sugli artigiani per produrne il più possibile.
Man mano che gli europei diventavano sempre più avidi nei confronti del materiale, iniziarono ad essere prodotte versioni più economiche.
Non avevano nulla a che fare con l'originale, ed erano prodotte con cotone normale. Ma il repentino declino della domanda e gli anni di maltrattamenti portarono i produttori di mussola a cambiare lavoro. Passarono poche generazioni prima che la preziosa conoscenza necessaria per produrre la mussola di Dacca venisse dimenticata per sempre.
La pianta phuti karpas cominciò a sua volta ad essere ignorata, e se ne perse ogni traccia.
Saiful Islam, però, sta compiendo ogni sforzo per ritrovare la pianta (e ha già trovato un tipo di cotone che ne è quasi sicuramente un discendente) e per ricreare le abilità perdute.
Fonte: wonews.it