martedì 17 giugno 2014
Il frutto dell'albero del pane potrebbe sfamare gli abitanti delle aree più povere del mondo
Sentiamo spesso parlare di supercibi o superfood, cioè di alimenti particolarmente ricchi di sostanze nutritive fondamentali e di proprietà benefiche per la salute.
Ora l'attenzione è puntata sul frutto dell'albero del pane.
L'albero del pane, conosciuto anche con il nome di Ulu, fa parte della famiglia delle Moracee, piante che crescono spontanee nell'Asia tropicale e in Oceania.
Il frutto dell'albero del pane (Artocarpus altilis) presenta una scorza di colore verde chiaro e un polpa interna quasi completamente bianca.
Il suo diametro è di almeno 10 centimetri, la forma è tonda o leggermente allungata.
Il suo nome deriva dal sapore, che non ricorderebbe per nulla quello di un frutto, ma che sarebbe più vicino al gusto del pane appena sfornato o delle patate.
L'albero del pane cresce in alcune aree tropicali del mondo, che comprendono le Hawaii, Samoa e i Caraibi.
Si tratta di un alimento ricco di carboidrati e povero di grassi. Conterrebbe da solo più potassio di 10 banane.
Per le sue caratteristiche nutrizionali il frutto dell'albero del pane rappresenta un alimento base per le popolazioni locali, soprattutto nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo.
Il frutto dell'albero del pane sfamerà il mondo?
Ad ipotizzarlo è il National Tropical Botanical Garden, secondo cui più dell'80% della popolazione mondiale che soffre la fame vive in regioni tropicali o subtropicali, l'ambiente perfetto per la coltivazione e la crescita dell'albero del pane.
Questi alberi sarebbero molto facili da coltivare e garantirebbero raccolti carichi di frutti per decenni.
E' bene inoltre ricordare che la coltivazione di nuovi alberi, soprattutto se condotta in modo sostenibile, rappresenta la creazione di nuovi polmoni verdi per il nostro Pianeta.
Sarebbe dunque più vantaggioso dal punto di vista ambientale nutrire i popoli grazie a frutti che crescono sugli alberi, piuttosto che espandere i terreni da destinare all'agricoltura intensiva con l'abbattimento di boschi e foreste.
Organizzazioni come Global Breadfruit e Breadfruit Institute hanno dunque iniziato a dedicare un ampio progetto alla coltivazione dell'albero del pane nelle aree del mondo in cui la necessità di sfamare la popolazione risulta maggiore.
Ogni volta che un albero del pane viene piantato, si garantisce una nuova possibilità di procurarsi del cibo.
Il Breadfruit Institute ha lavorato per riprodurre nuove piante a partire dagli alberi del pane delle Hawaii, che verranno destinate alle aree più povere del mondo.
L'operazione ha già avuto inizio ad Haiti, dove i nuovi alberi del pane stanno sfamando almeno 1000 bambini al giorno, grazie all'operato di Trees That Feed Foundation.
L'alimento che per secoli ha rappresentato la base dell'alimentazione degli abitanti delle Hawaii e della Polinesia ora potrebbe contribuire a sfamare i più poveri in modo sostenibile.
L'albero del pane è un vero e proprio dono della Terra, come ricorda un'antica leggenda hawaiana, secondo cui una divinità di nome Ku aveva salvato la propria famiglia dal morire di fame sotterrandosi e rinascendo come albero carico di frutti.
Marta Albè
LES EYZIES DE TAYAC Francia
Siamo nel cuore della preistoria, dentro alla Valle del Vézère, circondata da boschi antichi e grotte misteriose dove ritrovare testimonianze di un passato antico e affascinante.
La piccola cittadina di Les Ezyes-de-Tayac è un'ottima base per visitare le tante meraviglie dei dintorni ma anche per passeggiare lungo la strada principale piena di negozietti traboccanti di pietre e fossili e su cui si affacciano le affascinanti case incastrate nella roccia del famoso Museo della preistoria.
Nel paleolitico il computo del tempo era scandito dalle fasi lunari, in particolar modo dai "pleniluni", molto importanti per la luminosità dell'astro. Questo vistoso mutamento dell'aspetto della Luna veniva già registrato intorno al 30.000 a.C. su un osso lavorato ritrovato nella regione di Les Eyzies de Tayac, nel Perigord francese.
Ci sono gli ossi, poi, decorati con tacche trasversali, segni interpretati da alcuni archeologi come dei "giochi aritmetici" ma che non hanno avuto a tutt'oggi una chiara e definitiva spiegazione. Un'ipotesi assai accreditata vedrebbe questi segni non come semplici decorazioni ma come particolari "tacche per conteggi". Secondo Alexander Marshack, ricercatore associato del Peabody Museum dell'Università di Harvard, si tratterebbe delle prime testimonianze di registrazioni del mutamento dell'aspetto della Luna.
