mercoledì 25 dicembre 2019
mercoledì 18 dicembre 2019
In Etiopia gli archeologi scoprono la città perduta di un misterioso impero
Gli archeologi hanno riportato alla luce i resti di una città da un'antica e influente civiltà antica dell'Africa orientale che fa luce sulle origini del cristianesimo in Etiopia.
L'insediamento sepolto, che contiene una delle chiese più antiche dell'Africa sub-sahariana, fu abitato per circa 1.400 anni prima di sparire negli altopiani polverosi dell'Etiopia settentrionale intorno al 650 d.C.
Chiamato Beta Samati, faceva parte dell'Impero o del Regno di Aksum, ma prima della sua scoperta gli archeologi pensavano che l'area fosse stata abbandonata quando la classe dirigente dell'impero stabilì la sua capitale altrove.
Il regno di Aksum ha dominato la regione tra l'80 a.C. e l'825 d.C. ed è stata una delle maggiori potenze del mondo antico - conquistando le regioni circostanti e commerciando con l'Impero romano, hanno detto i ricercatori.
Il regno si convertì al cristianesimo nel 4 ° secolo.
Fu solo nel 2009 che gli archeologi parlarono ai residenti locali nell'area vicino alla scoperta, i quali suggerirono ai ricercatori di indagare su una collina vicino al moderno villaggio di Edaga Rabu. Si è rivelato essere un tumulo alto 25 metri formato da rifiuti e detriti accumulati nel corso di generazioni di occupazione.
"Faceva parte della tradizione orale locale.
Sapevano che era un posto importante ma non sapevano perché", ha affermato Michael Harrower, professore associato di archeologia alla Johns Hopkins University e autore principale della ricerca.
La datazione al radiocarbonio suggerisce che le persone iniziarono a vivere nella città intorno al 750 a.C., e rimase occupata durante i tempi di Aksumite, catturando momenti chiave della storia etiope. Gli edifici e gli artefatti scoperti, che includono una basilica, un anello d'oro, monete, iscrizioni e ceramiche, hanno rivelato che la regione è rimasta importante durante i tempi di Aksumite e la città di Beta Samati è stata un fulcro centrale del commercio e del commercio, collegando la capitale Aksum con il Mar Rosso e oltre. Oggi, la città si trova vicino al confine dell'Etiopia con l'Eritrea.
"L'Impero di Aksum era una delle civiltà antiche più influenti al mondo, ma rimane una delle meno conosciute", ha detto Harrower. "Beta Samati abbraccia la conversione ufficiale di Aksum dal politeismo al cristianesimo e l'ascesa dell'Islam in Arabia", ha aggiunto.
Gli archeologi hanno scoperto i resti di una grande basilica risalente al IV secolo.
Tali edifici sono stati i primi luoghi chiave del culto cristiano in Etiopia, secondo lo studio, e il sito di Beta Samati sembra essere uno dei primi nel regno di Aksumite, hanno detto i ricercatori - costruito poco dopo che il re Ezana convertì l'impero in cristianesimo durante metà del IV secolo d.C.
"Questo è ciò che rende questa scoperta così importante", ha detto Aaron Butts, professore di lingue semitiche ed egiziane presso la Catholic University di Washington, DC, in una e-mail.
"I dati archeologici combinati con la datazione al radiocarbonio suggeriscono che la basilica risale al quarto (o forse all'inizio del quinto) secolo, rendendola certamente tra le prime chiese conosciute nell'Africa sub-sahariana.
Inoltre, data l'affidabilità dei dati archeologici combinati con la datazione al radio-carbonio, sembra essere la prima chiesa databile in modo sicuro nell'Africa subsahariana ", ha aggiunto Butts, che non è stato coinvolto nello scavo.
Le reliquie scoperte nel sito hanno mostrato influenze romane, pagane e cristiane, illustrando la "diversità culturale di questa civiltà enigmatica", ha detto lo studio.
Includevano un anello d'oro in stile romano che presentava un'icona insolita - un simbolo di un toro e un ciondolo in pietra dolce recuperato dall'esterno della basilica con una croce e quella che sembra essere un'iscrizione nell'antica lingua etiope che recita "venerabile".
Fonte: edition.cnn.com
domenica 15 dicembre 2019
La leggenda di Montepertuso
Secondo la leggenda, Positano fu fondata da Poseidone – dio dei mari – per amore della ninfa Pasitea ma, forse, non tutti conoscono la frazione di Montepertuso e il suo mito.
Montepertuso domina Positano e, oltre alla sua bellezza che rende la località campana ancora più affascinante, un racconto leggendario narra che la nascita del “pertuso” all’interno della montagna fu opera della Madonna: si dice, infatti, che a bucare la montagna sia stato proprio il dito indice della Vergine Maria.
