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martedì 23 settembre 2025

Scoperta una bara gigante nell’esercito di terracotta che confermerebbe una leggenda vecchia di 2000 anni


 È una storia iniziata per caso, quasi cinquant’anni fa, quando alcuni contadini della provincia cinese di Shaanxi stavano scavando un pozzo. Invece dell’acqua, trovarono qualcosa che nessuno si aspettava: una statua di argilla a grandezza naturale. Era il primo dei guerrieri di terracotta, parte di un esercito sotterraneo costruito più di 2.000 anni fa per accompagnare l’imperatore Qin Shi Huang nell’aldilà.

Oggi, quel sito torna al centro dell’attenzione grazie a una scoperta ancora più enigmatica: una bara in legno da 16 tonnellate, nascosta a 16 metri di profondità, circondata da tesori mai toccati dai ladri di tombe. Gli archeologi parlano di migliaia di monete antiche, armi, armature, oggetti in giada, utensili da cucina e persino due cammelli realizzati in oro e argento.

Secondo le prime ipotesi, potrebbe trattarsi della tomba del Principe Gao, uno dei figli dell’imperatore. Una figura quasi mitica, citata negli antichi testi cinesi ma mai confermata finora da prove archeologiche.

Nel 2011, i ricercatori hanno individuato nove grandi camere funerarie vicino al mausoleo dell’imperatore. Una di queste, lunga oltre 100 metri e ancora sigillata, si è rivelata diversa dalle altre. Quando le forti piogge hanno minacciato di allagarla, gli archeologi sono stati costretti a intervenire.

Jiang Wenxiao, il capo del team, ha raccontato:

La tomba è incredibile. Costruita con una precisione fuori dal comune, profonda, immensa. Pensavamo fosse stata già saccheggiata, come quasi tutte quelle antiche. E invece era intatta. Nessuno l’aveva mai toccata.

All’interno, i reperti parlano chiaro. Ogni oggetto ha un significato preciso nella cultura cinese: la giada è purezza, le armi sono protezione, le monete rappresentano la ricchezza, gli animali esotici il potere e la forza. Tutto fa pensare a un personaggio di altissimo rango. Ma chi?

Nel testo storico Shiji, scritto da Sima Qian, si racconta che dopo la morte dell’imperatore, il figlio più giovane, Hu Hai, prese il potere eliminando gli altri fratelli. Tra questi, Gao, uno dei figli maggiori, avrebbe chiesto di essere ucciso per poter riposare accanto al padre, fedele fino alla fine. Nessuno sapeva se fosse una leggenda o un fatto storico. Fino ad ora.

Anche se gli indizi sembrano portare al Principe Gao, non è ancora possibile dire con certezza chi sia il defunto. Il legno della bara è molto danneggiato, e il DNA potrebbe essere deteriorato dopo 2.000 anni. Gli archeologi stanno valutando diverse tecniche: analisi chimiche, confronto dei reperti con altri oggetti simili, e persino tentativi di ricostruzione del profilo genetico. Ma servirà tempo, e molta cautela.

Anche se non fosse il Principe Gao, la scoperta resta fondamentale. Dimostra quanto poco ancora conosciamo del mausoleo dell’imperatore Qin Shi Huang, e quanto sofisticata fosse la costruzione delle tombe nella Cina antica. Sono passati più di due millenni, eppure i segreti di quel periodo stanno ancora emergendo, centimetro dopo centimetro.

Fonte:.greenme.it

sabato 13 settembre 2025

Non solo ciliegi: Hitachi Seaside Park, un tappeto rosa che incanta in Giappone


 Quando si pensa al Giappone e alle sue fioriture, l’immaginario corre subito ai celebri ciliegi in primavera, i famosi Sakura. Eppure, esiste un luogo capace di sorprendere anche chi conosce bene il Paese del Sol Levante: l’Hitachi Seaside Park, nella prefettura di Ibaraki.

Qui, ogni autunno, la natura regala uno spettacolo mozzafiato, trasformando le colline in un mare rosa e rosso che sembra uscito da un film d’animazione. Un fenomeno breve ma intensissimo, che attira visitatori da tutto il mondo e che merita di essere inserito tra le esperienze più suggestive di un viaggio in Giappone.

