mercoledì 27 giugno 2018
Un vero gioiello tra le Dolomiti: il Lago Federa
Un paesaggio assolutamente incantevole, magico e dalla quieta atmosfera. Un luogo tra la natura incontaminata che ospita uno dei laghetti di montagna più belli che possiamo incontrare tra le Dolomiti.
Questo meraviglioso specchio d’acqua è il Lago Federa, un paradiso tutto italiano, raggiungibile facilmente a piedi e con la mountain bike.
Il lago è immerso in una cornice rocciosa tra pareti, torri e guglie selvagge. Sulla sua riva si trova un accogliente rifugio in cui il visitatore può degustare le prelibatezze del luogo.
Da qui partono anche le vie per intraprendere delle stupende ed interessanti escursioni.
Il Lago Federa è ormai rinomato per la sua particolarità: il livello delle sue acque rimane sempre costante in ogni stagione.
Ciò significa che sia d’estate che d’inverno è possibile godere della bellezza del lago e dei suoi meravigliosi colori.
La spiegazione data a tale fenomeno riguarda la presunta presenza di una o più sorgenti sotterranee, che condurrebbero continuamente le acque dolci al lago evitando che con il caldo estivo si prosciughi. Ma le spiegazioni scientifiche a volte lasciano spazio ai miti ed alle leggende popolari.
Attorno al lago, difatti, si aggirano numerosi racconti popolari che prevedono personaggi mitologici.
La leggenda, infatti, narra di un drago alquanto perfido e terribile, la sua invidia per la bellissima città di Miliera, lo condusse ad una accecante rabbia.
La sua ira, portò il drago a giungere ad una decisione estrema: distruggere la città di Miliera.
Dopo ave commesso questo atto deplorevole, il drago si andò a rifugiare tra le montagne che oggi ospitano il lago.
Restò esposto al sole tra l’erba dopo aver nascosto sottoterra una conchiglia.
Quindi arrivò l’inverno che ricoprì tutto con la neve, quando tornò la bella stagione calda, le nevi si sciolsero riempendo la conchiglia di acqua.
Ed è stato proprio allora che il lago ha avuto origine.
Fonte: viaggiare.moondo
lunedì 25 giugno 2018
Sudeley, il castello di Katherine Parr
La strada verso Sudeley Castle attraversa campi verdi con le pecore, laghetti con le anatre e boschi lussureggianti.
E’ già uno spettacolo della natura in sé, con le vedute panoramiche che si aprono su Winchcombe e la sua chiesa. Offre uno squarcio sulle bellezze, già numerose, delle Cotswolds, la regione a sud ovest dell’Inghilterra fatta di colline, campagna e cottege caratteristici.
Anche il borgo di Winchcombe rientra in questo quadro, con le sue vie piene di case di pietra, le passeggiate vicino al fiume, i pub tradizionali, le sale da te, e i giardini ricchi di fiori.
Proprio una di queste stradine in discesa, costellata da una serie di cottage piccoli uno dietro l’altro, conduce al cancello del castello. Anzi, ad una prima entrata, quella che permette l’accesso ai visitatori lungo un percorso immerso nella natura.
Fino a quando si arriva a vederlo, questo castello che rappresenta un aspetto delle Cotswolds che spesso passa in secondo piano: la Storia.
Questa parte di Inghilterra ne ha vista tanta, a cominciare dalle battaglie della Guerra delle Due Rose.
Sudeley ha ospitato re e regine, una in particolar modo, Katherine Parr, la sesta moglie di Enrico VIII, la sopravvissuta al sovrano despota, la vedova che era piuttosto una badante, che si prese cura del consorte infermo e dispotico, senza rinunciare alle sue idee riformiste.
Una volta deceduto Enrico, Katherine si rifece una vita proprio qui al castello, che era di proprietà del suo nuovo sposo, una figura controversa, un arrivista senza scrupoli, malato di potere, zio del giovane erede alla corona, Thomas Seymour.
La Parr era molto innamorata del fascinoso barone, che però non ci ha pensato due volte a usarla per conservare l’influenza sul trono e complottare a proprio favore.
Nel 1548 l’ex regina morì, otto giorni dopo aver dato alla luce una bambina, di cui la Storia ha perso le tracce, e venne sepolta nella cappella di St Mary del castello.
