mercoledì 6 febbraio 2013
Ci rimane solo ............
Viviamo su una penisola in mezzo al mare
Abitiamo potenzialmente su una polveriera
Il nostro territorio è altamente sismico
Il tutto sistematicamente IGNORATO DA CHI CI GOVERNA
Il Marsili è un vulcano sottomarino localizzato nel Tirreno meridionale e appartenente all'arco insulare Eoliano.
Si trova a circa 140 km a nord della Sicilia ed a circa 150 km ad ovest della Calabria ed è il più esteso vulcano d'Europa.
Scoperto negli anni venti del XX secolo e battezzato in onore dello scienziato italiano Luigi Ferdinando Marsili,
Dimensioni 70 km di lunghezza e 30 km di larghezza (pari a 2100 chilometri quadrati di superficie Assieme al Magnaghi, al Vavilov e al Palinuro, il Marsili è inserito fra i vulcani sottomarini pericolosi del Mar Tirreno
Il monte si eleva per circa 3000 metri dal fondo marino, raggiungendo con la sommità la quota di circa 450 metri al di sotto della superficie del mar Tirreno. È stato indicato come potenzialmente pericoloso, perché potrebbe innescare un maremoto che interesserebbe le coste tirreniche meridionali. Il sismologo Enzo Boschi, presidente dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ha dichiarato:
« La nostra ultima ricerca mostra che il vulcano non è strutturalmente solido, le sue pareti sono fragili, la camera magmatica è di dimensioni considerevoli. Tutto ciò ci dice che il vulcano è attivo e potrebbe entrare in eruzione in qualsiasi momento. » Il cedimento delle pareti muoverebbe milioni di metri cubi di materiale, che sarebbe capace di generare un'onda di grande potenza. Gli indizi raccolti ora sono precisi, ma non si possono fare previsioni.
Il rischio è reale e di difficile valutazione.
Quello che serve è un sistema continuo di monitoraggio, per garantire attendibilità « La caduta rapida di una notevole massa di materiale — spiega Boschi — scatenerebbe un potente tsunami che investirebbe le coste della Campania, della Calabria e della Sicilia provocando disastri. »
SENZA CONTARE CHE:
Nella vicina base Usa di Sigonella sono state accumulati ordigni atomici, in violazione del Trattato internazionale di non proliferazione nucleare.
Che succederà?
Non solo:
Trivellazioni nel mar di Sicilia. Mentre Greenpeace solcava i mari siciliani con il suo “No Trivelle Tour” per dire no alle trivellazioni petrolifere offshore nel Canale di Sicilia, Il Governo Monti preveda lo sviluppo delle attività petrolifere nell’”offshore ibleo”.
il ministro Corrado Passera ha inserito in un documento strategico ufficiale del Governo italiano un progetto specifico (perché di questo si tratta: il Governo che benedice la piattaforma Vega B ancor prima di concederle la Valutazione Ambientale)
Vulcani in Italia
Abitiamo potenzialmente su una polveriera
Il nostro territorio è altamente sismico
Il tutto sistematicamente IGNORATO DA CHI CI GOVERNA
Il Marsili è un vulcano sottomarino localizzato nel Tirreno meridionale e appartenente all'arco insulare Eoliano.
Si trova a circa 140 km a nord della Sicilia ed a circa 150 km ad ovest della Calabria ed è il più esteso vulcano d'Europa.
Scoperto negli anni venti del XX secolo e battezzato in onore dello scienziato italiano Luigi Ferdinando Marsili,
Dimensioni 70 km di lunghezza e 30 km di larghezza (pari a 2100 chilometri quadrati di superficie Assieme al Magnaghi, al Vavilov e al Palinuro, il Marsili è inserito fra i vulcani sottomarini pericolosi del Mar Tirreno
Il monte si eleva per circa 3000 metri dal fondo marino, raggiungendo con la sommità la quota di circa 450 metri al di sotto della superficie del mar Tirreno. È stato indicato come potenzialmente pericoloso, perché potrebbe innescare un maremoto che interesserebbe le coste tirreniche meridionali. Il sismologo Enzo Boschi, presidente dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ha dichiarato:
« La nostra ultima ricerca mostra che il vulcano non è strutturalmente solido, le sue pareti sono fragili, la camera magmatica è di dimensioni considerevoli. Tutto ciò ci dice che il vulcano è attivo e potrebbe entrare in eruzione in qualsiasi momento. » Il cedimento delle pareti muoverebbe milioni di metri cubi di materiale, che sarebbe capace di generare un'onda di grande potenza. Gli indizi raccolti ora sono precisi, ma non si possono fare previsioni.
Il rischio è reale e di difficile valutazione.
Quello che serve è un sistema continuo di monitoraggio, per garantire attendibilità « La caduta rapida di una notevole massa di materiale — spiega Boschi — scatenerebbe un potente tsunami che investirebbe le coste della Campania, della Calabria e della Sicilia provocando disastri. »
SENZA CONTARE CHE:
Nella vicina base Usa di Sigonella sono state accumulati ordigni atomici, in violazione del Trattato internazionale di non proliferazione nucleare.
Che succederà?
Non solo:
Trivellazioni nel mar di Sicilia. Mentre Greenpeace solcava i mari siciliani con il suo “No Trivelle Tour” per dire no alle trivellazioni petrolifere offshore nel Canale di Sicilia, Il Governo Monti preveda lo sviluppo delle attività petrolifere nell’”offshore ibleo”.
il ministro Corrado Passera ha inserito in un documento strategico ufficiale del Governo italiano un progetto specifico (perché di questo si tratta: il Governo che benedice la piattaforma Vega B ancor prima di concederle la Valutazione Ambientale)
Vulcani in Italia
Il lago Liluk
Una ricca concentrazione di minerali da' vita a questo straordinario spettacolo della natura Ci troviamo a Vancouver, in Canada.