Tanti anni fa, nella frazione attuale di Montepertuso a Positano, in grotte naturali scavate all’interno della montagna, vivevano alcuni abitanti giunti dall’Oriente.
La leggenda narra che qui il Demonio, per dimostrare la propria forza alla Madonna, tentò di bucare la montagna con le proprie mani, ma non ci riuscì.
La Madonna alzò la mano sfiorando la montagna, che si sgretolò all’istante, e il Diavolo precipitò giù dal monte cadendo sulle rocce sottostanti.
Qui, secondo i fedeli, è visibile la sua orma impressa nella pietra.
Durante la notte gli abitanti furono svegliati da un forte temporale e, dopo essere usciti dal rifugio, videro una luce bianca con al centro una figura che si stagliava dal monte.
Una giovane ragazza fu avvolta da quella luce e una voce con tono materno le disse:
«Non aver più paura, il Demonio è stato maledetto ed i suoi sforzi contro questo monte sono finiti, perché distrutto è lo spirito maligno.
Resti del suo corpo a forma di serpente si trovano all’altro versante della roccia viva.
Vieni dunque con me e accompagnami sulla collina della selva Santa, ove ci fermeremo per sempre».
Era la voce della Vergine Maria che, dopo aver sconfitto il Diavolo, volle rassicurare tutti gli abitanti di Montepertuso.
Oggi, su quella collina sorge il tempio dedicato alla Vergine delle Grazie, proprio di fronte al monte con il foro che dà il nome alla frazione.
Fonte: siviaggia.it
giovedì 12 dicembre 2019
Sculture assire di 2700 anni fa scoperte da archeologi italiani nel Kurdistan iracheno
Nel cuore di un sito archeologico del Kurdistan iracheno sono emerse dieci spettacolari e imponenti sculture rupestri che rappresentano alcune divinità degli assiri e un sovrano, con buona probabilità re Sargon.
I rilievi, scolpiti su grossi blocchi di roccia, sono lunghi ben cinque metri e alti due; in base alle analisi condotte dagli archeologi hanno un’età stimata di circa 2.700 anni (VIII-VII secolo avanti Cristo). Sono stati trovati associati al tratto di un canale largo quattro metri, che all’epoca si snodava per 7 chilometri nell’entroterra di Ninive, la capitale del regno.
Dal canale centrale si irradiavano corsi d’acqua più piccoli per nutrire i fertili terreni agricoli e i campi della Mesopotamia del nord, una delle culle della civiltà.
I rilievi sono stati scoperti tra settembre e ottobre di quest’anno da un team di ricerca internazionale composto da scienziati italiani dell’Università di Udine e della Direzione delle Antichità di Duhok, città del Kurdistan a 20 chilometri dal sito archeologico di Faida, dove sono emersi i grandi monumenti.
Gli archeologi dell’ateneo del Friuli Venezia Giulia, guidati dal professor Daniele Morandi Bonacossi, sono impegnati nell’area da diverso tempo in seno al progetto “Land of Nineveh Archaeological Project”, ma il loro non è stato un lavoro agevole.
Il Kurdistan iracheno è stato infatti a lungo al centro di aspri conflitti; basti pensare alla presenza dell’autoproclamato Stato Islamico dal 2014 al 2017.
La città di Mosul si trova a soli 50 chilometri di distanza dal sito di Faida, mentre il fronte della guerra è arrivato ad appena 25 chilometri.
L’area, come spiegato dallo stesso Bonacossi, “è parte di uno scenario ancora post-bellico, fortemente minacciato dal vandalismo, scavi clandestini e dall’espansione del vicino villaggio e delle sue attività produttive che lo hanno già gravemente danneggiato”.
La porzione superiore di alcuni dei bassorilievi era stata individuata tempo addietro, ma proprio a causa dei conflitti in corso e dell’instabilità geopolitica è stato impossibile portarli completamente alla luce sino ad oggi.
Come indicato, mostrano diversi dei assiri, associati alle figure animali e mitologiche che li accompagnano nell’iconografia: ci sono ad esempio Assur – la principale delle divinità assire – su un dragone e sua moglie Mullissu seduta su un piedistallo sostenuto da un leone; Sin, il dio della Luna (su un leone); Nabu, il dio della Sapienza (su un dragone); Shamash, il dio del Sole (su un cavallo); Ishtar, la dea dell’amore e della guerra su un altro leone e così via. Tutte le divinità sono rivolte verso il senso in cui scorreva l’acqua nel canale.
Il sovrano degli assiri è presente alle estremità dei bassorilievi, al cospetto delle divinità.
Come sottolineato dal professor Bonacossi, si tratta di reperti estremamente rari, tenendo presente che gli ultimi rilievi in Iraq furono scoperti circa due secoli fa dal Console francese a Mosul.
