Ambra Cay creatrice di questo blog con Anna Felici ci ha lasciati ieri.
Una Donna ricca di curiosità, di cultura in divenire, di coraggio e amor proprio, una madre, una nonna, un'amica.
Ciao Ambra il tuo corpo non ci appartiene più ma la tua anima è dentro di noi.
Grazie per tutto quello che hai voluto condividere con noi
Di Sabry Cay
sabato 19 novembre 2016
venerdì 18 novembre 2016
Lo storico teatrino di Vetriano
Nascosto tra le case e gli stretti vicoli lastricati del piccolo borgo toscano di Vetriano, si trova il teatro pubblico più piccolo al mondo.
Più precisamente ci troviamo nel Comune di Pescaglia in provincia di Lucca dove è possibile assistere a spettacoli teatrali in una location tutta particolare.
Il Teatrino di Vetriano infatti oltre ad essere entrato nel Guinness dei primati come teatro più piccolo del mondo, rappresenta un gioiello unico nel suo genere che presenta ancora oggi tutte le caratteristiche del teatro ottocentesco.
L’edificio, a forma trapezioidale, presenta un doppio ordine di balconate e si compone di una sala principale a forma di rettangolo, il palcoscenico, la platea e i palchi, ma non può essere considerato un teatro all’italiana perchè è mancante della sala a ferro di cavallo o con pianta a campana tipiche proprio del teatro all’italiana.
Nella sua totalità misura 70 metri quadrati ed è soprannominato dagli abitanti del paese Bomboniera.
Le sedute all’interno assomigliano alle sedie che anticamente gli spettatori si portavano da casa per assistere agli spettacoli.
Il Teatrino fu fondato nel 1889 da Virgilio Biagioni realizzando il sogno del padre da poco deceduto.
Ben presto si decise di affidarne la gestione alla neo-nata Società Paesana di Vetriano che iniziò la sua attività con opere in prosa ma anche con commedie recitate dagli abitanti del paese stesso.
In poco tempo l’attività del Teatro crebbe notevolmente fino a diventare uno dei punti di riferimento culturale più importanti della zona.
Tuttavia, dal 1960 iniziarono per il teatrino i primi problemi strutturali, che vedevano coinvolti il tetto e le decorazioni pittoriche.
Nonostante le difficoltà, l’attività teatrale non si interruppe mai fino al 1983 quando la Società Paesana si sciolse e solo nel 1997 si decise di donare la proprietà al FAI (Fondo Ambiente Italiano).
Grazie all’operato del FAI, che è occupato dei lavori di ristrutturazione e ripristino della struttura originaria (sono stati creati anche nuovi spazi ricavati dalle strutture limitrofe), il teatro più piccolo del mondo è riuscito ad acquisire nuova vita e a varare il suo primo cartellone.
Oggi il Teatrino di Vetriano è visitabile su prenotazione.
Fonte: http://blog.zingarate.com/
giovedì 17 novembre 2016
La diffusione dell'uomo sulla Terra in 5 minuti
In certi momenti storici occorre rimettere le cose in prospettiva: questo video del Museo di Storia Naturale Americano ci riesce in modo piuttosto efficace, raccontando l'espansione e le migrazioni dell'uomo in 5 minuti (più una breve previsione per il futuro).
L'animazione mostra le migrazioni dei sapiens fuori dall'Africa e verso le aree più remote del pianeta avvenute nell'arco di poche centinaia di migliaia di anni, indicando, nella parte alta, una sorta di "contatore" della popolazione mondiale. Nell'anno 1 d.C., eravamo ancora appena 170 milioni.
Ci abbiamo messo quasi 2.000 anni per diventare 1 miliardo - una soglia che abbiamo raggiunto attorno al 1800, grazie alla Rivoluzione Industriale e alla nascita della medicina moderna.
Per espanderci fino a 7 miliardi, sono bastati 200 anni.
Nel video si nota che la nascita dell'agricoltura, poco prima di 10.000 anni fa, corrisponde a una prima impennata della popolazione mondiale, che si inizia a contare in milioni. L'espansione sanguinaria dell'Impero Mongolo, nel 13esimo secolo, è seguita a ruota dall'avvento della peste bubbonica, fatale per 20 milioni di persone in Europa (un terzo degli europei nel 1300). Questa combinazione di fattori coincide con una rara fase di declino della popolazione mondiale.