Il lago che vedete non è inquinato, tutt’altro. Ogni estate, quando l’acqua si scalda, i minerali contenuti si raccolgono in cerchi colorati, creando questo straordinario effetto. Gli abitanti del posto si sono mobilitati per convincere il governo a fare dell’area un parco nazionale.
Gli scatti che vedete sono del fotografo Fred Schaad, che per anni ha seguito l’evoluzione di questo particolare fenomeno. Il lago Liluk contiene una delle più alte concentrazioni al mondo di minerali come solfato di magnesio, solfato di calcio e sodio, nonché otto altri minerali compresi argento e titanio. Le sue acque hanno anche ottime proprietà terapeutiche.
Il Thor’s Well
Il Thor’s Well è una depressione naturale che si trova a Cape Perpetua, sulla costa dell’Oregon. La zona fa parte di una riserva forestale, la Siuslaw National Forest, ed è popolarissima tra i turisti per la bellezza dello scenario geologico che offre.
Il Thor’s Well è unico nel suo genere, in quanto si tratta di un cratere nel quale defluisce costantemente l’acqua di mare. E lo fa in un balletto di onde e spruzzi emozionante. Per poter godere dello spettacolo infatti occorre che la marea sia alta, in modo che si veda costantemente defluire l’acqua nella depressione proprio come se ci fosse un buco nel mare. Le condizioni ventose favoriscono poi il formarsi di onde che infrangendosi sui bordi rocciosi, prima penetrano violentemente nel buco e poi esplodono per riuscirne fuori come un geyser. Catturare un’immagine vivida di tale spettacolo è la perla di numerosi fotografi che si arrischiano il più vicino possibile per coglierne l’essenza: non è per niente un’impresa facile visto che le rocce sono scivolose, appuntite, e un’onda potrebbe spazzare via l’incauto osservatore in qualsiasi momento. Per non parlare poi se questi, caduto in acqua, dovesse finire nel pozzo: non sopravviverebbe mai. Ma dove porterebbe questa rovinosa fatalità? C’è chi pensa che questo buco nell’acqua sia in realtà una porta d’ingresso a un mondo sottomarino…
Il ritrovamento di una nave romana
La nave cartaginese con il suo possente rostro puntava dritta su di loro. I rematori della nave romana tiravano al massimo, per evitare lo scontro, ma il fianco della loro nave era già esposto. Sul ponte i legionari avevano lo sguardo fisso.
Ora i Cartaginesi non erano più ombre indistinte, ma uomini dalla pelle scura con elmi di cuoio. Un tonfo, un “crack” prolungato, una violenta cascata salata e i Romani affondarono. Senza sapere che, morti loro, la battaglia sarebbe stata vinta. Senza immaginare che, senza quella vittoria su Cartagine, la storia sarebbe stata diversa. La loro infatti era solo una delle navi romane affondate nella battaglia delle Egadi, al largo di Trapani, scontro navale che chiuse la Prima guerra punica segnando una svolta: da piccola potenza regionale, Roma sarebbe diventata una potenza globale, con mille anni di presenza militare, commerciale e culturale.
Questa battaglia navale, la più grande a memoria d’uomo per numero di partecipanti, circa 200 mila, avvenne la mattina del 10 marzo del 241 a. C.
Oggi, a distanza di oltre duemila anni, se ne sono trovate le tracce.
Il 24 agosto 2011 , in una ricerca coordinata dalla Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, due sub, Gian Michele Iaria e Stefano Ruia, su indicazioni di un Rov hanno recuperato alcuni elmi di quei legionari romani (le ossa non si sono conservate perché affioravano sul fondale). «Ne abbiamo visti spuntare due, poi, in un’area di soli 200 m2, a 75 metri di profondità, c’erano altri 10 elmi» spiega Ruia. «Si capiva che erano romani per la caratteristica punta a “pigna”.
Non molto distante abbiamo rinvenuto un rostro romano, probabilmente della nave su cui erano imbarcati i soldati che portavano quegli elmi».
Una delle prove che si tratta del luogo esatto in cui si svolse la battaglia delle Egadi, a nord-ovest dell’isola di Levanzo, come aveva ipotizzato l’archeologo Sebastiano Tusa.
«La nostra ricerca ha avuto origine alcuni anni fa, quando un subacqueo recentemente scomparso, Vincenzo Paladino, mi raccontò del ritrovamento di circa 300 ceppi di ancore allineati lungo un fondale della costa orientale dell’isola di Levanzo» spiega Tusa, sovrintendente del Mae della Sicilia. «Consultammo gli scritti dello storico greco Polibio, che, a distanza di circa 70 anni, aveva ricostruito la battaglia nelle sue Storie: aveva raccontato come i Romani, guidati dal console Gaio Lutazio Catulo, attaccarono di sorpresa i Cartaginesi. Avevano teso un agguato nascondendosi dietro un promontorio di Levanzo e per la fretta di andare all’attacco avevano tagliato le cime delle ancore: proprio quelle ritrovate da Paladino».