Ed è ancora lì, in una tomba di marmo bianco, che Emma Dent, proprietaria del maniero nell’Ottocento, volle creare in stile vittoriano, dopo aver scoperto nel precedente sepolcro un mucchietto di cenere.
Un giusto riconoscimento ad una donna particolare, sensibile e “moderna” per il Cinquecento, che rimane legata in modo indelebile a Sudeley.
Nonostante, sia prima che dopo la Parr, il castello abbia visto diversi padroni, è sempre considerato come suo.
Le fondamenta di Sudeley sono state create su una fortificazione del tempo dei re anglosassoni, fu Ralph Boteler nel 1441 a costruire il palazzo antenato di quello odierno, ma venne confiscato, perché la famiglia aveva appoggiato la fazione nemica, da Edoardo IV: da allora ha fatto parte della corona.
Edoardo lo donò al fratello Riccardo, al tempo Duca di Gloucester, che vi edificò una grande ala destinata ai banchetti e ai ricevimenti, oggi vedibile in una sorta di scheletro di pietra poco lontano dall’entrata del palazzo.
Da allora vide la visita di numerosi re, tra cui proprio Enrico VIII che ci venne in compagnia della seconda moglie, Anna Bolena, nel 1503.
Per ironia della Storia, che spesso si accanisce con il sovrano Tudor, la residenza, una volta ereditata dal giovane figlio Edoardo venne donata allo zio Seymour, che la ampliò e abbellì, e ci venne a vivere con Katherine Parr, ospitando per un periodo le loro protette, la prossima sovrana Elisabetta I e la sfortunata Jane Grey.
Per questo un angolo, pieno di rose in boccio, è chiamato giardino delle tre regine, mentre da una camera aperta al pubblico un fantoccio rappresentate una delle dame di compagnia di Katherine che guarda desolata attraverso la finestra fino alla cappella, dove la Parr amava pregare con la figliastra.
Ma non è finita qui. Seymour venne accusato di tradimento contro la corona e fu decapitato, nel Seicento Sudeley finì tra le pieghe della guerra civile e fu quasi completamente distrutto.
Soltanto alla fine del Settecento ci si ricordò che la cappella, rimasta intatta, custodiva le spoglie di una regina e nell’Ottocento i nuovi proprietari, la famiglia Dent, diedero il via ai restauri.
L’aspetto attuale si deve soprattutto a Lady Emma che dopo aver sposato John Dent, volle riportare all’antico splendore il palazzo e si concentrò moltissimo sulla sistemazione del parco, lo stesso dove oggi si ammira nella sua incantevole perfezione, tra siepi, aiuole di erbe officinali, alberi secolari, labirinti verdi, un laghetto, una zona con voliere con uccelli esotici e tantissimi fiori di ogni colore.
Tutto questo e molto altro si apprende visitando Sudeley, che oggi è proprietà dei baroni Ashcombe, che l’hanno aperto al pubblico, usano anche una sala preposta a location per matrimoni e alcune aree del giardino per manifestazioni ed eventi vari.
Si possono visitare solo un paio di sale al primo piano del palazzo, le altre rimangono private.
I baroni hanno saputo creare un’atmosfera calorosa e ospitale nelle zone destinate alla visita, mettendo in mostra oggetti preziosi, come antichi libri, i mobili, i quadri e soprattutto le fotografie.
Vedendo quelle del Lord, della Lady, dei loro giovani figli e persino del cane si ha l’impressione di essere accolti davvero in famiglia e ammirando una foto sorridente del Principe Carlo e di sua moglie Camilla, grandi amici degli Ashcombe, e la partecipazione delle loro nozze è come spiare da vicino l’inarrivabile nobiltà inglese e i suoi reali.
La Duchessa di Cornovaglia è stata spesso in visita del castello, ci sono foto che la ritraggono in compagnia della Baronessa e del suo cane tra i sentieri del giardino.
Gli stessi che i fortunati visitatori possono percorrere alla scoperta di questo splendido angolo delle Cotswolds, consacrato a Katherine Parr.
Fonte: latitudinex.com
giovedì 21 giugno 2018
Le sorprendenti capacità chirurgiche degli Inca
Vi sottoporreste a un intervento chirurgico di trapanazione cranica senza anestesia e senza antibiotici?