Quando gli scavi saranno terminati verrà realizzato il “parco archeologico dei rilievi assiri di Faida”; i reperti saranno documentati con le tecnologie più moderne, restaurati laddove necessario e protetti da apposite infrastrutture.
Fonte: scienze.fanpage.it
lunedì 9 dicembre 2019
In Abruzzo c’è un luogo più bello della Cappella degli Scrovegni
La chiamano la “Cappella Sistina d’Abruzzo”.
Date le dimensioni, c’è chi la paragona alla Cappella degli Scrovegni a Padova.
Pochi ne conoscono l’esistenza, eppure è di grandissima importanza, per diversi motivi.
Questa splendida chiesetta che domina l’altopiano di Navelli e che si nasconde tra i monti di Bominaco, un piccolissimo borgo che conta meno di cento abitanti, frazione di Caporciano, in provincia dell’Aquila, nasconde un vero e proprio tesoro.
Si tratta dell’Oratorio di San Pellegrino, con l’annessa Abbazia di Santa Maria Assunta.
Sono ciò che resta di un complesso monastico medievale che comprendeva anche un castello, iniziato a costruire nel XII secolo, e una torre cilindrica, oggi ancora visibile.
L’Oratorio offre un incredibile contrasto tra la struttura esterna piuttosto anonima e l’interno, caratterizzato da un’esplosione di colori data dagli affreschi che ancora conserva e che sono stati restaurati proprio di recente.
Secondo alcune ipotesi sarebbe addirittura legata al passaggio, da questa parti, di Carlo Magno.
Fu comunque rifatta dall’abate Teodino nel 1263.
Chi ha la fortuna di entrare in questo luogo resta letteralmente a bocca aperta. Le pareti e le volte sono completamente affrescate con episodi tratti dal Vangelo, l’infanzia di Cristo, la Passione, il Giudizio Finale e alcuni episodi della vita di San Pellegrino.
Gli affreschi rappresentano uno dei più antichi calendari monastici, con le personificazioni dei mesi.
A ogni mese sono dedicate due vignette in cui sono riportati il segno zodiacale, la corrispondente fase lunare, una figura allegorica che rappresenta il mese e i giorni contrassegnati dalle lettere dell’alfabeto (e non da numeri).
A separare la zona destinata ai pellegrini da quella dei monaci sono due transenne di marmo scolpite con l’immagine di un drago e di un grifone e l’iscrizione che ricorda Teodino e la data del 1263. Questi affreschi di scuola abruzzese risalenti al XIII secolo sono fra i più vasti e integri complessi pittorici dell’epoca.
A prendersi cura di questo sito di grande importanza storico-artistica sono alcuni custodi che, da decenni, guidano turisti e visitatori alla scoperta della “Cappella Sistina d’Abruzzo”.
Fonte: siviaggia.it
venerdì 6 dicembre 2019
Lettera dalla Mesopotamia: il primo Reclamo fu scritto 3750 anni fa
C’erano una volta i negozi sotto casa e i mercati rionali.
Vien da pensare a bei tempi quelli, ormai lontani, quando il rapporto fra venditore e consumatore era diretto, gli eventuali reclami si facevano a voce, e tutto si risolveva presto e di persona, almeno nella maggior parte dei casi.
In realtà, è ragionevole pensare che le lamentele dei clienti siano nate insieme al commercio stesso, ma è difficile immaginare un acquirente insoddisfatto che si prende la briga di incidere un’indignata lettera di reclamo su di una tavoletta d’argilla (che poi bisognava cuocere per “fissare” i segni), con l’indispensabile stilo e nella complicatissima scrittura cuneiforme, composta all’inizio da un migliaio di segni, poi ridotti con il tempo a solo poche centinaia.
Probabilmente, la più antica lettera di reclamo che si conosca, risalente all’incirca al 1750 a.C, non fu composta personalmente dal mittente, ma piuttosto da uno scriba: in Mesopotamia, dove si svolse tutta la faccenda, la scrittura era appannaggio della sola casta degli scribi.
Mestiere difficile e di grande responsabilità, che si tramandava da padre in figlio, e garantiva una invidiabile posizione sociale.
Doveva essere arrabbiato, e parecchio, un certo signor Nanni, che visse nell’antica città di Ur, in Mesopotamia (oggi in Iraq).
Aveva ordinato a un tale chiamato Ea-nasir una partita di lingotti di rame di “ottima qualità”, ma la merce si era rivelata invece scadente.
Ea-nasir era, come si definirebbe oggi, un grossista: andava nel Golfo Persico per acquistare rame da rivendere in Mesopotamia.