Le fonti storiche riferiscono che la flotta cartaginese era composta da 700 navi, adibite soprattutto al rifornimento e all’incremento delle truppe di terra di stanza sul monte Erice, in Sicilia, comandate da Amilcare Barca. «La Prima guerra punica» continua Tusa «come la Prima guerra mondiale, si stava trascinando da anni con scontri terrestri di posizione, sulle colline fra Trapani e Palermo, dove si avanzava solo di pochi chilometri. I Cartaginesi avevano allora armato una grande flotta, al comando dell’ammiraglio Annone, per portare altri rinforzi e farla finita». I Romani, però, dopo la sconfitta di Tunisi e sfortunati naufragi come quello di Camarina (255 a. C.), grazie a una sottoscrizione di cittadini, avevano armato 200 veloci quinqueremi.
Il comandante cartaginese Annone fece scalo per alcuni giorni a Marettimo (l’antica Hiera), nelle Egadi: all’alba del 10 marzo del 241, visto che il vento era favorevole (vento da ponente) salpò per puntare sulla costa della Sicilia. Ma i Romani, bene informati, fecero arrivare dai porti di Marsala (l’antica Lilibeo) e di Favignana 350 navi.
I Romani si posizionarono dietro la punta di Capogrosso, estremità settentrionale di Levanzo, in agguato. I Cartaginesi li videro quando già la flotta, in inferiorità numerica, ma meglio armata, puntava loro contro, creando grande scompiglio. L’attacco fu micidiale: alcune navi romane ruppero, con i rostri, le fiancate delle imbarcazioni cartaginesi affondandole. Altre si affiancarono alle navi nemiche rompendo tutti i remi di un lato, rendendole ingovernabili, per poi assaltarle con il “corvo”, una passerella arpionante su cui salivano i fanti. Catapulte lanciavano, come molotov, anfore incendiarie...
Le ricerche subacquee, coordinate oltre che da Tusa da Stefano Zangara, dell’Ufficio progettazione delle ricerche in alto fondale della Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, sono iniziate nel 2006 con il determinante contributo della Rpm Nautical Foundation, una fondazione statunitense che ha messo a disposizione la nave Hercules, dotata delle più moderne strumentazioni per la ricerca subacquea.
Finora hanno portato al ritrovamento di 6 rostri di navi affondate (dopo un primo prelevato illegalmente e sequestrato a un dentista di Trapani). Due sono cartaginesi, e uno reca la scritta in punico: “Possa Baal (principale divinità cartaginese, ndr) fare penetrare questo oggetto nella nave nemica”. Quattro rostri sono invece romani: portano iscrizioni latine che ne certificano la qualità. Infatti, all’epoca, c’era chi imbrogliava fornendo, per risparmiare, leghe di bronzo con quantità eccessiva di piombo. Il bronzo risultava così meno duro, diminuendo l’efficacia del rostro.
Si tratta comunque di una scoperta sensazionale: finora al mondo erano stati ritrovati solo altri 4 rostri di quell’epoca. I Romani, inoltre, erano combattenti motivati: i rematori, con buona pace dei film di Hollywood, non erano schiavi, ma di solito uomini liberi addestrati. Fra i combattenti cartaginesi figuravano invece molti mercenari. E furono sconfitti nel giro di un paio d’ore. Graziati dal vento. Il convoglio cartaginese era composto soprattutto da navi da trasporto (onerarie) per rifornire le truppe di terra in Sicilia, mentre le navi romane erano tutte da guerra. «Il resto della flotta dei Cartaginesi spiegò di nuovo le vele e si ritirò col favore del vento che, per fortuna, inaspettatamente era cambiato proprio nel momento del bisogno» racconta Polibio.
Più di 2 mila anni dopo i ricercatori hanno trovato sul fondale 200 anfore. Sono di fattura greco-italica, in uso fra i Cartaginesi: forse le aveva gettate una delle navi in fuga per alleggerire il suo peso. Fallita la spedizione cartaginese, il comandante Barca, privo di rifornimenti, consegnò ai Romani i domini cartaginesi in Sicilia. L’ammiraglio cartaginese perdente, Annone, tornò in patria rimettendoci letteralmente la testa per la sconfitta.
L’ammiraglio Lutazio, tornato a Roma, ricevette tutti gli onori. E costruì, a memoria dei posteri, un tempio i cui resti sono visibili tuttora a Roma in largo Argentina, di fronte al Teatro Valle.
Ora i Cartaginesi non erano più ombre indistinte, ma uomini dalla pelle scura con elmi di cuoio. Un tonfo, un “crack” prolungato, una violenta cascata salata e i Romani affondarono. Senza sapere che, morti loro, la battaglia sarebbe stata vinta. Senza immaginare che, senza quella vittoria su Cartagine, la storia sarebbe stata diversa. La loro infatti era solo una delle navi romane affondate nella battaglia delle Egadi, al largo di Trapani, scontro navale che chiuse la Prima guerra punica segnando una svolta: da piccola potenza regionale, Roma sarebbe diventata una potenza globale, con mille anni di presenza militare, commerciale e culturale.
Questa battaglia navale, la più grande a memoria d’uomo per numero di partecipanti, circa 200 mila, avvenne la mattina del 10 marzo del 241 a. C.
Oggi, a distanza di oltre duemila anni, se ne sono trovate le tracce.
Il 24 agosto 2011 , in una ricerca coordinata dalla Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, due sub, Gian Michele Iaria e Stefano Ruia, su indicazioni di un Rov hanno recuperato alcuni elmi di quei legionari romani (le ossa non si sono conservate perché affioravano sul fondale). «Ne abbiamo visti spuntare due, poi, in un’area di soli 200 m2, a 75 metri di profondità, c’erano altri 10 elmi» spiega Ruia. «Si capiva che erano romani per la caratteristica punta a “pigna”.