Tranquilli, non c'è chirurgo al mondo che ve lo proporrebbe, oggi, ma in passato le cose andavano diversamente, e non due o trecento anni fa: dagli Inca alla Grecia antica, era una pratica più diffusa di quanto si credesse finora - e in certi perio con ottimi risultati.
Al tempo di quelle antiche civiltà molti sono stati sottoposti a simili interventi e, lo dimostrano i reperti, molti sono sopravvissuti per mesi e anni.
Oggi si conoscono centinaia di casi di trapanazioni eseguite dai "medici" Inca con percentuali di successo sorprendentemente alte, fino all'80-90 per cento - un tasso di sopravvivenza di molto superiore ad analoghi interventi eseguiti, per esempio, durante la Guerra Civile americana, circa 400 anni dopo, che non ha mai superato il 50 per cento.
David Kushner (neurologo, Università di Miami), John Verano (bioarcheologo, Tulane University, New Orleans) e Anne Titelbaum (bioarcheologa, Università dell'Arizona) hanno condotto una ricerca - pubblicata su World Neurosurgery (sommario, in inglese) - sul tasso di successo della chirurgia cranica lungo culture e periodi storici diversi.
Spiega Kushner: «È possibile che le trapanazioni siano state inizialmente pensate per ripulire fratture craniche e alleviare la pressione del sangue sul cervello dopo i colpi alla testa», tuttavia non tutti i crani trapanati esaminati dal team mostrano segni di ferite, quindi è possibile che l'intervento chirurgico sia stato utilizzato anche per trattare particolari malattie, come i mal di testa cronici e le malattie mentali.
Teschi con vari tipi di trapanazione sono stati rinvenuti in tutto il mondo, ma il Perù, con il suo clima secco e le eccellenti condizioni di conservazione, ne vanta centinaia.
Il gruppo di ricercatori ha esaminato 59 teschi provenienti dalla costa meridionale del Perù, datati tra il 400 e il 200 a.C. (I gruppo), 421 reperti provenienti dagli altopiani centrali del Perù, datati dal 1000 al 1400 d.C. (II gruppo), e 160 teschi provenienti dagli altopiani di Cusco, la capitale dell'impero Inca, datati tra gli inizi del 1400 d.C. e la metà del 1500 d.C. (III gruppo).
L'indizio sul successo o meno dell'intervento lo dà lo stato dell'osso attorno alla trapanazione: se non ci sono evidenti segni di guarigione, il paziente deve essere morto durante o poco dopo l'intervento.
Al contrario, un perimetro liscio attorno all'apertura dimostra che il paziente è sopravvissuto per mesi o anni dopo l'intervento. I risultati dello studio sono sorprendenti: solo il 40 per cento del primo gruppo è sopravvissuto all'intervento, ma poi si passa al 53 per cento per il secondo gruppo e all'83 per cento durante il periodo Inca (III gruppo).
C'è poi un sorprendente 91 per cento di pazienti sopravvissuti in un altro campione, per la verità piccolo, di nove crani provenienti dagli altopiani settentrionali, datati tra il 1000 e il 1300 d.C.
Stando ai ricercatori le tecniche sono migliorare nel tempo: fori più piccoli e meno invasivi, evidentemente per ridurre il rischio di danneggiare la membrana protettiva del cervello.
«Abbiamo potuto "vedere" un progressivo affinamento nei metodi di trapanazione in un processo durato un migliaio di anni: quei chirurghi non erano semplicemente fortunati, erano davvero abili! Diversi pazienti sembrano essere sopravvissuti anche a trapanazioni multiple: un cranio di epoca Inca mostra addirittura cinque interventi chirurgici guariti», afferma il ricercatore.
Kushner e Verano hanno poi confrontato i risultati conseguiti dalla medicina Inca con interventi cranici eseguiti con metodi simili sui soldati durante la Guerra Civile americana.
Anche i chirurghi di quei campi di battaglia hanno curato le ferite alla testa tagliando le ossa mentre cercavano di non perforare la delicata membrana del cervello.
Stando alle cartelle cliniche dell'epoca, però, dal 46 al 56 per cento dei pazienti sono deceduti, rispetto al 17-25 per cento dei pazienti Inca.
«Queste differenze sono in parte giustificate dalla natura delle lesioni: sui campi di battaglia della Guerra Civile i traumi dovevano essere ben diversi da quelli collezionati al tempo degli Inca», afferma Emanuela Binello, neurochirurgo (Università di Boston), che ha condotto analoghi studi sulle tecniche di trapanazione nell'antica Cina.