In un’occasione si accordò con Nanni per vendergli dei lingotti del pregiato metallo, ma poi, chissà perché (era un imbroglione, o attraversava un momento di difficoltà? Non lo sapremo mai…), trattò male l’affare, tanto da indurre l’arrabbiato cliente a scrivere una lettera di reclamo, che suona più o meno così:
Dillo a Ea-nasir: Nanni invia il seguente messaggio: Quando sei venuto, mi hai detto quanto segue: “Darò a Gimil-Sin lingotti di rame di ottima qualità”.
Poi sei partito ma non hai fatto quello che mi avevi promesso.
Hai dato al mio incaricato (Sit-Sin) dei lingotti che non erano buoni e hai detto: “Se vuoi prenderli, prendili; se non vuoi prenderli, vattene!”
Per chi mi prendi, che tratti uno come me con tale disprezzo? Ho inviato dei messaggeri a ritirare la borsa con i miei soldi, ma mi hai trattato con disprezzo rimandandoli da me a mani vuote, più volte, e attraverso un territorio nemico. […] Prendi atto che (d’ora in poi) non accetterò rame che non sia di ottima […] ed eserciterò contro di te il mio diritto di rifiuto perché mi hai trattato con disprezzo.
La traduzione di questa, e di molte altre tavolette commerciali e private, si deve a uno dei più importanti studiosi di scrittura cuneiforme e assirologia, A. Leo Oppenheim, che nel 1967 pubblicò Lettere dalla Mesopotamia.
Secondo lo storico Robert G. Hoyland, che sposta la data della contesa alla fine del 19° secolo a.C, Ea-nasir era un commerciante attivo nella non ancora identificata regione di Magan (forse nell’attuale Oman, o in Yemen, se non in Sudan o in Pakistan), ricca di rame e diorite: “Si presenta come un personaggio un po’ senza scrupoli, o forse caduto in un momento difficile della sua attività, perché ci sono un certo numero di lettere arrabbiate dai suoi clienti di Ur”.
La tavoletta, rinvenuta a Ur nel 1953, si trova oggi al British Museum.
Fonte: vanillamagazine.it
martedì 3 dicembre 2019
Due mummie di leone scoperte a Saqqara, in Egitto
Dall'Antico Egitto ci sono arrivate mummie di gatto, cane, ibis, persino di coccodrillo: mai però prima d'ora ci si era imbattuti nei resti completi di leoni preservati per l'Aldilà.
Le prime due mummie di cuccioli di leone sono venute alla luce non lontano dalla necropoli di Saqqara, in Egitto, in una tomba piena di altri animali mummificati (soprattutto gatti e uccelli) e di statuette di forma felina.
Il malloppo di animali considerati sacri, veri e finti, risalirebbe alla fine del Periodo Tolemaico, 2600 anni fa. I leoni mummificati non arrivavano al metro di lunghezza: morirono prima di aver raggiunto il pieno sviluppo.
Non sono i soli felini selvatici ritrovati nella tomba: tre altre mummie appartengono quasi certamente a leopardi, ghepardi, pantere o altri grossi predatori, non è ancora chiaro a quali.
Accanto ai leoni "riposavano" altre 20 mummie di gatti domestici e decine di statuette in pietra, legno o bronzo, finemente dipinte e in certi casi intarsiate in oro.
A completare il bestiario, un grosso manufatto a forma di scarabeo, di quelli usati, nell'Antico Egitto, come sigilli, gioielli o amuleti. L'oggetto che è lungo una trentina di centimetri potrebbe essere il più grosso artefatto di questa forma mai ritrovato.
Ma il particolare che ha reso possibile la datazione è una statua della dea Neith, patrona di Sais, una città sul Delta occidentale del Nilo che fu la capitale durante la ventiseiesima dinastia, 2600 anni fa.
I ritrovamenti di mummie feline sono piuttosto comuni nell'area di Saqqara, dove si venerava la dea Bastet, in origine divinità leonina e poi, con il tempo, ammansita in dea protettrice dalle sembianze di gatto, madre del dio leone Mysis.
Proprio a Saqqara, nel 2004, un team di archeologi francesi aveva individuato uno scheletro incompleto di leone, ma è la prima volta che questo animale si ritrova in forma mummificata.
Dopo la morte, i felini venivano trattati con gli stessi onori riservati all'uomo, e offerti in forma di mummie a Bastet.
In altri casi, gli animali votivi erano allevati apposta per la mummificazione, e venduti ai fedeli che volessero ingraziarsi una divinità.
Fonte: focus.it
giovedì 28 novembre 2019
La foresta che in Messico diventa arancione grazie alle farfalle
Ogni anno in autunno, in Messico, succede qualcosa di straordinario: questa foresta, situata tra il Michoacan e L’Estado de Mexico si colora di arancione grazie alla presenza delle farfalle monarca.