Non molto distante abbiamo rinvenuto un rostro romano, probabilmente della nave su cui erano imbarcati i soldati che portavano quegli elmi».
Una delle prove che si tratta del luogo esatto in cui si svolse la battaglia delle Egadi, a nord-ovest dell’isola di Levanzo, come aveva ipotizzato l’archeologo Sebastiano Tusa.
«La nostra ricerca ha avuto origine alcuni anni fa, quando un subacqueo recentemente scomparso, Vincenzo Paladino, mi raccontò del ritrovamento di circa 300 ceppi di ancore allineati lungo un fondale della costa orientale dell’isola di Levanzo» spiega Tusa, sovrintendente del Mae della Sicilia. «Consultammo gli scritti dello storico greco Polibio, che, a distanza di circa 70 anni, aveva ricostruito la battaglia nelle sue Storie: aveva raccontato come i Romani, guidati dal console Gaio Lutazio Catulo, attaccarono di sorpresa i Cartaginesi. Avevano teso un agguato nascondendosi dietro un promontorio di Levanzo e per la fretta di andare all’attacco avevano tagliato le cime delle ancore: proprio quelle ritrovate da Paladino».
Le fonti storiche riferiscono che la flotta cartaginese era composta da 700 navi, adibite soprattutto al rifornimento e all’incremento delle truppe di terra di stanza sul monte Erice, in Sicilia, comandate da Amilcare Barca. «La Prima guerra punica» continua Tusa «come la Prima guerra mondiale, si stava trascinando da anni con scontri terrestri di posizione, sulle colline fra Trapani e Palermo, dove si avanzava solo di pochi chilometri. I Cartaginesi avevano allora armato una grande flotta, al comando dell’ammiraglio Annone, per portare altri rinforzi e farla finita». I Romani, però, dopo la sconfitta di Tunisi e sfortunati naufragi come quello di Camarina (255 a. C.), grazie a una sottoscrizione di cittadini, avevano armato 200 veloci quinqueremi.
Il comandante cartaginese Annone fece scalo per alcuni giorni a Marettimo (l’antica Hiera), nelle Egadi: all’alba del 10 marzo del 241, visto che il vento era favorevole (vento da ponente) salpò per puntare sulla costa della Sicilia. Ma i Romani, bene informati, fecero arrivare dai porti di Marsala (l’antica Lilibeo) e di Favignana 350 navi.
I Romani si posizionarono dietro la punta di Capogrosso, estremità settentrionale di Levanzo, in agguato. I Cartaginesi li videro quando già la flotta, in inferiorità numerica, ma meglio armata, puntava loro contro, creando grande scompiglio. L’attacco fu micidiale: alcune navi romane ruppero, con i rostri, le fiancate delle imbarcazioni cartaginesi affondandole. Altre si affiancarono alle navi nemiche rompendo tutti i remi di un lato, rendendole ingovernabili, per poi assaltarle con il “corvo”, una passerella arpionante su cui salivano i fanti. Catapulte lanciavano, come molotov, anfore incendiarie...
Le ricerche subacquee, coordinate oltre che da Tusa da Stefano Zangara, dell’Ufficio progettazione delle ricerche in alto fondale della Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, sono iniziate nel 2006 con il determinante contributo della Rpm Nautical Foundation, una fondazione statunitense che ha messo a disposizione la nave Hercules, dotata delle più moderne strumentazioni per la ricerca subacquea.
Finora hanno portato al ritrovamento di 6 rostri di navi affondate (dopo un primo prelevato illegalmente e sequestrato a un dentista di Trapani). Due sono cartaginesi, e uno reca la scritta in punico: “Possa Baal (principale divinità cartaginese, ndr) fare penetrare questo oggetto nella nave nemica”. Quattro rostri sono invece romani: portano iscrizioni latine che ne certificano la qualità. Infatti, all’epoca, c’era chi imbrogliava fornendo, per risparmiare, leghe di bronzo con quantità eccessiva di piombo. Il bronzo risultava così meno duro, diminuendo l’efficacia del rostro.
Si tratta comunque di una scoperta sensazionale: finora al mondo erano stati ritrovati solo altri 4 rostri di quell’epoca. I Romani, inoltre, erano combattenti motivati: i rematori, con buona pace dei film di Hollywood, non erano schiavi, ma di solito uomini liberi addestrati. Fra i combattenti cartaginesi figuravano invece molti mercenari. E furono sconfitti nel giro di un paio d’ore. Graziati dal vento. Il convoglio cartaginese era composto soprattutto da navi da trasporto (onerarie) per rifornire le truppe di terra in Sicilia, mentre le navi romane erano tutte da guerra. «Il resto della flotta dei Cartaginesi spiegò di nuovo le vele e si ritirò col favore del vento che, per fortuna, inaspettatamente era cambiato proprio nel momento del bisogno» racconta Polibio.
Più di 2 mila anni dopo i ricercatori hanno trovato sul fondale 200 anfore. Sono di fattura greco-italica, in uso fra i Cartaginesi: forse le aveva gettate una delle navi in fuga per alleggerire il suo peso. Fallita la spedizione cartaginese, il comandante Barca, privo di rifornimenti, consegnò ai Romani i domini cartaginesi in Sicilia. L’ammiraglio cartaginese perdente, Annone, tornò in patria rimettendoci letteralmente la testa per la sconfitta.