Situato a Hitachinaka, a pochi passi dal mare, l’Hitachi Seaside Park copre un’area di circa 190-200 ettari ed è famoso per la sua incredibile varietà di fioriture stagionali. Ogni periodo dell’anno regala paesaggi unici: in primavera, ad esempio, i campi si tingono di blu grazie alle nemophila.


Ma è l’autunno a rendere il parco del Giappone davvero unico. In ottobre, infatti, i kochia, cespugli tondeggianti che cambiano colore con il passaggio delle stagioni, assumono tonalità rosa e rosso fuoco.

Questo fenomeno, che dura appena due settimane, è diventato una delle attrazioni più amate dagli appassionati di fotografia. Camminare lungo i sentieri circondati da distese colorate è come entrare in un mondo incantato, ideale per scattare foto indimenticabili.

Oltre ai fiori, il parco offre anche piste ciclabili, una ruota panoramica da cui ammirare il paesaggio dall’alto e numerosi eventi, tra cui il celebre Rock in Japan Festival.



venerdì 25 luglio 2025

Scoperto il segreto del garum, la salsa preferita dagli Antichi Romani


 Un vascone in pietra, sepolto da secoli sotto il terreno della Galizia, nel nord-ovest della Spagna. Un odore che un tempo doveva essere pungente, salmastro, quasi fastidioso. E un contenuto, oggi solo schegge di ossa, che racconta una storia antica, profumata di mare e di fermentazione. È lì che un gruppo di scienziati ha scoperto l’ingrediente principale del garum, la salsa più amata dell’Impero romano: la sardina.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Antiquity, è opera del biologo portoghese Gonçalo Themudo, che ha recuperato e analizzato il DNA di minuscole ossa di pesce trovate sul fondo di una vasca usata per produrre garum. Il risultato? Dopo 1.800 anni, è ancora possibile leggere nel codice genetico di quelle spine un segreto gustoso che i romani portavano ovunque: una salsa fermentata di sardine.


Quello che per secoli era stato solo un sospetto – basato su frammenti ossei difficili da identificare – oggi è diventato una certezza scientifica. Le vertebre ritrovate nel sito archeologico di Adro Vello, in Galizia, appartenevano con ogni probabilità a sardine locali. Il loro DNA, sorprendentemente ancora leggibile nonostante secoli di decomposizione, lo ha confermato.

Il garum, quindi, non era solo una salsa di pesce generica, ma un concentrato fermentato di sardine, ricchissimo di glutammati naturali, le stesse sostanze responsabili del sapore “umami” che oggi troviamo nella salsa di soia, nei brodi di pesce, nei funghi e nei formaggi stagionati. Un gusto deciso, intenso, forse anche un po’ aggressivo – ma evidentemente irresistibile per i palati di allora.

Il garum non era solo un condimento. Era una merce pregiata, trasportata lungo le rotte commerciali dell’Impero e consumata in tutte le province romane, dal Mediterraneo fino al Nord Europa. Secondo gli studiosi, veniva usato per insaporire carni e pesci, o anche diluito come brodo di pesce. E nonostante l’odore – sicuramente forte – era considerato un ingrediente di lusso, tanto da valere parecchio.

Una sorta di “salsa di pesce alla romana”, fermentata in grandi vasche con pesce, sale e tempo. Il risultato? Un liquido ambrato, ricco di sapore e proteine, capace di trasformare qualsiasi piatto in una pietanza ricca e gustosa.

Il ritrovamento in Galizia non solo conferma l’importanza delle sardine nella dieta romana, ma dimostra che il DNA può sopravvivere anche in condizioni estreme

Una scoperta affascinante che unisce archeologia, genetica e cultura del cibo. E che ci fa vedere quanto, in fondo, il nostro gusto per i sapori forti e fermentati non sia cambiato poi tanto.

Fonte: greenme.it

giovedì 24 luglio 2025

L’affascinante Isola delle Bambole in Messico


 Anche se sembra il set di un macabro film horror, Isla de las Muñecas non è solo una curiosità turistica: è uno dei simboli più potenti della cultura popolare messicana, dove la morte, il mistero e il folclore convivono in un delicato equilibrio. Che ci si creda o no, visitare quest’isola significa entrare in un mondo dove il confine tra reale e soprannaturale si fa sottile.