Molti soldati della Guerra Civile hanno sofferto di ferite da arma da fuoco e da palle di cannone e sono stati trattati in ospedali affollati e drammaticamente sporchi, cosa che ha certamente favorito le infezioni, «ma il tasso di sopravvivenza alle trapanazioni in Perù ha comunque dell'incredibile», conclude Binello.
Fonte: focus.it
martedì 19 giugno 2018
Leggende, storia e significato della coccinella portafortuna
Una coccinella! Ti porterà fortuna.
Da sempre siamo cresciuti con questo detto, perché questo simpatico insetto rosso dai sette punti neri, gode da sempre di una buona reputazione e viene considerato un messaggero di felicità.
Una leggenda narra che la coccinella era l’emblema dell’antica Dea Lucina (Giunone per i romani), dea della luce,del travaglio e del parto, ma anche di una Dea dell’amore e della bellezza.
Ma non solo, il colore rosso ha da sempre rappresentato la vittoria sui nemici e sulle malattie ( in tempi antichi i medici facevano indossare vesti rosse ai malati di reumatismi).
Il numero sette poi è associato alla fortuna, si dice che il numero di puntini neri sul dorso della coccinella indichi quello dei mesi in cui si sarà baciati dalla dea della fortuna e che presto arriveranno soldi. La fortuna è maggiore se l’insetto si posa il tempo necessario per contare fino a 22.
Ci sono poi altre leggende popolari in cui la coccinella è legata alla Madonna che alcune volte era vestita di un mantello rosso e i sette puntini, tipici della specie di coccinella più comune, che rappresentavano o sette gioie o sette dolori.
O anche al Signore (la coccinella è chiamata anche scarabeo della Madonna o gallinella del Signore), mentre nel Medioevo i contadini tedeschi ed inglesi credevano che essa fosse un regalo della Santa Maria contro la piaga degli afidi e per questo la ribattezzarono coleottero della Maria.
Anche in Francia è chiamata la bestiola del Signore.
Il nome "coccinella" deriva dal latino "coccineus" che significa "scarlatto".
Come dicevamo il rosso è un colore vitale, gioioso che indica passione, forza, positività e fortuna!
Non solo in Italia vi è la credenza che la coccinella porti fortuna: in ebraico, ad esempio, viene chiamata "piccolo cavallo di Mosè" o anche "piccolo messia", mentre in Turchia la traduzione ha esattamente il significato di "insetto portafortuna".
In Inghilterra è "ladybird" o "ladybug" per indicare "uccellino o insetto ella donna", mentre in russo "God’s cow" è la "femmina del Signore".
In Finlandia è viva la tradizione che riconduce la coccinella alla benevolenza religiosa: "marienvoglein", ovvero “insetto di Maria”.
C'è infine una leggenda sul perché la coccinella abbia sette punti neri.
C'era una volta un uomo di nome Urunti, che visse tantissimo tempo fa sulla terra.
Urunti era un essere gigantesco e spettava a lui mantenere la giustizia fra le creature che abitavano il pianeta.
A quel tempo non esisteva ancora la morte e tutti continuavano a vivere in eterno: nessuno nasceva e nessuno moriva.
Un giorno, Urunti decise di fare una passeggiata nel suo giardino fiorito e accarezzò la rosa per darle il buongiorno.
Si ferì il pollice della mano con una spina e una goccia di sangue cadde a bagnare il terreno, ma, dato che non esisteva la morte, quella goccia prese vita e cominciò a camminare.
Urunti osservò la nuova creatura rossa con sei piccole zampe nere e decise di portarla con sé a conoscere il mondo; la piccola coccinella osservò attentamente, ma non vide cose che le piacquero.
Gli animali si ferivano, invecchiavano ma non morivano mai, e lei, che era nata da poco, vide solo creature millenarie che oramai conoscevano già tutto.
Per ricordarsi di quello che aveva visto, chiese a Urunti di disegnarle piccole macchie nere sul dorso, una per ciascuna delle ingiustizie che aveva osservato.
Urunti si meravigliò del desiderio della coccinella, le chiese cosa potesse fare lui per rimediare e preservare la giustizia: “Permetti anche ad altre creature di vedere questo mondo e fa sì che gli animali stanchi e feriti possano riposare” disse lei.