L’ammiraglio Lutazio, tornato a Roma, ricevette tutti gli onori. E costruì, a memoria dei posteri, un tempio i cui resti sono visibili tuttora a Roma in largo Argentina, di fronte al Teatro Valle.
Lo scheletro di Riccardo III ritrovato in un parcheggio
A settembre quasi per caso duranti i lavori in corso, in un parcheggio di Leicester, una pacifica cittadina in quel delle Midlands inglesi orientali (nel periodo dell’Alto Medioevo il regno di Mercia), viene dissotterato uno scheletro molto antico. I resti, e ora è stato provato dal team di ricercatori e archeologi dell’università locale, vengono attribuiti ad un sovrano che bene conosciamo tutti grazie al genio immortale di William Shakespeare.
Sono infatti quelli del famoso e famigerato re Riccardo III, a cui il maestro dedica un’intero capolavoro: The Life and Death of King Richard III, l’ultima della quattro opere teatrali nella tetralogia minore.
Dopo la morte del fratello Edoardo IV, Riccardo governa per poco tempo come reggente. Questo sovrano ha però forti e malefiche ambizioni e aspirando con brama al trono, dichiara illegittimi i nipoti, Edoardo e suo fratello Riccardo di Shrewsbury, duca di York, lasciandoli a marcire nella Torre di Londra.
Durante la ribellione del popolo, Riccardo III viene però ucciso nella battaglia di Bosworth Field, combattuta ad Ambion Hill, vicino alla cittadina di Market Bosworth, per mano delle truppe di Enrico Tudor, quello che diventerà poi niente meno che Enrico VII d’Inghilterra.
La violenta battaglia segna la fine della guerra delle Due Rose e l’ascesa al trono della storica dinastia dei Tudor.
Ora dopo svariati test del DNA, Richard Buckley ha confermato ieri che, senza dubbio lo scheletro ritrovato per caso in un parcheggio nel mese di settembre 2012 è proprio quello del sanguinario Riccardo III, ultimo re d’Inghilterra della dinastia dei Plantageneti, undicesimo figlio del duca di York colpevole dell’omicidio di Enrico VI, di sua moglie e del fratello Giorgio. A confermarlo le analisi avanzate eseguite, che hanno paragonato il dna del malefico sovrano con quello di un suo parente alla lontanissima, il mobiliere canadese residente a Londra, Michael Ibsen, diretto discendente di Anna di York, sorella di Riccardo III
Lo scheletro Riccardo III o meglio quello che ne rimane, verrà reinterrato nella cattedrale di Leicester.
Leggenda narra che il suo corpo insanguinato e martoriato dalle ferite fu trascinato sul dorso di un cavallo, come era d’uso, fino alla limitrofa città, per poi essere sepolto per eterna punizione sotto una lapide anonima a Greyfriars (dove infatti oggi sorge un altrettanto anonimo parcheggio).
Il cranio presenta ancora i segni dell’ultima lotta, ed è evidente la spina dorsale curva a causa della scoliosi, proprio come lo dipinge ed immortala poi nel tempo Shakespeare. Trovata anche l’antica freccia che lo uccise in battaglia ancora conficcata in quello che un tempo fu il petto.
Sono infatti quelli del famoso e famigerato re Riccardo III, a cui il maestro dedica un’intero capolavoro: The Life and Death of King Richard III, l’ultima della quattro opere teatrali nella tetralogia minore.
Dopo la morte del fratello Edoardo IV, Riccardo governa per poco tempo come reggente. Questo sovrano ha però forti e malefiche ambizioni e aspirando con brama al trono, dichiara illegittimi i nipoti, Edoardo e suo fratello Riccardo di Shrewsbury, duca di York, lasciandoli a marcire nella Torre di Londra.
Durante la ribellione del popolo, Riccardo III viene però ucciso nella battaglia di Bosworth Field, combattuta ad Ambion Hill, vicino alla cittadina di Market Bosworth, per mano delle truppe di Enrico Tudor, quello che diventerà poi niente meno che Enrico VII d’Inghilterra.
La violenta battaglia segna la fine della guerra delle Due Rose e l’ascesa al trono della storica dinastia dei Tudor.
Ora dopo svariati test del DNA, Richard Buckley ha confermato ieri che, senza dubbio lo scheletro ritrovato per caso in un parcheggio nel mese di settembre 2012 è proprio quello del sanguinario Riccardo III, ultimo re d’Inghilterra della dinastia dei Plantageneti, undicesimo figlio del duca di York colpevole dell’omicidio di Enrico VI, di sua moglie e del fratello Giorgio. A confermarlo le analisi avanzate eseguite, che hanno paragonato il dna del malefico sovrano con quello di un suo parente alla lontanissima, il mobiliere canadese residente a Londra, Michael Ibsen, diretto discendente di Anna di York, sorella di Riccardo III
Lo scheletro Riccardo III o meglio quello che ne rimane, verrà reinterrato nella cattedrale di Leicester.
Leggenda narra che il suo corpo insanguinato e martoriato dalle ferite fu trascinato sul dorso di un cavallo, come era d’uso, fino alla limitrofa città, per poi essere sepolto per eterna punizione sotto una lapide anonima a Greyfriars (dove infatti oggi sorge un altrettanto anonimo parcheggio).
Il cranio presenta ancora i segni dell’ultima lotta, ed è evidente la spina dorsale curva a causa della scoliosi, proprio come lo dipinge ed immortala poi nel tempo Shakespeare. Trovata anche l’antica freccia che lo uccise in battaglia ancora conficcata in quello che un tempo fu il petto.