Un luogo che inquieta, ma che lascia anche un segno indelebile in chi lo visita. Nel cuore dei canali di Xochimilco, una zona lagunare a sud di Città del Messico, si può visitare l’Isola delle Bambole, una piccola porzione di terra galleggiante, nascosta tra i famosi canali patrimonio UNESCO. Qui centinaia di bambole rotte, sporche, appese agli alberi e alle capanne, osservano i visitatori con occhi di vetro, teste storte e arti mancanti.

Isla de las Muñecas è un luogo surreale che attira ogni anno migliaia di viaggiatori in cerca di storie insolite, misteriose e, per molti, profondamente inquietanti. La sua storia è strettamente legata alla figura di Don Julián Santana Barrera, l’eremita che per decenni ha vissuto lì da solo, tra le bambole. Secondo la leggenda, negli anni ’50 Don Julián si ritirò sull’isola per vivere in solitudine. Un giorno, trovò il corpo di una bambina annegata nei canali vicino alla sua chinampa (isolotto artificiale). Poco dopo, una bambola galleggiava, l’uomo la raccolse e la appese a un albero, come gesto simbolico per placare lo spirito della piccola.

Da quel momento, cominciò ad appendere bambole ovunque, recuperandole dai rifiuti, scambiandole nei mercati, o trovandole alla deriva nell’acqua. Credeva che lo spirito della bambina possedesse l’isola e che le bambole potessero proteggerlo. Così, per oltre 50 anni, ne raccolse centinaia. Ironia del destino, Don Julián morì nel 2001 proprio dove diceva di aver trovato il corpo della bambina. Da allora l’isola è rimasta congelata nel tempo, come un santuario pagano dedicato a un’anima perduta.


Visitare Isla de las Muñecas non è un’esperienza per tutti. Le bambole sono vecchie, mutilate, con occhi vuoti e capelli arruffati. Molte sono appese con fili, chiodi o corde, dando un’immagine visiva decisamente inquietante. Eppure, è proprio questa atmosfera surreale che affascina: tra superstizione e folklore, l’isola è diventata un’attrazione unica nel suo genere, una meta fuori dal comune per chi ama il turismo oscuro, i misteri e le storie vere che superano la fantasia. Alcuni visitatori giurano di aver visto le bambole muoversi o sussurrare. Altri lasciano offerte, fotografie, o nuove bambole per mantenere viva la leggenda.

Fonte: si viaggia

lunedì 5 maggio 2025

Ritrovati in Perù i resti ben conservati di una nobildonna vissuta 5000 anni fa


 Durante gli scavi nel sito archeologico di Áspero, situato lungo la costa settentrionale del Perù, gli studiosi hanno riportato alla luce i resti di una donna vissuta circa 5000 anni fa. Questo ritrovamento fornisce nuove informazioni sulla civiltà di Caral, la più antica delle Americhe, fiorita tra il 3000 e il 1800 a.C.

La donna, di età compresa tra i 20 e i 35 anni e alta circa 1,5 metri, è stata trovata avvolta in un sudario di tessuti sovrapposti e adornata con un mantello di piume di ara, simbolo di alto rango. Accanto a lei, un corredo funerario composto da un becco di tucano, una ciotola di pietra e un cesto di paglia. La presenza di questi oggetti indica il suo status elevato all'interno della società di Caral .

Secondo l'archeologo David Palomino, questa scoperta suggerisce che le donne ricoprivano ruoli significativi nella civiltà di Caral, sfidando l'idea che solo gli uomini detenessero il potere. Il ritrovamento evidenzia l'importanza delle donne nelle strutture sociali di una delle più antiche civiltà conosciute

 Áspero, parte del complesso di Caral, si trova a circa 180 chilometri a nord di Lima e a 20 chilometri dall'Oceano Pacifico. In passato utilizzato come discarica, è stato riconvertito in sito archeologico negli anni '90. La scoperta della nobildonna sottolinea l'importanza di Áspero nella comprensione delle prime società urbane delle Americhe .

