mercoledì 6 febbraio 2013

Il ritrovamento di una nave romana

La nave cartaginese con il suo possente rostro puntava dritta su di loro. I rematori della nave romana tiravano al massimo, per evitare lo scontro, ma il fianco della loro nave era già esposto. Sul ponte i legionari avevano lo sguardo fisso.
 Ora i Cartaginesi non erano più ombre indistinte, ma uomini dalla pelle scura con elmi di cuoio. Un tonfo, un “crack” prolungato, una violenta cascata salata e i Romani affondarono. Senza sapere che, morti loro, la battaglia sarebbe stata vinta. Senza immaginare che, senza quella vittoria su Cartagine, la storia sarebbe stata diversa. La loro infatti era solo una delle navi romane affondate nella battaglia delle Egadi, al largo di Trapani, scontro navale che chiuse la Prima guerra punica segnando una svolta: da piccola potenza regionale, Roma sarebbe diventata una potenza globale, con mille anni di presenza militare, commerciale e culturale.
 Questa battaglia navale, la più grande a memoria d’uomo per numero di partecipanti, circa 200 mila, avvenne la mattina del 10 marzo del 241 a. C. 

 Oggi, a distanza di oltre duemila anni, se ne sono trovate le tracce. 
Il 24 agosto 2011 , in una ricerca coordinata dalla Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, due sub, Gian Michele Iaria e Stefano Ruia, su indicazioni di un Rov hanno recuperato alcuni elmi di quei legionari romani (le ossa non si sono conservate perché affioravano sul fondale). «Ne abbiamo visti spuntare due, poi, in un’area di soli 200 m2, a 75 metri di profondità, c’erano altri 10 elmi» spiega Ruia. «Si capiva che erano romani per la caratteristica punta a “pigna”.
 Non molto distante abbiamo rinvenuto un rostro romano, probabilmente della nave su cui erano imbarcati i soldati che portavano quegli elmi».
 Una delle prove che si tratta del luogo esatto in cui si svolse la battaglia delle Egadi, a nord-ovest dell’isola di Levanzo, come aveva ipotizzato l’archeologo Sebastiano Tusa.

 «La nostra ricerca ha avuto origine alcuni anni fa, quando un subacqueo recentemente scomparso, Vincenzo Paladino, mi raccontò del ritrovamento di circa 300 ceppi di ancore allineati lungo un fondale della costa orientale dell’isola di Levanzo» spiega Tusa, sovrintendente del Mae della Sicilia. «Consultammo gli scritti dello storico greco Polibio, che, a distanza di circa 70 anni, aveva ricostruito la battaglia nelle sue Storie: aveva raccontato come i Romani, guidati dal console Gaio Lutazio Catulo, attaccarono di sorpresa i Cartaginesi. Avevano teso un agguato nascondendosi dietro un promontorio di Levanzo e per la fretta di andare all’attacco avevano tagliato le cime delle ancore: proprio quelle ritrovate da Paladino». 

 Le fonti storiche riferiscono che la flotta cartaginese era composta da 700 navi, adibite soprattutto al rifornimento e all’incremento delle truppe di terra di stanza sul monte Erice, in Sicilia, comandate da Amilcare Barca. «La Prima guerra punica» continua Tusa «come la Prima guerra mondiale, si stava trascinando da anni con scontri terrestri di posizione, sulle colline fra Trapani e Palermo, dove si avanzava solo di pochi chilometri. I Cartaginesi avevano allora armato una grande flotta, al comando dell’ammiraglio Annone, per portare altri rinforzi e farla finita». I Romani, però, dopo la sconfitta di Tunisi e sfortunati naufragi come quello di Camarina (255 a. C.), grazie a una sottoscrizione di cittadini, avevano armato 200 veloci quinqueremi.
 Il comandante cartaginese Annone fece scalo per alcuni giorni a Marettimo (l’antica Hiera), nelle Egadi: all’alba del 10 marzo del 241, visto che il vento era favorevole (vento da ponente) salpò per puntare sulla costa della Sicilia. Ma i Romani, bene informati, fecero arrivare dai porti di Marsala (l’antica Lilibeo) e di Favignana 350 navi. 

 I Romani si posizionarono dietro la punta di Capogrosso, estremità settentrionale di Levanzo, in agguato. I Cartaginesi li videro quando già la flotta, in inferiorità numerica, ma meglio armata, puntava loro contro, creando grande scompiglio. L’attacco fu micidiale: alcune navi romane ruppero, con i rostri, le fiancate delle imbarcazioni cartaginesi affondandole. Altre si affiancarono alle navi nemiche rompendo tutti i remi di un lato, rendendole ingovernabili, per poi assaltarle con il “corvo”, una passerella arpionante su cui salivano i fanti. Catapulte lanciavano, come molotov, anfore incendiarie... 

 Le ricerche subacquee, coordinate oltre che da Tusa da Stefano Zangara, dell’Ufficio progettazione delle ricerche in alto fondale della Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, sono iniziate nel 2006 con il determinante contributo della Rpm Nautical Foundation, una fondazione statunitense che ha messo a disposizione la nave Hercules, dotata delle più moderne strumentazioni per la ricerca subacquea.
 Finora hanno portato al ritrovamento di 6 rostri di navi affondate (dopo un primo prelevato illegalmente e sequestrato a un dentista di Trapani). Due sono cartaginesi, e uno reca la scritta in punico: “Possa Baal (principale divinità cartaginese, ndr) fare penetrare questo oggetto nella nave nemica”. Quattro rostri sono invece romani: portano iscrizioni latine che ne certificano la qualità. Infatti, all’epoca, c’era chi imbrogliava fornendo, per risparmiare, leghe di bronzo con quantità eccessiva di piombo. Il bronzo risultava così meno duro, diminuendo l’efficacia del rostro.
 Si tratta comunque di una scoperta sensazionale: finora al mondo erano stati ritrovati solo altri 4 rostri di quell’epoca. I Romani, inoltre, erano combattenti motivati: i rematori, con buona pace dei film di Hollywood, non erano schiavi, ma di solito uomini liberi addestrati. Fra i combattenti cartaginesi figuravano invece molti mercenari. E furono sconfitti nel giro di un paio d’ore. Graziati dal vento. Il convoglio cartaginese era composto soprattutto da navi da trasporto (onerarie) per rifornire le truppe di terra in Sicilia, mentre le navi romane erano tutte da guerra. «Il resto della flotta dei Cartaginesi spiegò di nuovo le vele e si ritirò col favore del vento che, per fortuna, inaspettatamente era cambiato proprio nel momento del bisogno» racconta Polibio.
 Più di 2 mila anni dopo i ricercatori hanno trovato sul fondale 200 anfore. Sono di fattura greco-italica, in uso fra i Cartaginesi: forse le aveva gettate una delle navi in fuga per alleggerire il suo peso. Fallita la spedizione cartaginese, il comandante Barca, privo di rifornimenti, consegnò ai Romani i domini cartaginesi in Sicilia. L’ammiraglio cartaginese perdente, Annone, tornò in patria rimettendoci letteralmente la testa per la sconfitta.

 L’ammiraglio Lutazio, tornato a Roma, ricevette tutti gli onori. E costruì, a memoria dei posteri, un tempio i cui resti sono visibili tuttora a Roma in largo Argentina, di fronte al Teatro Valle.

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