Dal minuto 4:10 in poi , con la Rivoluzione Industriale, assistiamo a un'esplosione demografica, che raggiunge il suo culmine dal 1800 al 2015: in quest'arco di tempo siamo passati dal miliardo ai 7 miliardi. E da qui al 2100 potremmo raggiungere gli 11 miliardi. In pochissimo tempo possiamo lasciare sul pianeta un'impronta indelebile.
Ecco perché è importante adottare stili di vita che lo rendano abitabile anche in futuro.
Fonte: focus.it
mercoledì 16 novembre 2016
Gli Yakhchal: le ghiacciaie nel deserto degli antichi Persiani
Fin dall’antichità, ogni popolo ha avuto l’obiettivo di trovare un sistema giusto per conservare i propri cibi e fare in modo che restino sempre al massimo del proprio sapore e della propria efficienza.
Oltre 2400 anni fa, anche i Persiani stavano pensando ad una tecnica efficace per riuscire in tale intento.
Un sistema di questo genere non poteva mai prescindere dall’utilizzo di strutture efficaci come gli Yakhchal.
Lo Yakhchal era un edificio fondamentale per la refrigerazione e la conservazione di qualsiasi alimento, molto prima dell’avvento dei frigoriferi e di qualsiasi genere di elettrodomestico attualmente disponibile nei vari supermercati e centri commerciali.
Con questa tecnica, anche il clima caldissimo dei vasti deserti dell’Iran non poteva più rappresentare un ostacolo definitivo alla possibilità di mantenere i cibi sempre al massimo.
Se si pensa che un edificio del genere era pienamente in funzione nel IV secolo a. C., e quindi tantissimi secoli fa, c’è davvero da sbalordirsi fino quasi a non crederci.
Ma come funzionava uno Yakhchal?
Prima di tutto, si trattava di una struttura a forma di cono ma con il tipico aspetto di una cupola rudimentale. Il suo significato è quello di fossa del ghiaccio e questo lascia già intuire quale fosse la sua effettiva utilità, nettamente superiore rispetto alla media.
L’edificio funzionava mediante l’evaporazione dell’acqua, grazie alla quale si andava a generare tutto il ghiaccio possibile con l’ausilio di una sequenza di torri del vento.
Come oggi, anche a quei tempi non si poteva fare a meno del ghiaccio in quanto in grado di far aumentare la durata di qualsiasi alimento e di far trasportare ingenti quantità di acqua con maggiore facilità.
In pratica, questa cupola riusciva a consentire la conservazione di ogni pietanza, essendo in grado anche di contenere il cibo stesso proprio come uno dei tanti frigoriferi dei giorni nostri.
Ma perché lo Yakhchal riusciva ad essere così efficace?
Tutto ciò era possibile grazie all’aiuto di un materiale speciale molto simile al cemento, conosciuto con il nome di Sarooj.
Esso era costituito da argilla, sabbia, calce, cenere e materiali alquanto bizzarri come i peli di montone e persino un pizzico di albume d’uovo.
Tutti questi ingredienti che poco avevano a che fare l’uno con l’altro venivano mescolati con il massimo della cura per dare vita a muri in grado di resistere ad ogni agente atmosferico e di mantenere il massimo della propria qualità.
La parte più bassa era caratterizzata da uno spessore di circa 2 metri ed era contraddistinta da una serie di buchi, con i quali l’aria fredda scendeva verso il basso e generava gli indispensabili cubetti di ghiaccio.
Al tempo stesso, tutta l’aria calda veniva spostata dal basso verso l’alto ed era così possibile mantenere al meglio ogni alimento senza alcuna difficoltà.
L’obiettivo poteva essere raggiunto grazie al fiume Qanat e alle già citate torri del vento, che in realtà erano molto simili agli attuali acquedotti.
Di conseguenza, gli Yakhchal rappresentavano un terreno fertile per il raggiungimento di temperature nettamente al di sotto dello zero anche quando all’esterno c’erano almeno 40 gradi all’ombra.