Cane salvato grazie alla respirazione bocca a bocca.
La vita di un essere vivente in pericolo è molto importante, sia che si tratti di una persona sia che si tratti di un animale.
E proprio basandosi su questa filosofia che operano diversi soccorritori; cosi alcuni pompieri avrebbero salvato la vita ad un cane, un labrador, che rischiava di morire soffocato dopo essere stato trascinato via da una casa in fiamme.
L’eroico salvataggio è avvenuto nel Wisconsin, in America.
Stando a quanto dichiarato dai valorosi vigili del fuoco, il cane era in stato di shock sopra una sedia, all’interno dell’abitazione, intorno fiamme e fumo.
Non essendo, ovviamente, specializzati in salvataggi di questo tipo, i pompieri hanno usato una maschera d’ossigeno per umani, ma pare che non sia stato abbastanza, per far rinvenire il cane.
Per questo motivo è stato necessario passare al metodo tradizionale e applicare il sistema della respirazione artificiale o bocca a bocca, al cane.
Il cane è stato salvato ed è ritornato dalla sua famiglia, in pensiero per lui.
Roberto Pino Covelli
E proprio basandosi su questa filosofia che operano diversi soccorritori; cosi alcuni pompieri avrebbero salvato la vita ad un cane, un labrador, che rischiava di morire soffocato dopo essere stato trascinato via da una casa in fiamme.
L’eroico salvataggio è avvenuto nel Wisconsin, in America.
Stando a quanto dichiarato dai valorosi vigili del fuoco, il cane era in stato di shock sopra una sedia, all’interno dell’abitazione, intorno fiamme e fumo.
Non essendo, ovviamente, specializzati in salvataggi di questo tipo, i pompieri hanno usato una maschera d’ossigeno per umani, ma pare che non sia stato abbastanza, per far rinvenire il cane.
Per questo motivo è stato necessario passare al metodo tradizionale e applicare il sistema della respirazione artificiale o bocca a bocca, al cane.
Il cane è stato salvato ed è ritornato dalla sua famiglia, in pensiero per lui.
Roberto Pino Covelli
Il Martin Pescatore
Il martin pescatore (Alcedo atthis) è lungo 16/17 cm, con un becco lungo, grosso alla base, ali e coda brevi e piedi piccoli. Nelle parti superiori è blu-verde metallico, in quelle inferiori e sulle guance giallo ruggine, ai lati del collo spicca una macchia bianca.
E' dotato di un volo sempre rapido e uniforme, che gli permette di fendere l'aria in linea retta, mantenendosi in una direzione parallela a quella del livello del liquido e seguendo così le tortuosità del fiume senza mai allontanarsi dall'acqua. A causa dei piccoli piedi si limita a saltellare su qualche pietra o qualche palo, e non cammina mai sul terreno.
E' un uccello poco socievole e vive solitario e non tollera alcun concorrente nel suo territorio di caccia. Specie inconfondibile per i colori brillanti e per l'abitudine di tuffarsi da posatoi posti sui corpi idrici che costituiscono il suo habitat, per catturare piccoli pesci, girini e insetti acquatici.
Si trova ovunque vi sia acqua, come fiumi, torrenti, canali, stagni e laghi (anche in ambiente urbano), dal mare fino a 600 - 700 m. Vive abitualmente in coppia nel territorio che si è scelto come proprio. Nidifica in cavità lungo gli argini dei corsi d'acqua. Fra le cause che ne limitano la diffusione vi è proprio la carenza dei siti adatti alla nidificazione, il cui continuo calo è dovuto alla cementificazione degli argini dei torrenti. Il ben noto Martin pescatore è uno degli uccelli più amati e raffigurati; è inoltre uno dei migliori esempi di specializzazione ed adattamento all'ambiente.
Si nutre di avannotti di pesce che cattura tuffandosi verticalmente in acqua, con straordinaria velocità e precisione; a questo scopo è dotato di una doppia fovea (punto dell'occhio in cui viene focalizzata l'immagine), per compensare la rifrazione ottica dell'acqua, nonché di una palpebra traslucida che si chiude nel momento dell'ingresso in acqua. Caccia abitualmente partendo da un posatoio: nella foto appunto è su di un ramo.
Lo spettacolo di un Martino che sfreccia col suo volo rasente a pochi centimetri dall'acqua e del quale spesso non ci rimane che un'impressione di folgorante azzurro, è uno dei più belli cui possa assistere un amante della natura. La splendida colorazione non ha, ovviamente, una funzione estetica, bensì aiuta l'uccello a delimitare col volo il territorio di cui si impossessa, e a rendersi ben visibile ai suoi simili; nidifica in un tunnel scavato in una scarpata lungo la riva di un fiume o di un ruscello.
Ha un temibile nemico nel gelo invernale; questa specie è infatti di origine asiatica e mal sopporta prolungati periodi di freddo intenso, anche per il ghiacciarsi dei corsi d'acqua in cui si nutre; perciò negli inverni più rigidi può abbandonare le zone abituali (è normalmente di abitudini sedentarie) per raggiungere le coste marine. Il martin pescatore comune o martin pescatore europeo (Alcedo atthis ispida) è la specie più diffusa di martin pescatore, e l'unica presente in Europa. È lungo 15-16 cm e pesa 40-44 grammi circa. È molto diffuso in Europa, Asia e Africa.
