martedì 9 aprile 2013
L'enigma delle rocce delle Isole di Aran
Le isole Aran sono uno dei luoghi più affascinanti d'Irlanda e una delle mete preferite dai turisti. I monumenti più mirabili presenti sulle isole sono i giganteschi Forti Preistorici, il più famoso dei quali, il Dun Aengus, si trova sul ciglio di una scogliera alta un centinaio di metri.
Si tramanda che gli imponenti forti in pietra sulle Aran Islands furono costruiti da una leggendaria tribù celtica, i Firbolgs, provenienti dall’Europa.
Inishmore, Inishmaan e Inisheer, le tre Isole Aran, si sono formate da una piattaforma calcarea staccatasi sott’acqua dal Burren ed emersa dall’Atlantico all’entrata della Galway Bay.
Una leggenda racconta che, un tempo, la baia era un grande lago, il Loch Lurgan. Quando le sue rive si sono erose, sono rimaste le tre isole Aran a fare da barriera alle onde dell'Oceano Atlantico. Di fatto le isole sono una parte emersa dell'altopiano calcareo del Burren.
Ma c’è un'enigma che avvolge le tre isole di Aran: in prossimità delle sue coste vi sono dei giganteschi massi di cui nessuno, fino ad oggi, è riuscito a spiegare come vi siano arrivati. Geologi e altri studiosi si chiedono chi o cosa abbia avuto quella gigantesca forza per posizionarli dove si trovano. Le rocce infatti, si trovano ben al di sopra del livello del mare da dove sono arrivate. Una di esse in particolare, pesa 78 tonnellate ed è stata spostata verso l’interno rispetto alla riva del mare di ben 12 metri.
Alcune antiche leggende volevano l’opera quale risultato del lavoro di giganti o di extraterrestri, mentre gli scienziati pensavano che gli spostamenti dei grandi massi fosse da imputare a qualche gigantesco terremoto marino che doveva aver provocato uno spaventoso maremoto. Tuttavia non si era mai riusciti a trovare la testimonianza di un sisma così violento da generare onde tali da portare quelle rocce nella posizione attuale, neppure andando a cercare evidenze geologiche di decine o centinaia di migliaia di anni fa.
Ma ora una ricerca apparsa su The Journal of Geology sostiene che non è necessario scomodare giganti, alieni o tsunami per realizzare quanto ha fatto la natura, ma bastano le onde dell’oceano aiutate da qualche forte temporale.
Ad avanzare l’ipotesi alternativa èRonadh Cox, del Williams College.
Cox si è armata unicamente delle equazioni matematiche che permettono di calcolare le forze che entrano in gioco quando il mare sviluppa onde gigantesche e ha scoperto che esse sono sufficientemente potenti da spostare massi di decine di tonnellate. Al contrario non lo potrebbero fare le onde provocate da uno tsunami.
Non vi sono solo le equazioni matematiche a corroborare la tesi della ricercatrice, ma anche le storie di alcuni abitanti delle isole. Essi infatti, sostengono che dal 1755 ad oggi alcuni massi sono stati portati nella loro attuale posizione pur avendo la certezza assoluta che non vi sono stati tsunami.
"Se non vi sono omini verdi provenienti da Marte che fanno tutto ciò, la causa non può essere ricercata se non nelle onde del mare", ha sottolineato la Cox.
Secondo la ricercatrice le onde in grado di spostare tali massi si formano quando onde già molto potenti sbattono sulle pareti verticali della costa e vengono respinte indietro molto violentemente. Se altre onde stanno arrivano se ne formano di potentissime, con un’energia sufficiente a spostare anche i massi più grossi.
Durante un temporale o una tempesta poi, se ne possono formare alcune che possono scalzare un masso e spostarlo verso l’alto di alcuni metri.
Stando alla Cox quindi, il problema sarebbe risolto, ma se così fosse, bisognerebbe approfondire l’argomento per capire quale energia possano sviluppare le onde oceaniche, anche perché ciò potrebbe servire a difendere le costiere abitate che si affacciano sugli oceani del pianeta.
umberto gaetani
L'illuminazione
Siete tutti illuminati fin dal principio:
l'illuminazione è la vostra natura.
L'illuminazione non è qualcosa che dovete conquistare,
non è una meta.
E' la vostra sorgente, è la vostra stessa energia.
(Osho)
Tiche la dea della fortuna
Nella mitologia greca, Tiche (o Tyche, dal greco Τύχη) è la personificazione della fortuna.