Gli antichi Persiani potevano così divertirsi realizzando il gustoso dessert chiamato Faloodeh.
E queste cupole miracolose sono sopravvissute fino ai tempi nostri proprio grazie alla loro resistenza fuori dal comune.
Fonte: http://meteofan.it/
giovedì 10 novembre 2016
La flotta perduta del faraone
L'equivalente di un antico hangar destinato a una barca reale, sepolta non lontano dal suo faraone, è stato rinvenuto nella città egizia di Abydos, un importante sito religioso a ovest del Nilo.
La camera sotterranea, che risale al 1840 a.C., doveva ospitare la barca di legno del potente Sesostri (Senwosret) III, sovrano di spicco del Medio Regno, tumulato poco lontano in una tomba della stessa età.
Le pareti del locale mostrano i disegni incredibilmente ben conservati di 120 navi dalle caratteristiche diverse, una "flotta virtuale" incisa nei muri di fango e mattoni, che accompagnava il natante qui conservato.
La scoperta dell'università della Pennsylvania in collaborazione con il Ministero delle antichità egiziano e finanziata dalla National Geographic Society, è descritta sull'International Journal of Nautical Archaeology.
La camera sotterranea, che un tempo si estendeva per 21 metri di lunghezza e 4 di larghezza, era stata notata già nel 1901, ma durante i lavori di scavo il tetto era collassato, decretando l'abbandono del progetto.
Gli archeologi hanno passato gli ultimi due anni a scavare nel sito, dove hanno rivenuto anche un centinaio di vasi per la conservazione di liquidi.
Quando hanno raggiunto l'interno della stanza, sono rimasti stupiti di non trovarvi una tomba: il locale era stato costruito per ospitare una barca di legno, la cui forma dello scafo è ancora visibile sul pavimento.
Della nave non restano che pochi frammenti lignei mangiati dagli insetti, ma si sospetta sia stata trafugata già in epoche remote per il suo legno pregiato, forse di cedro.
Dalle 120 incisioni di navi che decorano le pareti, alcune delle quali alte 1,5 metri, emergono dettagli come alberi, timoni, vele, persino rematori.
Non è chiaro se la flotta rappresentasse navi egizie realmente esistite e appartenute al faraone, e nemmeno chi le abbia incise: quella di seppellire le barche non lontano dal sovrano era comunque una tradizione consolidata e di antico corso - in un altro scavo di Abydos ne sono state rinvenute 14, a corredo di una tomba reale della I dinastia.
Sesostri III regnò dal 1878 al 1839 a.C., segnando un periodo di grande prosperità che estese il dominio egizio fino alla Nubia, verso sud.
A differenza dei faraoni precedenti, alla tomba in una piramide preferì un sepolcro sotterraneo e nascosto, a circa 65 metri dalla stanza della barca.
Una serena accettazione della morte e della vecchiaia evidente anche nelle raffigurazioni del sovrano, uno dei pochi ad accettare di essere scolpito e disegnato con i segni inequivocabili dell'età avanzata, anziché ancora nel fiore degli anni.
Fonte: focus.it
mercoledì 9 novembre 2016
L'Isola Tiberina "inter duos pontes"
La sacra Insula Tiberina, è originata da rocce vulcaniche e depositi fluviali accumulati nei millenni nel punto in cui, allargandosi il Tevere, il livello dell’acqua si abbassa e la corrente è più lenta. Nella Forma Urbis Severiana aveva nome di "inter duos pontes", perché in seguito fu collegata all'Urbe da due magnifici ponti.
Fu l'isola in cui si rifugiarono le prime abitazioni romane, avendo all'inizio un solo guado e quindi più facilmente difendibile, guado che fu poi sostituito da un ponte di legno.
L'isola, detta anche Licaonia per la presenza del tempio di Giove Licaonio, è dunque situata sul Tevere nel centro storico di Roma, collegata da due ponti.