Ogni novembre, la foresta situata tra lo stato del Michoacan e l' Estado de Mexico viene letteralmente invasa da queste meravigliose svolazzanti creature arancioni nere e bianche che attraversano il sito come tappa del loro ciclo migratorio.
Queste splendide farfalle volano a circa 3800 miglia dal Canada e dagli Stati Uniti per raggiungere il Messico e trascorrere qui i mesi più freddi dell’anno.
Il lungo viaggio della farfalla monarca inizia ad agosto, per terminare i primi giorni di novembre sugli alti alberi del Messico, che diventano la loro casa fino a marzo.
Ogni anno, circa 200 milioni di farfalle arrivano nella foresta messicana con la forza del loro battito d’ali e tutto si trasforma, come per magia.
Le farfalle trovano riparo tra gli alberi di pino, quercia e abete. Quando le temperature sono anche basse, questi insetti tendono a dormire e stare molto vicini tra loro, così tanto da far sembrare gli alberi arancioni.
La foresta è diventata area protetta.
La riserva della biosfera delle farfalle monarca è stata nominata nel 2008 Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.
Tratto da : siviaggia.it
Le meravigliose sfumature del lago australiano che cambia colore con le stagioni
Dal fucsia al rosa, dal bianco al blu.
A meno di due ore di strada da Adelaide si trova il lago Bumbunga, i cui colori richiamano migliaia di turisti e fotografi da tutto il mondo.
Siamo fra le città di Lochiel e Bumbunga. E questo lago circondato dalle saline non è famoso solo per il suo colore rosa, come tanti altri del South Australia, dove la natura dà spettacolo.
La sua superficie è a specchio, e il cielo si riflette sull'acqua creando mille scintillanti sfumature.
Poi, in base alle stagioni e alla salinità, cambia drasticamente colore.
Con l'aumentare delle temperature, il sale si concentra e il rosa diventa più acceso.
Dove l'acqua inizia a evaporare, il lago lascia spazio a delle saline rosa chiaro.
Mentre nelle stagione delle piogge il lago passa prima da bianco poi a blu, ma mai come un lago qualsiasi.
A creare il rosa è una reazione chimica creata da sale, bicarbonato di sodio, alghe e microrganismi che vivono nell'acqua di questo meraviglioso lago conosciuto come salina nel 1868.
Fonte: lastampa.it
martedì 26 novembre 2019
In India i ponti ‘viventi’ di radici che diventano più resistenti man mano che gli alberi crescono
Non sono i ponti più alti o più lunghi del mondo, ma una serie di umili attraversamenti fluviali formati dalle radici degli alberi.
Si tratta di veri e propri ponti viventi che si innalzano sopra fiumi e burroni di Meghalaya, nell’India nord-orientale, collegando i villaggi e permettendo agli agricoltori di raggiungere le terre coltivate.
Queste strutture, ancora poco studiate, sono formate dalle radici aeree del Ficus elastica, o l’albero della gomma, che possono estendersi fino a 50 metri e sopravvivere per centinaia di anni. Sono radici incredibilmente robuste e la loro forza aumenta nel tempo poiché man mano che gli alberi crescono si ancorano sempre più alla terra.
I ponti viventi rappresentano una meraviglia ingegneristica naturale, che potrebbero aiutare le nostre città ad adattarsi alle temperature in aumento associate alla crisi climatica.
Alcuni ricercatori hanno mappato 74 ponti viventi nella zona, chiarendo il meccanismo con cui si formano e il modo in cui si mantengono nel tempo; per farlo, hanno sfruttato le conoscenze dei residenti, scattato migliaia di fotografie e realizzato numerosi modelli tridimensionali.
A differenza dei ponti realizzati in legno o bambù, i ponti viventi non sono facilmente spazzati via da pioggia e venti e non marciscono, aspetto molto importante in una regione molto umida. I ponti viventi durano anche molto più a lungo delle strutture costruite in acciaio, che arrugginiscono e si rovinano in fretta a causa del clima umido.
Le caratteristiche dei ponti radicali viventi sono date da un processo di “architettura rigenerativa” fatto dell’alternanza di crescita, decadimento e ricrescita continui.
Non si tratta di un processo naturale: i ponti sono realizzati e mantenuti da individui, famiglie e comunità degli indigeni Khasi e Jaintia.
Il processo di costruzione è simile tra le varie comunità, anche se differisce leggermente in base alle tradizioni locali e al tipo di ponte che si vuole realizzare.
Si inizia piantando una piccola pianta su ogni sponda del fiume o lungo i bordi di un burrone.
Quando spuntano le radici aeree, queste vengono avvolte attorno a una struttura di bambù o a steli di palma e vengono dirette verso la riva opposta.