Ma l’uomo non sapeva cosa fosse la morte, così la coccinella, per insegnarglielo, si punse con quella spina che aveva ferito il dito di Urunti e le aveva dato la vita.
Da quel giorno, Urunti introdusse la morte e la nascita nel mondo e, dopo averlo fatto, decise infine di addormentarsi anch’egli accanto alla piccola coccinella dal dorso macchiato.
Dominella Trunfio
lunedì 18 giugno 2018
La statuetta di 3.000 anni fa che nasconde un enigma reale
Una scultura di porcellana, dopo 3.000 anni ancora eccezionalmente conservata, ha sollevato un dibattito tra gli archeologi, che si interrogano sull’identità del sovrano raffigurato L’oggetto alto 5 cm, appena descritto sulla rivista Near Eastern Archaeology è stato rinvenuto nel 2017 durante una campagna di scavi nel sito di Abel Beth Maacah, appena più a sud del confine israeliano con il Libano, vicino alla moderna città di Metula.
Dalla corona sul capo sembra chiaro si tratti della figura di un sovrano, ma capire di quale reale si tratti nello specifico è, considerate l’area e l’epoca di realizzazione, un’impresa complessa.
La testa scolpita, che sembrerebbe risalire al IX secolo a. C., è stata ritrovata in una zona un tempo occupata dalla città di Abil al-Qamh, menzionata nel Libro dei Re dell’Antico Testamento.
L’area sorgeva in una zona di confine contesa tra il Regno degli Aramei con base a Damasco ad est, la città fenicia di Tiro ad ovest e il Regno di Israele con capitale Samaria a sud.
Nel Libro dei Re si parla della città come una delle terre attaccate dal re Ben Hadad di Damasco in una campagna contro Israele.
Si trattava dunque di un’area fortemente contesa.
Tuttavia, poiché la datazione al radiocarbonio non permette di stabilire per il reperto una data più precisa del IX secolo a.C., la rosa dei sovrani candidati rimane ampia: potrebbe trattarsi di Ben Hadad o Hazael di Damasco, di Ahab o Jehu di Israele, di Ithobaal di Tiro – tutti descritti nella Bibbia.
Come riporta il Guardian, un elemento che potrebbe aiutare nell’identificazione e che fa pensare al monarca raffigurato come a un uomo del Vicino Oriente è l’acconciatura, simile a quella con cui gli antichi Egizi rappresentavano le vicine popolazioni di origine semitica.
Chiunque sia il suo soggetto, la statua è comunque un esempio di arte figurativa particolarmente raffinato, per essere un manufatto dell’Età del Ferro: in genere, i reperti artistici così antichi sono ancora piuttosto semplici e non raggiungono un tale livello di dettaglio.
Fonte: focus.it
martedì 12 giugno 2018
Berlenga, l’isola selvaggia dei gabbiani
Basta il nome, Berlenga, e subito risuonano nella mente i richiami dai gabbiani.
Facile assocciare la piccola e splendida isola portoghese a questi uccelli. Sono i veri padroni del luogo e camminare sui sentieri, vederli volare sul mare blu o covare tra gli arbusti è qualcosa che rimane impresso per sempre, anche se lì ci si è stati anni prima.
Berlenga è, prima di tutto, un luogo dell’anima, uno di quelli dove ti senti in pace con il mondo e con la natura.
Un’oasi felice dove l’uomo arriva con il contagocce e non può fare danni.
Un’isola pura, selvaggia e incontaminata da preservare per sempre, anche nel cuore.
I gabbiani sono la colonna sonora di un mini paradiso terrestre. Non è un posto per chi non ama gli uccelli e gli animali in genere o per gli stressati, non lo sopporterebbero un minuto.
Eppure la calma è totale in questo arcipelago selvaggio del Portogallo, a poco più di cento chilometri da Lisbona, un insieme di minuscole isolotti rocciosi.
Berlenga, il principale, Estelas e Farihoes, più che altro scogli granitici, sono il regno dei gabbiani, urie, berte, marangoni e altre specie.
La loro presenza, insieme a quella di conigli e lucertole, ha reso questa località “riserva della biosfera” dal Consiglio Europeo, oltre che una riserva marina mentre le acque circostanti sono state dichiarate interesse archeologico.