La leggenda tramanda che si formò subito dopo la cacciata del re, nel 510 a.c., tagliando i fasci di grano mietuto a Campo Marzio, di proprietà del re Tarquinio il Superbo, raccolto nelle ceste, e gettato in quel punto del fiume, generando pian piano l’isolotto.
L'inverosimile leggenda nasce da un culto molto antico, in cui si sacrificavano le primizie del raccolto, benedicendolo nelle ceste che venivano poi gettate nel fiume per ingraziarsi la divinità fluviale.
I fasci di grano, oltre ad essere sacri a Cerere, lo furono alla Mater Matuta e alla Dea Opi, tutte Dee italiche.
E' possibile che la cacciata dei Tarquini abbia dato luogo allo stesso culto di ringraziamento.
Contemporaneamente ai due ponti fu lastricato il Vicus Censorius che collegava i due ponti all'interno dell'isola.
Della forma di nave, resta ancora visibile la prua, con blocchi di travertino che rivestono l'interno in peperino, e decorazioni raffiguranti Esculapio con il suo serpente e una testa di toro per gli ormeggi.
Al centro vi era un obelisco, a raffigurare un albero maestro simbolico, ricordo dell'arrivo nel 292 a.c. da Epidauro della divinità.
Nel 293 a.c., ci fu infatti un grande peste a Roma.
Per la consultazione con la Sibilla, il Senato romano fece costruire un tempio di Esculapio, e inviò una delegazione a bordo di una nave a vela ad Epidauro per ottenere una statua della divinità. Ottennero invece un serpente da un tempio che posero a bordo della loro nave.
Il serpente si arrotolò intorno all'albero della nave, presagio molto fausto.
Al ritorno sul Tevere, il serpente scivolò dalla nave e nuotò verso l'isola, segno che voleva il suo tempio su quell'isola.
Dopo la sua costruzione infatti la peste svanì miracolosamente.
Nel I secolo a.c., furono costruiti in muratura, con rivestimenti di granito, i due bei ponti Fabricio e Cestio, detto anche di S. Bartolomeo.
Il Ponte Cestio, che congiunge l'isola Tiberina col Trastevere, fu edificato da Cestio Console, di era repubblicana.
Da due iscrizioni, che sono in ambedue i lati del ponte si testimonia che fu rifatto da Valentiniano, Valente, e Graziano.
Il ponte Fabricio, da Fabricio Console che lo edificò, come si legge nelle antiche iscrizioni poste sopra i grandi archi.
Prese poi il moderno nome di ponte Quattro Capi da vari simulacri di Giano quadrifonte, ch'erano prima sul medesimo ponte, uno dei quali rimane ora incontro la Chiesa di s. Giovanni Colabita.
Gli argini vennero in parte rivestiti sempre in travertino in opera quadrata, dando all'isola la forma di una nave. Un piccolo obelisco, situato nella parte centrale dell’isola stessa, doveva dare infine l’impressione di un albero per le vele. Con la costruzione dei ponti, l’isola Tiberina viene unita stabilmente alle due sponde e acquista la denominazione «inter duos pontes», leggibile anche su un frammento della Pianta Marmorea Severiana.
Che l'isola fosse sacra lo prova la presenza di molti templi, tra cui il tempio di Esculapio, il Dio greco della medicina, il tempio di Giove, il tempio di Veiove, il tempio di Fauno, edificato da Domizio Enobarbo con i danari della multa posta ai Mercanti di pecore e il tempio Tiberino dedicato al Dio Tevere.
Nella parte settentrionale si trovavano, ora situati fra le fondamenta dell'Ospedale Fatebenefratelli, i due templi dedicati nel 194 a.c. a Fauno e Veiove; un sacello per Iuppiter Iuralius, il "garante dei giuramenti", oggi sotto la chiesa di San Giovanni Colibita, ma in cui un pavimento musivo mostra ancora la dedica al Dio. poi un'ara dedicata al Dio Semo Sancus, Deus Fidius, di origine sabina.
Altri templi erano dedicati a Gaia la Dea Terra, preposta anch'essa ai giuramenti, e a Bellona, detta Insulensis, Dea della guerra.
Il Tempio di Esculapio sorse nella parte meridionale dell'isola, nel luogo oggi occupato dalla chiesa di San Bartolomeo: al suo interno un pozzo testimonia la fonte collegata al santuario.