Quando raggiungono l’altro lato, vengono impiantati nel terreno. Dopodiché la pianta emette ulteriori radici aeree, che possono anche fondersi tra loro, e la struttura diventa sempre più complessa e solida, stabile e resistente al carico.
Perché un ponte sia completato possono volerci decenni: la maggior parte dei ponti raggiungono i 20 metri e sono così stabili da poter essere percorsi da 2000 persone al giorno, mentre altri possono arrivare a lunghezze maggiori diventando difficili da percorrere e spaventosi.
Le tecniche utilizzate per costruire i ponti radicali viventi potrebbero essere impiegate nelle città, ad esempio per creare pensiline che non creino ostacoli a livello del suolo e che contemporaneamente rendano più verdi e ombreggiate le aree urbane, strategie necessarie per far fronte all’aumento delle temperature.
Fonte: greenme.it
lunedì 25 novembre 2019
La storia della Piramide Cestia. Il fascino del gusto orientale a Roma
A Roma, vicino a Porta San Paolo, c’è una piramide.
La curiosa storia della Piramide Cestia è ovviamente molto antica. Tutto ebbe inizio nel I secolo a.C. quando Caio Cestio, un importante uomo politico dell’antica Roma, decise che come proprio monumento funerario la piramide sarebbe stata la scelta ideale.
La preferenza va ricercata nel contesto storico di quel periodo: siamo negli anni della conquista dell’Egitto e i ricchi e colti romani restarono subito affascinati dal gusto orientale.
Caio Cestio decise così di farsi costruire la propria tomba a forma di piramide al di fuori della città – come era usanza – lungo una strada consolare, la via Ostiense, l’antico collegamento tra l’Urbe ed il suo porto, la città di Ostia Antica.
Sappiamo con certezza, grazie al testamento dello stesso Caio Cestio, che la piramide fu costruita in soli 330 giorni, venendo innalzata tra il 18 e il 12 a.C., anche se ciò che impressiona maggiormente è la sua portentosa struttura: è alta quasi 37 metri e ha una base quadrata di circa 30 metri per lato.
Ma chi era questo ricco uomo politico?
E’ lui stesso a presentarsi nelle iscrizioni sulle facciate della piramide come un importante membro del collegio sacerdotale degli Epuloni, i quali avevano il compito di organizzare in città i sacri banchetti annuali in onore delle più importanti divinità.
E per la sua costruzione, non si badò a spese.
Il figlio di Caio Cestio vendette i pregiati arazzi detti “attalica” e con il ricavato fece realizzare due statue in bronzo dorato da posizionare proprio all’ingresso del monumento.
La tomba non era certo isolata, ma anzi, era circondata da un recinto costruito con blocchi di tufo (oggi ancora in parte visibili) e con quattro colonne innalzate proprio in corrispondenza dei quattro angoli della Piramide.
Di queste colonne oggi ne restano visibili solo due, riportate alla luce nel 1656 e subito riposizionate nella loro collocazione originaria, per volere di papa Alessandro VII Chigi.
Ma le sorprese più grandi della Piramide si celano al suo interno, dove si trova la camera sepolcrale: un piccolo vano rispetto alla mole imponente della Piramide, ma con pareti interamente e delicatamente affrescate con figure femminili alternate a vasi lustrali e gioiose Vittorie alate sulla volta.
Ciò che resta ancora oggi completamente avvolto nel mistero è se Caio Cestio decise di farsi cremare o inumare: non sono stati infatti rinvenuti né sarcofagi né urne cinerarie.
Ciò che è certo è che all’interno della stanza non vi doveva essere alcun bene prezioso perché Augusto aveva appena vietato, con una apposita legge, l’ostentazione del lusso nelle tombe.
Un vero smacco per i numerosi tombaroli che nel corso dei secoli hanno più volte cercato di intrufolarsi all’interno della piramide cercando i tesori.
E’ giunta così ben conservata fino ai nostri giorni perché fu inglobata nelle Mura Aureliane nel IV secolo d.C. e in questo modo ne fu risparmiata la sua distruzione, trovandosi esattamente lungo il tracciato delle nuove mura.
Ma è un monumento particolarmente fortunato perché scampò anche ad un’altra distruzione, quella dei bombardamenti durante la II Guerra Mondiale, che invece buttarono giù per sempre un tratto adiacente delle Mura Aureliane.
Caio Cestio non fu l’unico però a costruire una piramide a Roma. Sappiamo infatti che in città ve ne erano almeno altre tre: due nell’area dove oggi sorgono le chiese gemelle di piazza del Popolo ed una lungo via della Conciliazione, all’altezza della Chiesa di Santa Maria in Traspontina.
Quest’ultima fu distrutta nel 1499 da papa Alessandro VI Borgia per ampliare la viabilità della strada vicina a San Pietro, in occasione dell’imminente giubileo.