Chi arriva qui lo fa in punta di piedi,rispettando le regole degli uccelli, il loro universo, la loro espansiva voce.
Gabbiani ovunque: accucciati, per ripararsi dal vento, in cerca di cibo, plananti dall’alto, in trepida cova, in decollo verso nuove avventure.
Chi esplora l’isoletta di granito rosa cammina tra loro, sui sentieri che partono dal piccolo porticciolo.
Qui, durante la bella stagione, sbarcano le piccole imbarcazioni che fanno la spola con Peniche, il centro sulla terraferma più vicino, quindici chilometri più a sud.
Ma sono pochi gli avventurieri che arrivano: per rispetto all’ecosistema, le costruzioni si contano sulla punta delle dita, c’è una sola possibilità di alloggio, molto spartana, un ostello creato nel vecchio forte a picco sul mare, e un bar-emporio utile per ogni bisogno.
Normalmente chi viene a Berlenga è in gita giornaliera, per esplorare il sentiero che in un’ora e mezzo fa l’intero giro dell’isola: il panorama è mozzafiato, tra questi picchi scoscesi, le grotte nascoste, le gole profonde e le baie rocciose dove il mare risuona fragoroso.
Punto focale è il forte de Sao Joao Baptista, risalente al 1502, legato all’isola da un piccolo ponte: sotto le baie tranquille sono piene di barche che fanno il giro di Berlenga dall’acqua, forse la soluzione migliore per chi non ama il trekking.
Il mare è di ogni sfumatura di verde, gelido, perché questo è l’Atlantico e chi si immerge nella baietta di sabbia attaccata al molo, dominata da una costruzione con il punto ristoro, ne deve essere consapevole.
Non è da tutti, si nuota con il fiato tirato, per i freddolosi e meno temerari meglio scaldarsi al sole e crogiolarsi tra gli uccelli.
Fonte: latitudinex.com
lunedì 11 giugno 2018
Rapa Nui: i cappelli dei Moai
Sui Moai si è scritto e detto molto: sono le gigantesche statue dell'isola di Pasqua, nel cuore dell'Oceano Pacifico, che si ritiene siano opera dei polinesiani che abitavano Rapa Nui (il nome dell'isola in lingua nativa) a partire dall'anno 1.000 d.C.
Gli impressionanti monoliti sarebbero stati portatori di prosperità laddove volgevano lo sguardo.
Ricavati da singoli blocchi di tufo vulcanico, alti da 2,5 a 10 metri (i più alti pesano 70-80 tonnellate), in cima ad alcuni dei Moai c'è un secondo elemento che non è parte del monolito, il pukai: una sorta di copricapo, oppure una particolare acconciatura.
Si tratta di blocchi di una dozzina di tonnellate di peso: come li hanno messi in posizione?
Da sempre i Moai alimentano fantasie e ricerche.
Tra le tante domande, una riguarda il modo con il quale vennero trasportati dalle cave ai luoghi dove sono oggi: l'ipotesi più gettonata vuole che i monoliti siano stati fatti "camminare" facendoli dondolare, un po' come si sposta il frigorifero di casa. Può essere.
C'è poi la questione del pukai, il copricapo che, nel caso dei Moai più grandi, ha 2 metri di diametro e pesa 12 tonnellate.
Quasi certamente venivano lavorati in prossimità della cava, fatti rotolare fino al monolito di destinazione e infine posizionato.
Detta così sembra facile!
Uno studio dell'antropologo Carl Lipo (Binghamton University, Usa), pubblicato sul Journal of Archaeological Science, suggerisce che quei polinesiani sfruttarono il parbuckling, una tecnica ancora oggi in uso (con strumenti moderni) per raddrizzare le navi arenate su di un fianco, come nel caso della Costa Concordia.
A Rapa Nui avrebbero usato rampe e funi: le corde a un capo erano avvolte attorno a un cilindro e all'altro capo legate attorno al pukai, che veniva fatto avanzare lungo una rampa che portava da terra fino alla cima del Moai.
«In questo modo si riduce al minimo lo sforzo necessario per fare avanzare il pukai lungo la rampa», afferma Lipo: «una soluzione semplice e realizzabile con quanto si trovava sull'isola.»