Ai lati del tempio si trovava un portico per l'accoglienza dei pellegrini e soprattutto dei malati.
Questi venivano ospitati nel tempio in attesa della guarigione miracolosa da parte di Esculapio, Dio della medicina, e poiché il miracolo non costava mentre i medici costavano, molti romani portavano là i propri schiavi malati, tanto che Augusto emise in editto per cui ogni schiavo guarito nel tempio diventava automaticamente libero, di modo che i padroni perdevano ogni diritto su di lui.
Come tutti i templi pagani anche quelli dell'isola tiberina vennero distrutti o trasformati in chiese.
Nel 998 poi l'imperatore cattolico Ottone III costruì la chiesa di San Bartolomeo all'Isola sopra il Tempio di Esculapio, le cui rovine sono sul lato est dell'isola.
Il Papa fece rimuovere quindi l'obelisco e lo sostituì con una colonna sormontata da una croce, dove il 24 agosto di ogni anno si affiggeva l'elenco di chi non aveva seguito il precetto pasquale, per consegnare il malcapitato al pubblico ludibrio.
Distrutta la colonna dall'urto di un carro nel 1867, Papa Pio IX vi pose un'edicola, detta "Spire", con le statue dei quattro santi legati all'isola: S. Bartolomeo, S. Paulino di Nola, S. Francesco di Nola e S. Giovanni.
Le parti dell'obelisco sono state recuperate e ora conservate nel museo di Napoli.
Sopra gli avanzi del Tempio di Giove Licaonio, di cui si conserva l'incisione, vi è ora la Chiesa di S.Giovanni Colabita con 12 colonne sottratte all'antico tempio quasi tutte di granito.
Anche se il tempio di Esculapio ora si trova in profondità sotto San Bartolomeo, l'isola è ancora considerato un luogo di cura, perché un ospedale, fondato nel 1584, fu costruito sull'isola ed è ancora operativo.
L'ospedale non è stato costruito sullo stesso luogo, come il tempio, ma trova sulla parte occidentale dell'isola. In un cortiletto del convento dei Colabiti è incastrata nel muro la base coll'iscrizione della statua di Esculapio qui trovata, poi trasportata negli Orti Farnesi.
Accanto a detta iscrizione ve n' è un'altra, che appartiene ad una statua di Semoni Sanco, appellativo in antica lingua Sabina di Ercole.
Restano alcune parti della sagoma della nave in travertino: la poppa con un timone e la figura di Esculapio, non più in loco, nonché il simbolo di Esculapio, il caduceo con un serpente intrecciato, ancora visibile sulla "prua" dell'isola, oltre ad alcune teste leonine per ancorare le imbarcazioni.
martedì 8 novembre 2016
Tonna galea, un soffice nastro di uova
I molluschi, con o senza conchiglia, sono tra i soggetti preferiti dei fotosub che, a volte, si imbattono in specie poco note, ma di grande interesse come la Tonna galea, una specie protetta dalle leggi europee.
Conosciuta in Italia col nome di doglio o elmo, è uno dei molluschi gasteropodi più grandi del Mediterraneo grazie alla sua conchiglia di forma quasi sferica che può superare i 20 centimetri di diametro e sfiorare, si dice, i 30.
La sua superficie esterna, ricoperta da grossi cordoni a spirale appiattiti, appare di colore marroncino con sfumature chiare. Nonostante le sue cospicue dimensioni, questa capace struttura non è abbastanza voluminosa: il mollusco ha un corpo tanto grande da non potersi ritirare all’interno della sua conchiglia come avviene di norma nella maggior parte dei gasteropodi.
Di giorno non è facile avvistare la Tonna galena perché, poco amante della luce, resta infossata nei sedimenti dove appare come un rigonfiamento del fondo o un pezzo isolato di conchiglia.
Con il calare del buio, invece, tutto cambia.
Il mollusco si stira, assorbe acqua ed estende a dismisura il suo grosso piede, dando inizio a una serrata battuta di caccia.