Tiche era la divinità tutelare che presiedeva la prosperità delle città e degli stati.
La sua importanza crebbe in età ellenistica, tanto che le città avevano la loro specifica versione iconica della dea, che indossava una corona raffigurante le mura della città.
Nell'omerico "Inno a Demetra" Tyche era considerata una delle Oceanine, figlie del titano Oceano e della nereide Teti.
In altre versioni è la figlia di Ermes ed Afrodit
Nell'arte medievale la dea è raffigurata con una cornucopia e la ruota della fortuna.
Il suo corrispettivo nella mitologia romana è la dea Fortuna.
Mito:
Personificazione del destino e della fortuna, rappresentava tanto la buona quanto la cattiva sorte.
La dea era venerata ed onorata quale patrona del pubblico benessere.
Solo più tardi assunse un significato più generico, identificandosi con la Sorte, la dea destino, che aveva il potere di decidere la fortuna dei singoli umani e della collettività regolando gli eventi al di fuori dell'opera umana.
Attività affine a quella delle Moire, ma sentita piuttosto come divinità benevola.
Man mano che decresceva la fede delle prime divinità, cresceva l'importanza del destino, e Tiche arrivò ad essere considerata come dea nell'epoca ellenistica.
Non possiede un proprio mito.
Fu accolta dai Romani sotto il nome di Fortuna, la dea del caso e del destino, considerata colei che porta la fertilità e la fortuna, e le attribuivano come figlia la Necessità.
Ritrovata una “pietra del sole” vichinga nel relitto di un’antica nave inglese
Un cristallo oblungo trovato nel relitto di una nave inglese del sedicesimo secolo potrebbe essere una ‘sunstone’, una pietra quasi mitologica usata dai navigatori vichinghi per trovare la rotta.
Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Proceedings of the Royal Society A, secondo cui la pietra aveva la capacita’ di trovare il sole anche dietro alle nuvole o dopo il tramonto.
Nello studio i ricercatori dell’universita’ di Rennes hanno analizzato il cristallo scoprendo che e’ composto da calcite, una forma di carbonato di calcio, e che in origine era trasparente, mentre al momento del ritrovamento i secoli passati sott’acqua lo avevano reso opaco. Costruendone uno uguale e’ stato possibile dimostrare che il cristallo e’ in grado di scomporre la luce e di indicare la posizione del Sole con un’accuratezza di un grado, anche 40 minuti dopo il tramonto: “Fino a questo momento c’era solo qualche accenno allo strumento nei documenti antichi – affermano i ricercatori – ma riteniamo che questa sia una prova evidente della sua esistenza”.
Dormire in un Hotel Galleggiante in Svezia
Se siete alla ricerca di esperienze uniche e indimenticabili l’hotel galleggiante The Utter Inn in Svezia fa al caso vostro!
Creato dall’artista e scultore locale Mikael Genberg, che ne è anche il proprietario, questo singolare hotel ha aperto nel Giugno del 2000. Deve la sua particolarità al fatto di trovarsi nel mezzo del lago Mälaren a Västerås, in Svezia.
Per raggiungere The Utter Inn bisogna prima di tutto arrivare al porto di Västerås, vicino a Stoccolma. Da qui il proprietario accompagna gli ospiti con un gommone fino all’hotel, distante 1 km (5 minuti circa). Dopo di che si viene lasciati da soli.
Visto da fuori questo hotel galleggiante ha l’aspetto di una tipica casetta rossa svedese, posta sopra una piattaforma e dotata di uno spazio esterno dove sono collocate 2 sedie e un tavolo.
All’interno dell’unico ambiente che spunta fuori dall’acqua trovano posto il wc e un fornello, nessuna doccia e lavandino! Vengono inoltre forniti una scorta limitata di acqua e alcuni utensili da cucina. Da qui una botola conduce ad una scala situata all’interno di un tubo circolare, che permette di scendere nell’unica stanza dell’hotel, situata a circa 3 metri di profondità nel lago.
La stanza ha lo spazio necessario solo per 2 letti singoli e un tavolo. Su ognuno dei 4 lati, si trova una finestra, per consentire una visione a 360 gradi e dare la sensazione di dormire all’interno di un acquario.
Nella stanza non c’è la corrente elettrica e l’illuminazione è fornita da candele e da abatjour alimentate a batteria.