Per verificare l'ipotesi i ricercatori hanno sviluppato un complesso modello matematico per tenere conto della fisica newtoniana, della forza dell'uomo, dell'altezza dei monoliti, della massa dei pukai e di vari tipi di piani inclinati.
I risultato: quando si trova l'inclinazione giusta, il pukai può essere fatto rotolare fino alla cima del suo Moai anche solo da una quindicina di persone, anche nel caso del copricapo più massiccio, quello da 12 tonnellate.
Fonte: focus.it
venerdì 8 giugno 2018
Gravensteen– La fortezza del conte
Poderoso, massiccio: una vera montagna di pietra.
Cosi si presenta, al centro di Gand, Gravensteen, il “castello del conte”, fin dal IX secolo sede dei potenti conti di Fiandra, di cui fu per secoli il ‘mastino’ a controllo della città e dei suoi riottosi mercanti.
Sorto nel X secolo, Gravensteen fu sostanzialmente rifatto nel XII secolo e più volte rimaneggiato, in base alla funzione e ai compiti via via assunti.
Il castello si presenta come un blocco di pietra circondato dall’acqua, cinto da spesse cortine rinforzate da barbacani e torri rotonde.
Al centro s’innalza il grande mastio con torri angolari a sporto. L’ingresso è protetto da un robusto rivelino.
La sua funzione, più che difendere Gand, era quella di controllarla e soffocare le insurrezioni dei mercanti ansiosi di liberarsi dell’autorità comitale.
Mano a mano che acquisivano potere e influenza, le corporazioni dei tessitori e dei mercanti di Gand premevano per ottenere una sempre maggiore autonomia, ribellandosi alla supremazia dei signori feudali.
Da questa situazione nacquero frequenti scontri, finché Jacob van Artevelde (eroe nazionale fiammingo) guidò una sommossa contro Luigi I, conte di Nevers.
Van Artevelde si appoggiò a Edoardo III d’Inghilterra, con lo scopo di far rifiorire i tradizionali commerci tra le Fiandre e l’Inghilterra, bloccati dal re di Francia.
La lotta fu dura e senza quartiere.
I conflitti per le imposte sul grano e sul sale proseguirono per anni. Nel 1453, si giunse alla battaglia decisiva sulle rive del fiume Scheda.
Alla fine, gli orgogliosi membri delle corporazioni dovettero arrendersi al duca di Borgogna Filippo il Buono, accettando le dure condizioni da lui poste.
I consiglieri comunali di Gand furono costretti a camminare con il cilicio davanti alle porte della città chiedendo umilmente perdono al duca.
Le corporazioni di Gand parteciparono in prima fila alla lotta delle Fiandre contro il re di Francia, Filippo IV il Bello, desideroso di ammettere la ricca regione.
I ribelli attaccarono prima Gravensteen, simbolo del potere dell’aristocrazia. Poi, nel 1302, le milizie della città fiamminghe, guidate da Gulielmo de Juliers il Giovane, sconfissero le truppe francesi, al commando di Roberto II d’Artois, nella battaglia di Kortrijk (in francese Courtrai).
Passata ai duchi di Borgogna, Gard entrò a far parte nel 1477 dei possedimenti degli Asburgo, in conseguenza del matrimonio tra Maria di Borgogna e l’imperatore Massimiliano d’Austria: una nuova ribellione guadagnò alla città ampi privilegi.
Le corporazioni si ribellarono anche a Carlo V, re di Spagna, ma senza successo: nel 1539 i capi della sommessa furono decapitati sotto il castello di Gravensteen.
Anche la Riforma provocò violente rivolte nella città, aderente al credo protestante, tanto che il re di Spagna, impose a Gand durissime sanzioni.
Nel 1568 l’uccisione da parte degli spagnoli del principe Egmont, governatore delle Fiandre, scatenò la lotta per la liberazione dei Paesi Bassi, guidata da Guglielmo d’Orange.
Tra gli aspetti più curiosi del castello dei conti di Fiandra vi sono le torri a sporto, cioè parzialmente pensili, a difesa della cinta esterna.
Questa soluzione, piuttosto inconsueta, sembra apparentemente indebolire proprio quelli che dovrebbero essere i perni della difesa del castello.
Tuttavia è giustificata dalla situazione ‘insulare’ del complesso di Gravensteen, le cui difesa non sono esposte all’azione degli arieti, delle macchine d’assedio o a opere di mina. Si può cosi ‘risparmiare’ sulla costruzione senza indebolire sensibilmente le strutture difensive.