Questa specie, infatti, è carnivora e predilige cetrioli di mare e bivalvi che rintraccia grazie al suo sensibile olfatto.
Una volta individuata la vittima, per esempio, comincia a risucchiarla con la sua proboscide estensibile e dilatabile digerendola piano piano con succhi a base di acido solforico e aspartico prodotti da una ghiandola specializzata.
Questi stessi acidi permettono alla Tonna di avere facilmente ragione dei gusci calcarei dei molluschi più piccoli.
La fine dell’estate segna l’inizio della stagione riproduttiva del nostro gasteropode che mostra per l’occasione uno straordinario estro artistico, deponendo un nastro di uova lungo un metro e largo tra i 20 e i 30 centimetri.
Il nastro, simile a un tessuto, esce lentamente sotto forma di morbide volute dal piede del mollusco e, come testimoniano le foto, sembra addirittura ricamato a piccoli disegni geometrici.
Il raffinato disegno a rilievo di questo “ricamo” è dovuto alla regolare disposizione delle capsule ovigere – un migliaio e più, avvolte in soffice muco e contenenti ciascuna un centinaio di embrioni – circondate da un bianco tessuto nutritivo.
Il colore del nastro, che nelle foto tende all’azzurro per la dominanza della luce ambiente e dell’effetto filtro dell’acqua, è in realtà intermedio tra il rosa e il salmone più o meno carico.
Una vera bellezza!
Le uova di Tonna galena si sviluppano lentamente in circa 34 giorni e, mentre il delicato nastro si dissolve nell’acqua, le larve della Tonna si disperdono nel plancton in balia delle correnti fino a quando, circa sette mesi dopo, verrà il momento della metamorfosi che segnerà l’inizio della vita sul fondo per i sopravvissuti al primo round della loro lotta per l’esistenza.
Fonte rivistanatura.com
Sfere di neve giganti su una spiaggia della Siberia
Gli abitanti della località del Golfo dell’Ob, in Siberia, negli ultimi giorni hanno assistito ad uno spettacolo a dir poco straordinario.
La spiaggia della zona si è ricoperta di sfere di neve giganti.
Un tratto di costa lungo circa 18 chilometri si è rivestito di sfere di neve, alcune grandi come una pallina da tennis, altre con diametro di 1 metro.
Si tratta del risultato di un raro processo ambientale in cui vari pezzi di ghiaccio diventano delle vere e proprie sfere per azione del vento e dell’acqua.
Gli abitanti del villaggio di Nyda, che si trova sulla penisola di Yamal, vicino al Circolo Polare Artico, non avevano mai visto nulla di simile.
Secondo gli esperti, il fenomeno è legato all’azione combinata dei venti e dell’acqua, alla temperatura dell’ambiente e alla presenza di ghiaccio sulla costa.
Un fenomeno simile si è già verificato in Finlandia a dicembre 2014 e in Michigan a dicembre 2015.
Secondo gli abitanti della zona le sfere di neve hanno iniziato a formarsi nel mese di ottobre quando l’acqua ha cominciato a raggiungere la spiaggia che in breve tempo per l’abbassamento delle temperature si è ricoperta di ghiaccio.
Quest’anno la Siberia sta toccando un vero e proprio record per quanto riguarda il freddo e le basse temperature.
La copertura nevosa ha raggiunto il proprio massimo livello per questo periodo dell’anno a partire dal 1998.
Marta Albè
venerdì 4 novembre 2016
La super Luna "extra" del 14 novembre 2016
Anche se il termine è tutto fuorché scientifico, con l'espressione super Luna questa espressione si intende la coincidenza del plenilunio con il momento di massimo avvicinamento alla Terra (perigeo).
Non è un evento raro (accade circa una volta all'anno) e neppure nefasto (come molti complottisti tendono a credere).
Ma il 14 novembre 2016, quando il nostro satellite entrerà nella fase di Luna piena circa un paio d'ore dopo il perigeo, gli amanti del cielo notturno potranno assistere a una super Luna ancora più "super".
Alle 12:24 ore italiane, infatti, la Luna si troverà alla minima distanza dalla Terra, 356.511 km.