Oltre a contemplare il panorama del lago e lo spettacolo dei pesci che scorrono davanti alle finestre della stanza, si possono praticare nuoto, kayak e prendere il sole sull’isola disabitata che si trova nelle vicinanze e raggiungibile con una canoa messa a disposizione degli ospiti.
Dovete portare con voi tutto ciò di cui avete bisogno durante il soggiorno, cibo e bevande comprese, perché non si potrà lasciare l’hotel fino a che non verranno a riprendervi.
L’hotel galleggiante è aperto da aprile a settembre e le tariffe partono da 210 euro a coppia per il solo pernottamento. Con un supplemento si può avere la colazione, servita in una borsa termica. Se invece preferite un servizio di lusso è possibile avere i pasti, consegnati da camerieri che arrivano in barca.
La pet therapy
La pet therapy
L’utilizzo di alcune specie animali per rendere migliore la qualità della convalescenza di un ammalato o più semplicemente per arricchire il quotidiano di un disabile o di un anziano scaturisce dall’osservazione degli effetti derivanti dall'interazione tra persone malate e la presenza di un animale. In molti casi, infatti, la prossimità di un cane o di un altro animale ha un effetto positivo che si aggiunge a quello di alcuni farmaci o altre terapie convenzionali.
Questo è quello che si propone la pet therapy. A coniare il termine pet therapy fu lo psichiatra infantile Boris Levinson che, nel 1953, durante una seduta con un bambino autistico, nota chela presenza del suo cane migliora nel bambino la voglia di interagire con il terapeuta, ma anche la voglia giocare con l'animale. Levinson dimostra che l'affetto di un animale produce un aumento dell'autostima e agisce positivamente sul bisogno di amore dei suoi pazienti.
Oggi, la pet therapy si pratica grazie all’ausilio di diverse specie animali. La graduatoria degli animali utilizzati nella pet therapy vede in cima il cane, miglior amico dell’uomo, e a seguire avremo gatti, criceti e conigli, cavalli, uccelli (in particolare pappagalli), pesci da acquario e delfini. A chiudere la classifica, una serie di animali da fattoria come asini, capre e mucche. Ma perché proprio il cane nella pet therapy?
Pet therapy e cani
Per definizione, il cane è il miglior amico dell’uomo: è l’animale che interagisce maggiormente con l’essere umano e che meglio di ogni altro stabilisce con l’uomo un legame intenso e duraturo. Le razze canine impiegate nella pet therapy sono diverse, meticci compresi. In fondo, è una questione di cuore. Non esiste infatti alcuna criterio di discriminazione di razza, ma esistono degli indici di attenzione nei confronti dell’indole del soggetto, che non debbono essere sottovalutati. Alla base dell’impiego terapeutico del cane vi è la sua capacità istintuale di non mettere in atto alcun meccanismo psicologico difensivo (quali la negazione o la falsificazione). Il cane non interpreta e non falsifica.
I cani sono in grado di leggere il linguaggio corporeo del soggetto, come l’espressione del viso e gli atteggiamenti fisici, e di percepire, attraverso le secrezioni ormonali, i diversi stati emotivi dell’uomo. Ansia, sofferenza, depressione, preoccupazione, nostalgia e tristezza. A questi stati, il cane risponde con il contatto fisico, con il gioco, con le coccole, con il calore e la vicinanza. I cani amano giocare, facilitando nel malato la riscoperta della vivacità e delle relative sensazioni benefiche, oltre alla dimensione della socialità. Come la pet therapy e i cani entrano in contatto?
I requisiti del cane/terapeuta
Un cane inserito in un programma di pet therapy deve possedere dei requisiti di idoneità, che includono parametri veterinari, di indole e comportamentali.
Il primo di questi aspetti è riconducibile al benessere dell’animale stesso e alla prevenzione delle zoonosi, cioè di quelle malattie che il cane potrebbe trasmettere al malato. Ogni cane, prima di poter essere utilizzato in un programma di pet therapy, deve essere sottoposto a un numero di esami veterinari, che vengono periodicamente ripetuti.
L’indole o il temperamento del cane consiste nella capacità dell’animale di reagire velocemente a degli stimoli esterni: in base a queste capacità vengono di solito individuati cani vivaci, attenti, normali e “spenti”. La pet therapy non include cani apatici che non reagiscono agli stimoli e all’interazione con l’uomo, come non annovera nelle liste degli “aiutanti animali” cani troppo esuberanti, causa di un’altra classe di problemi con i malati, specie con gli anziani. L’indole del cane va comunque sempre messa in relazione con quella dell’essere umano con cui va a legare.