Le piume sono sgargianti, di colori tra il blu e il verde, ma sul collo e sulla gola si notano evidenti macchie bianche. Le parti superiori presentano una colorazione che a seconda della rifrazione della luce può risultare blu brillante o verde smeraldo. Il petto,invece, ha una colorazione arancione vivace per i maschi, più castana per le femmine. La testa è abbastanza grande, con un becco lungo, robusto nero; le ali e la coda corti raccolgono il corpo. Le zampette sono piccole e di un rosso intenso. Di solito il maschio ha colori più vivaci della femmina, perché durante il corteggiamento gli servono per conquistarla con le sue sfumature. Lo si osserva spesso posato sui rami o sui paletti presso l'acqua, da dove si tuffa per catturare le sue prede. In genere vola basso, rasente l'acqua, il suo volo è veloce, con un frullo d'ali.
Spesso fa lo "spirito santo". Riesce cioè a rimanere fermo in volo sopra la superficie dell'acqua fino a che, individuata la preda, si getta in picchiata catturandola nel breve lasso di tempo di due o tre secondi. L'habitat ideale per il Martin Pescatore sono i luoghi dove è presente acqua e cibo, ossia pesci, che costituiscono la sua alimentazione. La dieta del Martin Pescatore è infatti quasi esclusivamente a base di pesce. Nonostante la modesta grandezza, il Martin Pescatore riesce a catturare prede anche più grandi del suo corpo. In alcune occasioni, in mancanza delle sue prede preferite, cattura piccoli animali acquatici quali larve, insetti acquatici come le libellule o piccoli granchi, a volte anche molluschi. Quando ha catturato la preda, il Martin Pescatore ritorna sul masso e a colpi di beccate la uccide e la ammorbidisce. Non essendo in grado di mangiare tutto il corpo degli animali, lische e scaglie vengono rigurgitate costituendo i cosiddetti boli. Le coppie tra Martin Pescatore generalmente si formano a partire dal mese di gennaio. Per corteggiare la femmina, il maschio emette dei brevi trilli e durante il volo di parata insegue la femmina. Per conquistare la femmina il maschio mostra il blu brillante sul petto e dona alla propria compagna la preda appena catturata. Prima di passare all'accoppiamento si picchiettano leggermente il becco, esprimendo la loro intesa a formare una nuova famiglia. I piccoli, che di solito nascono tra marzo e agosto, vengono posti in un tunnel sotterraneo lungo le rive alte, con un'apertura di circa 15/17 cm di diametro e lungo da 45 a 130 cm, che protegge i piccoli dalle intemperie e dai predatori. Per vivere in tali condizioni questa specie ha sviluppato una particolare resistenza alla concentrazione di anidride carbonica che nel buco profondo del nido raggiunge il 6% contro lo 0,03% di quella nell'aria.
Lenti ottiche in Egitto
L’Egitto è una terra fantastica, piena di miti favolosi e leggende cariche di simbolismo. Ma anche sotto il profilo tecnologico non aveva molto da invidiare al mondo attuale. Tra le capacità tecniche più impressionanti, c’era la molatura dei durissimi cristalli di quarzo impiegati nella rappresentazione degli occhi nelle statue.
Una statua lignea in buone condizioni mostra ancor oggi la perfetta levigatezza dei cristalli di Quarzo Ialino, che rendevano alla perfezione la trasparenza translucida degli occhi umani. Una simile capacità rendeva possibile la realizzazione di lenti da vista, di microscopi e telescopi e fu forse questo il segreto della grande conoscenza dell’Astronomia da parte degli abitanti della Terra dei Faraoni.
Una tecnologia dimenticata dall’Occidente per oltre 2500 anni e che fu riscoperta solo durante il Rinascimento.
La statua del Faraone Auibra Hor, trovata a Dashur e risalente circa al 1340 BCE, mostra sulla testa il corpo astrale Ka: gli occhi sono lenti molate di durissimo quarzo, un vero e proprio Oopart perché dalla Scienza ufficiale non vengono attribuite agli Egizi simili conoscenze tecniche (che invece, evidentemente, avevano).
Articolo tratto dal sito www.satorws.com
Una statua lignea in buone condizioni mostra ancor oggi la perfetta levigatezza dei cristalli di Quarzo Ialino, che rendevano alla perfezione la trasparenza translucida degli occhi umani. Una simile capacità rendeva possibile la realizzazione di lenti da vista, di microscopi e telescopi e fu forse questo il segreto della grande conoscenza dell’Astronomia da parte degli abitanti della Terra dei Faraoni.
Una tecnologia dimenticata dall’Occidente per oltre 2500 anni e che fu riscoperta solo durante il Rinascimento.
La statua del Faraone Auibra Hor, trovata a Dashur e risalente circa al 1340 BCE, mostra sulla testa il corpo astrale Ka: gli occhi sono lenti molate di durissimo quarzo, un vero e proprio Oopart perché dalla Scienza ufficiale non vengono attribuite agli Egizi simili conoscenze tecniche (che invece, evidentemente, avevano).
Articolo tratto dal sito www.satorws.com
Sfogliatine fatte in casa
Video Ricetta Pasta Sfoglia Facile– Sfogliatine
Ecco una ricetta per fare la pasta tipo pasta foglia, in casa in meno di 30 minuti.
E’ una pasta ottima sia per piatti dolci tipo sfogliatine, biscotti, danish che per piatti salati.
Ingredienti
350 g Farina
220 g Burro Ghiacciato
110 g Acqua Ghiacciata
5 g Sale
Gli imput della natura
Oceano Atlantico
Fotografia di Christopher Swann, Biosphoto
Formando una sfera del diametro di oltre 10 metri, un banco di sugarelli, riuniti per proteggersi dai predatori, creando una forma armonica.