Poco meno di due ore e mezza più tardi, alle 14:52 ore italiane, il nostro satellite raggiungerà il culmine della fase di Luna piena.
Non solo si tratterà della Luna piena più vicina alla Terra del 2016, ma sarà anche la più grande Luna piena visibile da 70 anni: l'ultima così si è verificata nel 1948, e la prossima arriverà il 25 novembre 2034.
Una Luna piena al perigeo può risultare il 14% più grande e il 30% più brillante di una Luna piena in apogeo, ma non è sempre facile notare la differenza.
La luminosità può essere schermata dalle nuvole o annullata dalle luci delle città; e senza riferimenti reali in cielo per "prendere le misure", anche il vantaggio in termini di diametro angolare (cioè la misura del suo diametro rispetto alla distanza dall'osservatore) rischia di perdersi.
Una Luna molto vicina all'orizzonte e a punti di riferimento terrestri (come alberi o case), per esempio, risulta apparentemente molto grande anche se in apogeo.
Poiché questa super Luna sembrerà il 12% più grande delle altre Lune piene al perigeo, gli appassionati di fotografia potranno provare a fotografarla e a comparare lo scatto con altri di super Lune precedenti o successive (a parità di contesto e strumentazione).
La differenza si dovrebbe notare, ed è anche un'ottima occasione per fotografare il nostro satellite.
Il primo termine di paragone utile sarà quello del 14 dicembre 2016.
Quella super Luna, anche se non esagerata come quella che sta per arrivare, sarà notevole per un altro aspetto: con la sua luminosità oscurerà in parte lo sciame meteorico delle Geminidi.
Fonte: focus.it
Un'isola in mezzo al deserto dello Yemen
Un paesaggio surreale, quasi uscito dal Signore degli Anelli.
Lo regala il villaggio di Haid Al-Jazil, in Yemen, un'isola da mille e una notte in equilibrio su un blocco roccioso, nel sud della penisola arabica.
Non ci sono fiumi o laghi in Yemen.
L'unica fonte di acqua per le persone che vivono lontano dalla costa si presenta sotto forma di valli fluviali stagionali chiamate wadi.
Per questo motivo, vengono costruiti villaggi come Haid Al-Jazil sopra queste valli, al fine di sfruttare la maggior parte di queste fonti d'acqua temporanee. E il risultato architettonico sembra essere uscito da un racconto di Tolkien.
Le case di Haid Al-Jazil sono state costruite su un enorme blocco di pietra a 150 metri d'altezza e godono di una surreale vista a 360 gradi sulla vallata del Wadi Dawan, nel mezzo del deserto, sulla Via dell'incenso.
Queste costruzioni sono composte da mattoni di fango con pavimenti in legno che separano un piano da un altro, e sebbene possano sembrare delle primitive capanne sono innovative e sofisticate, in grado di resistere alle stagioni delle piogge che minacciano di lavare via tutto: vengono costantemente ristrutturate, ma le popolazioni hanno sviluppato tecniche che consentono di realizzare case anche di 11 piani.
E alcune di esse esistono da più di 500 anni.
Fonte: www.lastampa.it
giovedì 3 novembre 2016
Namibia: sorprendente viaggio tra deserti, parchi nazionali e foreste pietrificate
Wonderful Namibia!
Non tutti hanno la fortuna durante la propria vita di fare l'esperienza del deserto, in assoluto una delle più particolari e sbalorditive che si possano sperimentare.
Fra le dune sperimenti la tua fragilità e ti confronti, come in pochi altri contesti al mondo, con te stesso, i tuoi limiti, la tua piccolezza di fronte alla maestosità della natura.
È un luogo, il deserto, dove si percepisce il senso della vastità e dell'infinito. Non si può non esserne rapiti.
A partire da quando si ode per la prima volta la sua voce, quella magnifica, impalpabile melodia generata dai granelli di sabbia che, mossi dal vento, si sfiorano l'un l'altro. O ancora, quando ci si trova di fronte ai suoi magnifici tramonti infuocati o alla volta celeste, che di notte si riesce a scandagliare senza ostacoli in tutta la sua brillantezza, o agli incontri che solo nel deserto si possono fare.