L’ultimo parametro, quello del comportamento, è visto in relazione al conduttore del cane. I cani della pet therapy hanno un padrone/istruttore che controlla e governa l’animale mediante istruzioni. Le reazioni di un cane saranno dunque prevedibili dal conduttore. Il cane accetta il conduttore come guida e punto di riferimento per l’interazione con il malato, rendendosi disponibile e obbediente. Questo aspetto è importante per la sicurezza sia degli utenti che del cane stesso.
Giappone, i tre volti del mare
A caccia di plancton, un banco di pesci pipistrello staziona vicino alla superficie al largo delle Isole Bonin.
Con l’indebolirsi della luce solare al crepuscolo, le acque di questo arcipelago subtropicale del Giappone si tingono di turchese. (Fotografia di Brian Skerry)
Tra le fessure aperte nel ghiaccio si fa strada la luce del sole. I blocchi più spessi, ingioiellati da alghe, hanno riflessi verde smeraldo.
A poco a poco questo regno gelido rivela le sue ricchezze: un nudibranco blu trasparente che nuota, un pesce rosa con una coda simile a un ventaglio da geisha, un lompo arancio brillante che sembra appena uscito da un cartone dei Pokémon.
Questo è il mondo sommerso che aspetta il fotografo subacqueo Brian Skerry mentre arranca sulla spiaggia di Rausu, un paese di pescatori sull’angolo nordorientale del Giappone, con indosso muta, bombole e quasi 15 chili di pesi. Skerry si mette le pinne e lentamente immerge il viso per abituarsi ai -1,7 °C dell’acqua.
Le labbra gli diventano viola, ma lui, macchina fotografica in mano, si tuffa tra i banchi di ghiaccio nel Mare di Okhotsk che lambisce la Penisola Shiretoko.
Di solito si pensa al Giappone come a un arcipelago composto da poche grosse isole vicine tra loro, ma basta guardare una carta geografica per accorgersi che la realtà è ben diversa: le isole sono oltre 5.000, disposte su un arco lungo più di 2.400 chilometri.
Nel freddo Nord, aquile di mare con oltre due metri di apertura alare e granchi giganti frequentano i mari coperti di ghiaccio al largo della Penisola Shiretoko.
Al Centro, le acque temperate della Penisola Izu e della Baia di Toyama, a poche ore di macchina dai grattacieli di Tokyo, ospitano sciami di luminescenti calamari lucciola e foreste di coralli molli.
Nel caldo Sud, delicati pesci farfalla e grandi squali toro vivono assieme tra le barriere coralline delle 30 e più Isole Bonin.
Fondamentali per la biodiversità marina sono le correnti oceaniche, che bagnano le coste giapponesi con acque la cui temperatura varia tra i -1 e i 30 °C, permettendo al Giappone di fregiarsi di due record mondiali.
Le acque calde portate dalla possente Corrente Kuroshio consentono ai coralli di prosperare molto più a nord di quanto accada nel resto del mondo. E grazie alle acque fredde della Corrente orientale di Sakhalin, la Penisola Shiretoko è l’avamposto più meridionale dei ghiacci marini invernali.
Queste correnti non influenzano solo la temperatura, ma trasportano con sé, per grandi distanze, le creature marine.
Tutta la costa vulcanica del Giappone è punteggiata di piccole insenature, spiega Robert van Woesik del Florida Institute of Technology: lagune che, come accade in tutte le isole circondate dai reef, «agiscono come guantoni da baseball, catturando larve di corallo e di pesce».
Questi ecosistemi, come gran parte degli oceani del mondo, sono in pericolo: per avere più suolo su cui costruire, i giapponesi stanno interrando le lagune.
Così, le larve di coralli, pesci e crostacei vengono trascinate lontano senza trovare dove insediarsi.
Per ora però l’oceano pullula di vita, come dimostrano le immagini di Brian Skerry. Il fotografo riemerge dall’acqua gelata e si rifugia in una casa da tè sulla spiaggia. Finalmente libero dalla pesante attrezzatura, siede sul pavimento e si riscalda con una zuppa di miso guardando la neve che cade.
Intanto il lompo arancione continua a nuotare e il ghiaccio, sott’acqua,
a mandare i suoi riflessi verdi.
Juli Berwald
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