Fonte: ottopagine 

venerdì 2 maggio 2025

Riapre dopo 50 anni la Grotta di Diana a Villa d’Este, gioiello del Manierismo

 

Una gemma segreta, inaccessibile da quasi cinquant’anni, riapre al pubblico dopo un importante restauro: è la Grotta di Diana di Villa d’Este, a Tivoli, gioiello del Manierismo voluto da un cardinale colto e raffinato. Sculture, ametiste, lapislazzuli, conchiglie, perle di vetro, foglie d’oro tornano a brillare all’interno del ninfeo cinquecentesco, Restituito all’antico splendore negli ultimi due anni grazie all’impegno dell’Istituto autonomo Villa Adriana e Villa d’Este con il decisivo sostegno di Fendi.
Dal 6 maggio la Grotta di Diana arricchirà il percorso di visita alla Villa, Patrimonio dell’Umanità Unesco dal 2001, con accesso dalla Passeggiata del Cardinale.
 Collocata nella parte alta del giardino, sotto la Loggia dei Venti, l’aula-ninfeo si apre su un panorama unico, dove la vista spazia dal Monte Soratte ai Castelli Romani, con la Città Eterna come fulcro e baricentro.



Luogo di meraviglia e contemplazione, dove passato e presente si incontrano in un dialogo di forme, ombre e riflessi, la Grotta fu costruita tra il 1570 e il 1572 come un “fantasmagorico antro all’antica”, su progetto del bolognese Paolo Calandrino e ispirazione di Pirro Ligorio, l’architetto napoletano a cui si devono la Villa e il suo straordinario parco. Ma la mente all’origine di tanta bellezza è quella del raffinato padrone di casa, il cardinale Ippolito d’Este, figlio di Lucrezia Borgia e Alfonso d’Este, che in questo luogo condensò il meglio della cultura cinquecentesca italiana e francese. “Le delizie della casa estense nascono a Ferrara, si nutrono dell’esperienza della corte francese a Fontainebleau e Tivoli raggiungono l'apice qui a Tivoli”, racconta Andrea Bruciati, direttore dell’Istituto Autonomo Villa Adriana e Villa d’Este. Uno spettacolo che a quei tempi suscitò stupore e ammirazione, sfidando la magnificenza di monumenti antichi come la Domus Aurea e affermandosi come modello per grotte e ninfei nei giardini di tutta Europa. 

Cariatidi con cesti di frutta danno il benvenuto ai visitatori del gioiello ritrovato, adorno di nove bassorilievi policromi ora perfettamente leggibili. Le divinità del mare e le Metamorfosi di Ovidio sono i temi principali della decorazione della Grotta, completamente rivestita da un enorme mosaico di conchiglie, frammenti di pietra, paste vitree e pietre preziose, mentre sul pavimento in terracotta invetriata brillano aquile, pomi e gigli estensi. “La Grotta di Diana è concepita per evocare l’eterna sfida tra la natura e l’uomo, i materiali naturali e l’artificio, proiettando l'ospite in un'altra dimensione che rivela il gusto estense nel rispetto del territorio tiburtino”, racconta ancora il direttore: “Diana è figura che ben si attaglia alla mentalità della corte di Ippolito II: cacciatrice e simbolo di virtù, è una donna moralizzatrice ma anche di sottile libertà laica che rimanda al potere intellettuale”. 

“Il restauro della Grotta di Diana è per Fendi un atto d’amore, il più recente di un percorso di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale italiano, che culmina quest’anno con la celebrazione del nostro centenario”, afferma Silvia Venturini Fendi, direttore artistico Accessori e Collezioni Uomo della casa di moda: “Profondamente radicata a Roma, dove dal 1925 risiedono le fondamenta e il cuore creativo della nostra maison, quest’opera rappresenta per noi un ulteriore investimento sul futuro che parte dalla memoria del passato: un impegno volto a preservare la bellezza e la storia del nostro paese, consegnando questo prezioso monumento alle generazioni a venire”. 
Fonte: arte.it



mercoledì 30 aprile 2025

Villa Palagonia, la strana storia della villa dei mostri di Bagheria


 La straordinaria Villa Palagonia sorge a Bagheria, suggestiva realtà della Sicilia. Più precisamente si trova in Piazza Garibaldi ed è lì dall’ormai lontanissimo 1715 ad ammaliare chiunque vi passa davanti. Edificata per volere di Francesco Ferdinando Gravina Alliata, principe di Palagonia, è divenuta quello che è oggi per mano di Ferdinando Francesco II, che scelse di aggiungervi stravaganti decorazioni che le valsero persino il soprannome di “Villa dei Mostri“.