I pesci si sono separati e poi riuniti al largo delle Azzorre, dove li attaccavano delfini, uccelli e squali.
Formando una sfera del diametro di oltre 10 metri, un banco di sugarelli, riuniti per proteggersi dai predatori, creando una forma armonica.
I pesci si sono separati e poi riuniti al largo delle Azzorre, dove li attaccavano delfini, uccelli e squali.
La disgrazia di nascere albini in Tanzania.
Alcuni ritengono che gli albini siano fantasmi che non muoiono.
Per altri, che siano nati in famiglie maledette.
Ma quel che è più sconvolgente, alcuni guaritori realizzano con parti del loro corpo pozioni magiche con cui ottenere salute e prosperità. Un "set" completo di parti di albino - orecchie, lingua, naso, genitali e arti - può valere 75.000 dollari.
Le ragazze stuprate perché si pensa che avere rapporti con loro guarisca dall'AIDS.
Nascere albino in Tanzania può equivalere a una sentenza di morte.
Dal 2006, 71 persone prive di pigmentazione nella pelle, nei capelli e negli occhi sono state uccise, e 29 aggredite.
Si ritiene che questa anomalia genetica abbia avuto origine proprio in questa nazione dell'Africa orientale.
Oggi, ne è portatore 1 su 1.400 tanzaniani, a fronte di una percentuale globale di 1 su 20.000.
Per questa ragione, molti del 17.000 albini che vivono in Tanzania vengono nascosti dal governo.
Quasi sempre hanno il cancro della pelle, responsabile del 98% delle morti fra chi soffre di questa condizione nel paese.
Si sa che gli albini sono molto vulnerabili ai raggi del sole.
L'albinismo divide molte famiglie tanzanesi.
Alcuni bambini albini, vengono allevati esclusivamente dalle madri, abbandonate dai mariti che le accusano di aver avuto rapporti con uomini bianchi.
Il risultato è che spesso gli albini si sposano solo tra loro, il che però aumenta la probabilità di avere figli con questa condizione genetica.
Nonostante gli sforzi del governo tanzanese di educare la popolazione e fermare questo orrore, gli albini sono ancora considerati un bene di valore sul mercato nero. La caccia agli albini si è diffusa nel continente allargandosi a Burundi, Kenya e Swaziland.
Alcuni ambulanti vendono "medicine" al mercato di Mgusu. In Tanzania, dove il reddito pro capite nel 2010 è stato di 442 dollari, l'arto di un albino può essere venduto anche per 2.000 dollari.
Da quando la polizia ha iniziato a proteggere gli albini, i commercianti lamentano che il prezzo delle pozioni è diventato troppo elevato.
Per altri, che siano nati in famiglie maledette.
Ma quel che è più sconvolgente, alcuni guaritori realizzano con parti del loro corpo pozioni magiche con cui ottenere salute e prosperità. Un "set" completo di parti di albino - orecchie, lingua, naso, genitali e arti - può valere 75.000 dollari.
Le ragazze stuprate perché si pensa che avere rapporti con loro guarisca dall'AIDS.
Nascere albino in Tanzania può equivalere a una sentenza di morte.
Dal 2006, 71 persone prive di pigmentazione nella pelle, nei capelli e negli occhi sono state uccise, e 29 aggredite.
Si ritiene che questa anomalia genetica abbia avuto origine proprio in questa nazione dell'Africa orientale.
Oggi, ne è portatore 1 su 1.400 tanzaniani, a fronte di una percentuale globale di 1 su 20.000.
Per questa ragione, molti del 17.000 albini che vivono in Tanzania vengono nascosti dal governo.
Quasi sempre hanno il cancro della pelle, responsabile del 98% delle morti fra chi soffre di questa condizione nel paese.
Si sa che gli albini sono molto vulnerabili ai raggi del sole.
L'albinismo divide molte famiglie tanzanesi.
Alcuni bambini albini, vengono allevati esclusivamente dalle madri, abbandonate dai mariti che le accusano di aver avuto rapporti con uomini bianchi.
Il risultato è che spesso gli albini si sposano solo tra loro, il che però aumenta la probabilità di avere figli con questa condizione genetica.
Nonostante gli sforzi del governo tanzanese di educare la popolazione e fermare questo orrore, gli albini sono ancora considerati un bene di valore sul mercato nero. La caccia agli albini si è diffusa nel continente allargandosi a Burundi, Kenya e Swaziland.
Alcuni ambulanti vendono "medicine" al mercato di Mgusu. In Tanzania, dove il reddito pro capite nel 2010 è stato di 442 dollari, l'arto di un albino può essere venduto anche per 2.000 dollari.
Da quando la polizia ha iniziato a proteggere gli albini, i commercianti lamentano che il prezzo delle pozioni è diventato troppo elevato.
Sfere viola nel deserto cosa sono??
Migliaia di piccole sfere viola sono state trovate nel deserto dell'Arizona
Il loro aspetto è acquoso alcune sono traslucide.
Darlene Buhrow, direttore del marketing del Tucson Botanical Gardens, afferma che potrebbe essere un fungo o una muffa o una melma gelatinosa. Che cosa realmente siano però rimane per il momento un mistero
Il loro aspetto è acquoso alcune sono traslucide.
Darlene Buhrow, direttore del marketing del Tucson Botanical Gardens, afferma che potrebbe essere un fungo o una muffa o una melma gelatinosa. Che cosa realmente siano però rimane per il momento un mistero