La fama però della Piramide Cestia fu grande già in passato, quando di fatto divenne una delle tappe obbligate di visita per i giovani rampolli delle famiglie europee che compievano il Grand Tour, l’importante viaggio di formazione e studio tra XVII e XIX secolo: vedere una Piramide a Roma sorprendeva davvero tutti!
Fonte: artslife.com
venerdì 22 novembre 2019
Hong Kong: alle origini della protesta
Una volta la regione era famosa per il suo "porto profumato", da cui prenderebbe anche il nome (in cinese Xianggang), merito delle tante fabbriche di incenso.
Oggi Hong Kong è più conosciuta per lo skyline, la piazza finanziaria e il terziario avanzato, pur trovandosi nella Cina comunista.
Ed è proprio questo il punto: gli abitanti di Hong Kong si sentono cinesi "occidentalizzati", un sentimento che mal si sposa con l'autoritarismo di Pechino, come dimostrano le proteste ininterrotte.
Per capire questa vicenda è necessario andare indietro di qualche secolo, fino al Settecento, quando la Compagnia britannica delle Indie Orientali stabilì la sua sede a Canton (Cina del Sud), avviandovi le prime attività commerciali.
Di lì a poco gli inglesi diventarono il maggior fornitore di oppio della Cina, e fecero affari d'oro fino al 1839, anno in cui le autorità cinesi promulgarono il divieto di importare la droga.
Fu la scintilla della Prima guerra dell'oppio tra Cina e Regno Unito: gli inglesi occuparono l'isola di Hong Kong (riconosciuta colonia nel 1842, con il Trattato di Nanchino) e vi rimasero per oltre 150 anni.
Dopo la Seconda guerra dell'oppio, nel 1860, fu occupata anche la penisola di Caolun, oggi parte del territorio urbano di Hong Kong.
Nel 1997, in base agli accordi siglati tra i due Paesi nel 1984, la sovranità della città-Stato è passata dal Regno Unito alla Cina, rimanendo però una regione a statuto autonomo (fino al 2047, quando diventerà Cina a tutti gli effetti).
Per questo si parla di "un Paese, due sistemi", con una moneta tutta sua, il dollaro di Hong Kong, un sistema di leggi ancora basate sulla Common Law inglese e un sistema scolastico di stampo britannico.
Il governatore è formalmente eletto da una ristretta cerchia di persone, un comitato elettorale composto da circa un migliaio di membri, ma nella pratica è espressione del governo centrale di Pechino.
Gli accordi anglo-cinesi avevano pianificato anche il futuro dell'ex colonia, a partire dall'introduzione del suffragio universale per eleggere sia il governatore (Chief Executive), sia consiglio legislativo (LegCo).
In teoria, la modifica costituzionale che permetterebbe di arrivare al suffragio universale avrebbe dovuto essere messa all'ordine del giorno già nel 2017: ancora oggi, però, è tutto come prima e l'attuale governatore si è dichiarato non disponibile ad avviarne l'attuazione.
Oltre che politica (il suffragio universale, la legge sull'estradizione, ...) ed economica (Pechino vorrebbe inglobare Hong Kong nell'immenso sistema della Nuova Via della Seta), la questione è anche culturale.
Dal 1997 Hong Kong ha visto l'invasione dei "fratelli" continentali e il progressivo cambiamento dei programmi scolastici: le prime proteste risalgono al 2012, quando il governo cinese tentò di introdurre l'educazione patriottica nella scuola.
Quello che insomma gli scontenti di Hong Kong temono di più è la "cinesizzazione", la scomparsa della loro particolare identità.
Fonte: focus.it
giovedì 21 novembre 2019
Linee di Nazca: scoperti grazie al satellite 143 nuovi disegni in Perù
Con l’aiuto dei satelliti e dell’intelligenza artificiale, un gruppo di ricercatori ha individuato una serie di nuovi “geoglifi” che raffigurano animali, persone e oggetti.
Circa 2000 anni fa, gli antichi popoli del Perù meridionale crearono centinaia di enormi disegni nel terreno (appunto i geoglifi) che oggi sono noti come Linee di Nazca.
Ora alcuni scienziati, usando tecniche avanzate, sono riusciti a scovarne altri 143.
A fare la scoperta è stato un team di ricerca guidato da Masato Sakai, antropologo culturale presso l’Università di Yamagata in Giappone, che ha trascorso anni a caccia di geoglifi durante alcune spedizioni in loco a seguito delle immagini ad alta risoluzione delle Linee di Nazca ricavate dallo spazio.
Questi sforzi, alla fine, hanno portato al rilevamento di nuove figure che hanno lunghezze che partono da 5 e arrivano fino a 100 metri.