Parliamo quindi di un luogo sorprendente, che si caratterizza per una peculiare aura misteriosa e decadente che l’ha resa oggetto di leggende e racconti 


Chiunque decida di visitare la misteriosa Villa Palagonia non può che rimanere incantato dalle sue stranezze e dal distintivo carattere eccentrico, caratteristiche che la rendono unica nel panorama del barocco siciliano. Si presenta quindi come un vero e proprio enigma architettonico e artistico al quale, per alcuni aspetti, è quasi impossibile trovare risposte.


Le statue “mostruose” della villa sono tantissime, opere grottesche che popolano il giardino e il muro di cinta. Sono principalmente creature deformi, animali fantastici, uomini con teste sproporzionate, gobbi, nani ed esseri ibridi. Molte di loro sembrano, apparentemente, non avere alcuna logica, ma non mancano di certo studi che sostengono che, in fondo in fondo, siano lì a simboleggiare una vera e propria critica sociale: si ipotizza che Ferdinando Francesco II di Palagonia volesse prendere in giro l’aristocrazia siciliana, trasformandola in una sorta di corte di deformità.

Ci sono anche altri esperti che ritengono che queste sculture abbiano invece un significato esoterico, richiamando antichi simboli alchemici.


Dal fascino irresistibile è il Salone degli Specchi, ovvero una stanza piena di specchi deformanti che creano giochi di riflessi e illusioni ottiche. Si sostiene che alla base di questa scelta ci sia stata la volontà di distorcere le proporzioni di chi vi si riflette, proprio per disorientare e dare, contemporaneamente, un senso di confusione e inquietudine.

È molto facile, infatti, ritrovarsi all’interno di tale salone e percepire un effetto di labirinto visivo, vivendo la sensazione che la stanza sia più grande e confusa. Un’idea, quella degli specchi ingannevoli, che è stata poi ripresa in film e romanzi gotici e surrealisti.

Non mancano di certo gli affreschi dal significato enigmatico, molti dei quali raffigurano scene non facili da immaginare in quella che, in passato, era una dimora nobiliare. Anche in questo caso ci sono creature fantastiche e ibride, volti enigmatici dalle espressioni ambigue (pare quasi che osservino il visitatore), simboli misteriosi e molto altro ancora.

Persino gli arredi di Villa Palagonia hanno le loro stranezze perché, pur trattandosi di una dimora dalle atmosfere grottesche, si distinguono per la loro qualità, in quanto sono incredibilmente lussuosi. La villa è infatti piena di marmi policromi, soffitti decorati in oro con dettagli finemente scolpiti e mobili con intarsi pregiati.

Ad aleggiare intorno alla bellezza mistica di Villa Palagonia ci sono numerose leggende e curiosità. Innanzitutto, si narra che Ferdinando Francesco II di Palagonia, creatore delle stranezze della villa, fosse convinto che circondandosi di mostri e di deformità sarebbe stato protetto dagli spiriti maligni e dal malocchio.

Nel folklore siciliano, inoltre, Villa Palagonia è spesso chiamata “Il Palazzo del Diavolo“. Il motivo? In passato erano tutti convinti che solo una mente diabolica potesse concepire un luogo così bizzarro e unico nel suo genere. A tal proposito c’è anche una leggenda locale, che narra che il principe avrebbe stretto un patto proprio con Lucifero “in persona” per costruire la villa più strana del mondo, il quale in cambio gli chiese di sacrificare la sua sanità mentale.

Fonte: siviaggia


mercoledì 2 aprile 2025

Il Pozzo di San Patrizio di Orvieto


 Il Pozzo di San Patrizio di Orvieto è ciò che il suo nome racconta: un pozzo, un banalissimo pozzo per raccogliere l’ acqua. E perché quindi dovrebbe essere uno luogo cosi speciale e misterioso? Beh, perché non è un pozzo qualunque. Non è il buco profondo in cui si getta il secchio agganciato alla corda, e non è nemmeno dotato di vecchi rubinetti a pompa per far salire l’ acqua.