Se poi si ha la fortuna di fare quest'esperienza nel deserto del Namib, in Namibia, in assoluto uno dei più belli della pianeta, il tutto può diventare ancora più straordinario.
Il Namib, arido da oltre 50 milioni di anni, si ritiene che sia, infatti, uno dei deserti più antichi del mondo, un'ecoregione di grandissimo interesse per geologi e biologi, con una fauna e una flora costituita in gran parte da specie endemiche in grado di adattarsi nei millenni a un ambiente tanto ostile.
Gran parte del territorio del Namib è tutelato da aree naturali protette, la più importante delle quali è il Namib-Naukluft National Park, il parco nazionale più esteso d'Africa.
Strepitose le dune che, a seconda dell'ora, assumono diverse colorazioni: dall'albicocca-arancio dell'alba fino al rosso fuoco del tramonto.
Le dune di Sossusvlei sono le più alte del mondo e, sprofondando in mare, offrono uno spettacolo di singolare bellezza.
Ma il Namib non è l'unico deserto del Paese: all'interno dei confini nazionali ricade anche parte dello splendido deserto del Kalahari, condiviso con Botswana, Zimbabwe e Sudafrica.
La Namibia, che ha una densità di popolazione di 2,43 persone per kmq (contro le 200 dell'Italia), offre la possibilità di avvistare praticamente tutti gli animali che vivono nel Continente africano, compreso i cosiddetti Big five, vale a dire leoni, rinoceronti, leopardi, elefanti e bufali.
In particolare il Parco Nazionale Etosha, nel nord del Paese, uno dei più suggestivi e importanti parchi dell'Africa australe, dove si può peraltro dormire anche in ecolodge costruiti in modo da salvaguardare il più possibile il contesto in cui sono inseriti, è un autentico eden per i safari fotografici.
Il cuore del parco è costituito da 5mila kmq di conca salina priva di vegetazione e le numerose sorgenti d'acqua al margine della conca richiamano ogni tipo di animale: migliaia di uccelli, elefanti, ippopotami, giraffe, leoni, leopardi, branchi di antilopi e di zebre, oltre al raro rinoceronte nero e all'impala dal muso nero, a rischio estinzione.
Altre splendide escursioni naturalistiche sono quelle all'altopiano Waterberg, ricadente, con le sue molte sorgenti, nell'omonimo parco nazionale, dov'è possibile avvistare fra gli ultimi esemplari di ghepardi esistenti al mondo, e alla Foresta Pietrificata.
Dichiarata monumento nazionale negli anni '50, vi si osservano tronchi pietrificati (diventati cioè dure rocce silicee) risalenti a ben 260 milioni di anni fa e trasportati da una grande alluvione fin qui da zone probabilmente ricche di foreste di conifere.
Strepitosi anche il Fish River Canyon, paragonabile per la sua maestosità al Grand Canyon stellestrisce, e il tratto più a sud della Skeleton coast, che deve il nome ai relitti di navi arenatesi nel tempo da queste parti, oltre la quale vive una grande colonia di otarie.
Ma la Namibia non è soltanto natura e straordinari deserti.
Offre, infatti, anche un ricchissimo patrimonio culturale a partire dalle ben 13 diverse etnie che convivono sul suo territorio, tra cui l'affascinantissima tribù degli Himba, costituita da pastori nomadi che vivono nel nord del Paese, custodi di antiche tradizioni.
Rimanendo in tema culturale, non si può non visitare la capitale, Windhoek, con le sue architetture risalenti al dominio coloniale tedesco. Le conferiscono un aspetto quasi europeo e la città colpisce per il suo ordine, la sua pulizia e l'estrema sicurezza di cui si può godere andando in giro, contrariamente a quanto avviene in altri paesi dell'Africa.
Infine, il sito rupestre della valle di Twyfelfontein, autentico museo a cielo aperto, dichiarato monumento nazionale per la presenza di incisioni e pitture rupestri risalenti probabilmente a circa 6000 anni fa.
Ultimo tuffo nel lungo passato di questo straordinario e antichissimo angolo del pianeta.
Vincenzo Petraglia
Iscriviti a:
Post (Atom)