I nuovi geoglifi scoperti dal team di Sakai raffigurano una vasta gamma di cose e oggetti viventi, tra cui persone, uccelli, scimmie, pesci, rettili ma anche disegni astratti.
Questi furono realizzati dall’antica cultura peruviana rimuovendo il terriccio nero roccioso sotto il quale vi era la sabbia chiara.
Sakai e i suoi colleghi hanno notato che i geoglifi più grandi, etichettati come di tipo A, tendevano a rappresentare animali. Questi si estendono per almeno 50 metri e in genere sono più tardivi nella linea temporale della civiltà di Nazca, ossia risalgono al 100-300 d.C.
I geoglifi più piccoli, di Tipo B, sono in genere i più antichi e risalgono al periodo che va dal 100 a.C. al 100 d.C. Le figure di tipo B si trovano spesso su pendii e percorsi, quindi i ricercatori ritengono che potrebbero essere stati progettati come punti di riferimento per le persone.
Le figure di tipo A, invece, sono spesso disseminate di frammenti di ceramica, suggerendo che fossero siti di cerimonie rituali che comportavano la rottura di oggetti.
Una delle figure di tipo B sembra rappresentare una figura umanoide ed è stata scoperta con l’aiuto di IBM Watson Machine Learning Community Edition, un modello di intelligenza artificiale. Il team di Sakai ha lavorato con l’IBM Thomas J. Watson Research Center negli Stati Uniti per addestrare l’intelligenza artificiale a scansionare le immagini satellitari della regione e contrassegnare così i siti promettenti per trovare nuovi geoglifi.
I ricercatori hanno in programma di continuare a utilizzare le nuove tecnologie per trovare, mappare e classificare nuove figure eventualmente presenti.
Questo sforzo è importante non solo per comprendere la vasta estensione e complessità delle Linee di Nazca ma anche per aiutare a preservarle (ricordiamo che sono Patrimonio dell’Umanità Unesco).
Francesca Biagioli
martedì 19 novembre 2019
Il Putridarium delle Clarisse: lo scolatoio dove le monache purificavano il corpo delle defunte
Il Castello Aragonese è un edificio di straordinaria bellezza, che si trova sopra un’isolotto adiacente all’Isola di Ischia, di fronte all’isola di Procida.
Situato nello splendido panorama del Golfo di Napoli, offrì rifugio e accoglienza agli Ischitani durante i turbolenti secoli delle incursioni dei pirati, quando dal mare arrivavano orde di assalitori in grado di razziare città e villaggi.
Nel 1575 il Castello, una vera e propria città con 13 chiese, un convento di monaci, una casamatta per la guarnigione e anche un vescovo e una cattedrale, si arricchì della presenza delle Clarisse, che giunsero al seguito di Beatrice Quadra, vedova di Muzio d’Avalos, che si insediò con quaranta suore provenienti dal convento di San Nicola.
Le suore erano destinate alla vita di clausura sin da giovanissima età, una misura adottata dalla famiglie nobili dell’epoca per evitare di dividere l’eredità in troppe parti, e in particolar modo per preservarla per i figli maschi.
La storia del convento durò all’incirca 250 anni, e terminò nel 1810, quando il generale francese Gioacchino Murat soppresse tutti gli ordini religiosi per impossessarsi delle loro ricchezze.
In questo lungo lasso di tempo le monache vissero e morirono in un territorio di straordinaria bellezza, adottando un particolare stratagemma per ricordare a se stesse la caducità della vita. Adiacente al cimitero monastico si trovava infatti il Putridarium, una piccola sala dove i corpi in putrefazione delle suore decedute venivano posizionati seduti in attesa che i batteri li disfacessero del tutto.
La sala era frequentata quotidianamente dalle monache (vive) che pregavano per le defunte e osservavano i cambiamenti del loro corpo.
I cadaveri infatti “scolavano” i propri liquidi all’interno del foro posto sotto la seduta, purificando l’anima dalla carne, aspetto corruttibile dell’esistenza umana.
Il Putridarium, o Scolatoio, era quindi una specie di purgatorio per le defunte, dove il corpo si liberava definitivamente delle proprie impurità per rimanere soltanto nella sua essenza, le ossa, che venivano in seguito sepolte nel cimitero adiacente.
Le monache che pregavano nella stanza avevano evidente la locuzione latina:
“Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris –
Ricorda, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai”Che rischiava di tradursi in un presagio di morte rapidissimo.
L’ambiente della stanza, piccola e senza finestre, era insalubre e contaminato dai batteri dei corpi in disfacimento, e spesso le monache si ammalavano a causa delle ore in preghiera spese al suo interno.
Conservatosi nel corso del tempo, oggi il Putridarium è visitabile all’interno del Castello Aragonese.
Fonte: vanillamagazine
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