 Nel Pozzo di San Patrizio ci si scende dentro, per ben 53 metri verso le viscere della Terra


Il Pozzo di San Patrizio di Orvieto è stato fatto costruire da Papa Clemente VII, giunto ad Orvieto in fuga da Roma durante il sacco della città del 1527. Il Papa cercava un posto in cui nascondersi e trovò in Orvieto un luogo adeguato: non troppo lontana da Roma, piccolina e costruita su una rupe di tufo, in posizione dominante sulla valle orvietana e difficile da attaccare. Orvieto aveva solo un difetto: per prendere l’acqua bisognava scendere ai fiumi che scorrevano a valle della rupe. Troppo rischioso …Quindi Papa Clemente VII fa costruire un pozzo in modo da rendere Orvieto totalmente indipendente.

A questo scopo chiama l’ architetto fiorentino Antonio da Sangallo il Giovane, che crea un progetto di ingegneria davvero avveniristica per i tempi: quello da cui nasce il Pozzo di San Patrizio.

Il pozzo viene scavato prima nel tufo e poi nell’ argilla, fino a raggiungere la falda acquifera sottostante. Si tratta di un gigantesco cilindro, profondo 53 metri e largo 13. La particolarità del Pozzo di San Patrizio di Orvieto sta nel possedere due scale elicoidali che non si incontrano mai, servite da due porte diverse in superficie, in modo che chi scende non incontra mai chi sale. Ciò era indispensabile quando era utilizzato come pozzo, e per il trasporto dell’ acqua si utilizzavano gli animali da soma. In questo modo non ci si intralciava.

 Arrivati sul fondo del pozzo, le due scale sono messe in comunicazione da un piccolo ponte, che attraversa la cavità.


Anche l’ illuminazione è spettacolare: completamente naturale, la luce attraversa tutto il pozzo e illumina le scale grazie a 70 finestroni. Per la sicurezza dei turisti sono state aggiunte delle luci guida lungo le scale, ma dalle foto vi renderete conto che quella che illumina il cammino è proprio la luce che filtra dall’alto. 


Ma diamo ancora i numeri, e aggiungiamo il più importante da conoscere se si vuole visitare il Pozzo di San Patrizio: i gradini di ogni scala elicoidale sono ben 248, per un totale di 496 scalini da percorrere calcolando la discesa e la risalita.

Come tutti i luoghi misteriosi, anche intorno al Pozzo di San Patrizio di Orvieto ruotano miti e leggende.

Come abbiamo detto, il pozzo fu voluto da Papa Clemente VII, che pensò di dedicarlo a San Patrizio. San Patrizio era un vescovo cristiano in Irlanda, fondamentale nel processo di evangelizzazione Irlandese 

La leggenda narra che fu Gesù Cristo in persona ad indicare a San Patrizio, demoralizzato per le difficoltà che incontrava nel diffondere la fede cristiana, una grotta sulla piccola Station Island (Contea di Donegal), dove i pagani avrebbero avuto potuto vedere con i propri occhi il Purgatorio. Così doveva immaginarselo Papa Clemente VII, che non vide mai il pozzo terminato, ma volle dedicarlo al santo.


lunedì 31 marzo 2025

Scoperto in Albania il lago sotterraneo termale più grande del mondo


 Era il 2021 quando un gruppo di speleologi della Repubblica Ceca, impegnato in un’esplorazione nelle zone montuose dell’Albania, notò qualcosa di insolito: una colonna di vapore caldo che si innalzava dal terreno. Seguendo la scia, gli scienziati si trovarono di fronte a un abisso profondo oltre 100 metri e, sul suo fondo, un’enorme distesa d’acqua calda.

All’epoca, però, mancavano gli strumenti per effettuare rilevazioni precise e determinare l’entità della scoperta. Solo nel 2025, con l’ausilio di una tecnologia avanzata come lo Scanner Lidar 3D, il team è riuscito a mappare con precisione l’area e a confermare l’incredibile realtà: Neuron è il lago termale sotterraneo più grande del mondo.

Il suo nome non è casuale: è un omaggio alla fondazione che ha finanziato la spedizione e reso possibile questo traguardo scientifico.


Il Lago Neuron si trova vicino a Leskovik, una località albanese non lontana dal confine con la Grecia. Quest’area è da sempre nota per la sua intensa attività geotermica, ma nessuno immaginava che nel sottosuolo si celasse un bacino di tali proporzioni.