Fu probabilmente il conte di Fiandra Baldovino I, detto Braccio di Ferro, a far costruire a Gand, nell’868, il primo castello. La fortificazione, caduta in rovina, fu ricostruita tra il 1180 e il 1200 da Filippo d’Alsazia.
Il castello è l’edificio più importante dell’architettura fortificata medievale in Belgio.
Singolare la sua struttura a stella, probabilmente derivata da esempi mediorientali conosciuti durante le Crociate. Da qui i conti di Fiandra amministrarono per secoli l’intera regione, spesso usando contro le inquiete città mercantili il pugno di ferro.
Dopo la Rivoluzione francese (1789) il castello divenne la sede di un cotonificio.
Alla fine del XIX secolo il comune di Gand lo riacquisi, impedendone la demolizione e iniziando il restauro.
Il castello di Gravensteen, posto sulle rive del fiume Leie, è una delle più impressionanti fortezze fluviali d’Europa.
Un' iscrizione posta sopra la porta d’ingresso, in latino, afferma che il conte Filippo fece edificare il castello nel 1180.
Nel salone al piano superiore si riunivano i cavalieri dell’ordine del Toson d’Oro, istituito nel 1429 dal duca di Borgogna Filippo il Buono.
mercoledì 6 giugno 2018
Spitbank Fort, la fortezza militare trasformata in hotel di lusso
Lo Spitbank Fort si trova in Inghilterra, in un tratto di mare tra Portsmouth Harbor e l’Isola di Wight.
Si tratta di un’antica fortezza militare costruita nel 1878 come difesa navale per proteggere la Gran Bretagna dall’invasione francese e trasformata oggi un lussuoso albergo all’insegna dell’eleganza e della ricercatezza.
Lo Spitbank Fort, interamente ristrutturato nel 2010, è oggi uno degli hotel più esclusivi di tutto il Regno Unito.
Dispone di nove strepitose suite, una piscina termale, una biblioteca, tre bar, tre sale da pranzo private, una sauna, una fornita cantina e un faro.
Il tutto immerso in un panorama mozzafiato circondato dal mare.
Questo vecchio bastione dalle mura spesse 6 metri, che un tempo dava alloggio a oltre 150 soldati, può oggi ospitare fino a un massimo di 60 persone.
Trasformato in una vera oasi del lusso dal costo piuttosto eccessivo, è sicuramente riservato a un tipo di clientela facoltosa e ricca.
Si tratta di un luogo esclusivo, raggiungibile unicamente attraverso un battello messo a disposizione dalla struttura.
Lo Spitbank Fort Hotel fa parte di una delle quattro fortezze che si trovano nello stretto che divide l’Isola di Wight dalle coste britanniche.
Un luogo unico, da cui godere una vista a 360° sulla Manica e dove respirare la storia della Marina britannica in un’atmosfera di massimo comfort, privacy e tranquillità.
Fonte: mybestplace
lunedì 4 giugno 2018
In Cina c’è una enorme ruota panoramica senza raggi che riproduce le spire di un dragone
Una gigantesca ruota panoramica senza raggi.
La più grande del mondo è alta 145 metri ed è entrata in funzione a Weifang , in Cina: impiega 30 minuti per completare una rotazione completa e offre una suggestiva vista sul fiume Bailang e il mare di Bohai.
La ruota panoramica ha 36 cabine che trasportano fino a dieci passeggeri per cabina, ognuna dotata di connessione wi-fi gratuita, per pubblicare in tempo reale i selfie mozzafiato scattati durante la rotazione, e televisori collegati a delle webcam esterne, se i finestroni trasparenti non fossero abbastanza per ammirare il paesaggio circostante.
La ruota senza raggi è formata da una «colonna vertebrale del drago», una ciambella di spire create ad arte con 4.600 tonnellate d’acciaio, fissata a terra con un sistema di costruzione «ad aquilone».
Una struttura che sembra sfidare le leggi di gravità, lungo cui ruotano le cabine blu, in vetro e acciaio.
Una struttura di design, per una ruota hi-tech dotata anche di centinaia di migliaia lucine a led che fanno brillare l’ossatura del drago, rendendo ancora più unico il panorama sul lungo fiume cinese.
Fonte: lastampa.it
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