Le misurazioni hanno rivelato che il Lago Neuron vanta caratteristiche impressionanti:

  • Lunghezza: 138 metri
  • Larghezza: 42 metri
  • Perimetro totale: oltre 340 metri
  • Volume d’acqua: 8.335 metri cubi, pari a circa 3,5 piscine olimpioniche

Ma non è solo la sua grandezza a rendere straordinaria questa scoperta. Le acque del lago sono ricchissime di sali minerali e vengono continuamente riscaldate da fenomeni idrotermali naturali. Questo ambiente, unico nel suo genere, potrebbe offrire risposte cruciali sulla distribuzione del calore sotterraneo e sulle dinamiche geotermiche della Terra.


Il Lago Neuron non è soltanto un’affascinante meraviglia naturale, ma rappresenta una fonte inestimabile di informazioni scientifiche.

  • Dal punto di vista geotermico, potrebbe fornire nuove indicazioni su come sfruttare in modo sostenibile le risorse termali per la produzione di energia.
  • La sua composizione minerale stabile lo rende un soggetto di studio ideale per la ricerca medica e per le terapie termali, con possibili implicazioni nel trattamento di alcune patologie.
  • La sua posizione all’interno di un ambiente speleologico unico lo rende un laboratorio naturale perfetto per studiare gli ecosistemi sotterranei e le interazioni tra acqua e rocce.

Gli speleologi e gli scienziati di tutto il mondo hanno già mostrato un grande interesse per questa scoperta. Il Lago Neuron potrebbe svelare segreti sulla Terra ancora sconosciuti, aprendo nuove prospettive di ricerca nel campo della geologia, dell’energia rinnovabile e della medicina naturale.

Fonte: greenme.it

giovedì 27 marzo 2025

Tempio di Kailasa, un’opera monumentale scolpita nel cuore della roccia


 È tra i più grandi edifici scavati nella roccia, ma non è questo l’unico motivo che rende il Tempio di di Kailasa uno dei luoghi più incredibili da visitare in Asia. Molti lo conoscono con il nome di Kailasanatha e attira ogni anno tantissimi visitatori per il suo interesse religioso e artistico. 

L’opera, tra le più straordinarie del mondo antico, si trova all’interno del complesso delle grotte di Ellora nella zona occidentale dell’India. La sua particolarità? È scavato in un unico blocco di roccia basaltica e rappresenta il sacro monte Kailash, dimora del dio Shiva secondo la tradizione induista.


Durante il regno del sovrano Rashtrakuta Krishna I, il tempio Kailasa ha iniziato a prendere forma. Siamo nel VIII secolo e rappresenta una delle più complesse strutture monolitiche mai create.

Si trova presso la grotta numero 16 del vasto complesso delle grotte di Ellora, sito riconosciuto dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità in India.

Cosa rende la costruzione così straordinaria? 

Sicuramente la tecnica costruttiva. Se negli edifici tradizionali si lavora a blocchi o mattoni, qui la struttura viene scolpita nella roccia. Gli artigiani hanno scavato dalla cima proseguendo poi verso il basso con la tecnica dello scavo verticale dando vita ad una struttura interamente monolitica con dettagli incredibilmente raffinati e una precisione geometrica sbalorditiva. Le stime parlano di circa 400.000 tonnellate di roccia rimosse nell’arco di meno di vent’anni, un’impresa che sfida ogni logica per l’epoca.


Il Tempio di Kailasa fu concepito come un omaggio al dio Shiva, una delle divinità principali del pantheon induista. L’intera struttura simboleggia il Monte Kailash, considerato la dimora degli asceti e la sede spirituale di Shiva.

Il cortile del tempio, a forma di U, è circondato da un porticato a colonne disposto su tre livelli mentre al centro si trovano due elementi principali: il Mandapa (la sala esterna pilastrata) e il santuario centrale con il Linga, il simbolo fallico associato a Shiva. Di fronte al santuario è posizionata la statua di Nandi, il sacro toro cavalcato dalla divinità.

L’opera è gigantesca: si estende per circa 50 metri di lunghezza, 33 di larghezza e 30 di altezza. Alla base sono scolpiti elefanti in pietra che sembrano sorreggere la struttura regalandole un aspetto ancora più maestoso. Possiamo notare come l’architettura dravidica, tipica dell’India meridionale sia testimoniata dall’uso di torri a piramide, portoni decorati e bassorilievi complessi.

Fonte: siviaggia

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