Questa ipotesi pone in evidenza un probabile conteggio dei giorni che compongono le lunazioni (mese sinodico).
Questo, probabilmente, perché tale periodo si prestava abbastanza bene a scandire le uscite per la caccia o per altre attività confortate dalla luce della luna piena.
In età antica, pare che fosse in uso incidere su osso le prime osservazioni astronomiche.
Esse sono diffuse in tutto il mondo
“La corruzione in Italia non è più un reato”
L’esperto Alberto Vannucci.
In Italia i colletti bianchi sono solo lo 0,4 per cento dei detenuti, a fronte di una media europea dieci volte superiore, anche se da noi le tangenti sono molto più comuni che nel resto della UE.
Ma se ci concentriamo solo sulle mazzette, i dati sono ancora più incredibili: in tutto il Paese, i condannati che si trovano in carcere per corruzione sono meno di dieci”.
La fotografia del professor Alberto Vannucci, che dirige il Master in Analisi e prevenzione della corruzione all’università di Pisa, racconta una realtà dove lo scandalo del Mose non dovrebbe creare alcuno scalpore:
“È lo stupore che mi stupisce.
Mose, Expo 2015, G8 alla Maddalena, mondiali di nuoto e così via avevano tutti un epilogo scontato, come ogni grande opera realizzata con quei criteri.
Non potrebbe essere altrimenti”.
È rassegnato professore?
Il problema è che la corruzione, di fatto, è stata depenalizzata. Addirittura?
Sono stati scientificamente introdotti meccanismi che hanno reso il lavoro dei magistrati sempre più difficile.
Poi c’è l’ultima legge delega del governo, ennesimo salvacondotto per i colletti bianchi.
Se prima erano quasi certi di farla franca, ora ne avranno la matematica certezza.
E manterranno pure la fedina penale pulita.
Per sfuggire al processo, però, bisognerà risarcire i danni provocati. Le assicuro che resta comunque molto conveniente: le somme di denaro che s’intascano sono davvero ingenti.
Provvedimenti come l’abolizione del falso in bilancio, la salva-Previti, le altre varie leggi ad personam, e quest’ultima legge delega sono criminogene.
Eppure Renzi promette interventi rigorosi per contrastare questo fenomeno, che tra l’altro costa all’Italia 60 miliardi di euro ogni anno.
È una contraddizione tipica della politica italiana.
È difficile capire se questa legge delega, coi suoi sconti di pena e i suoi regali ai colletti bianchi, è frutto di superficialità, incapacità, o peggio di malafede.
Del resto il premier è legato a una maggioranza eterogenea, che da sempre, in alcune sue componenti, è molto sensibile a queste istanze.
La maledizione delle grandi intese.
Per le cricche direi che è una benedizione.
Comunque l’armonia bipartisan, nell’avallare questo sistema di corruzione ormai endemico, è diffusa.
Il Mose è l’esempio perfetto: sono finiti nei guai, tra gli altri, un sindaco di sinistra e un ex presidente di regione di destra.
E parliamo di un’opera interminabile, che ha già sforato di parecchi anni i tempi previsti, triplicando i costi, ponendo al centro questa figura – unica in Europa – del concessionario unico.
Soggetto potentissimo che tiene tanti a libro paga, tra cui politici a sua completa disposizione.
La corruzione sa trasformarsi e adattarsi in modo duttile a contesti diversi, non è una realtà omogenea.
Expo e Mose, per esempio, sono casi completamente diversi. Com’è possibile che, nonostante i continui scandali, sia ancora così semplice sfuggire ai controlli?
C’è una governance multi-livello della corruzione che coinvolge dall’amministratore locale ai vertici delle istituzioni.
È un sistema ben consolidato e mai scalfito, che dagli anni Ottanta si appella all’emergenza per fare tutto in deroga, garantendo così una perenne mangiatoia di Stato.
Si sono appellati all’emergenza persino per i festeggiamenti dei 500 anni dalla scoperta dell’America, prevedibili da 5 secoli.
C’è anche un problema di burocrazia ?
Certo. Se vuoi rispettare le leggi vai incontro all’incapacità della Pubblica amministrazione, all’inefficienza delle procedure, alla cattiva allocazione delle risorse.
Per questo l’emergenza è diventata, da noi, la norma: si accumulano scientificamente ritardi, come per Expo 2015, così da procedere in deroga.
Cosa si può fare? Riformare il sistema aiuta, ma il problema, come dice il commissario Cantone, è soprattutto culturale.
Questo non dev’essere però un alibi per autoassolversi.
Bisogna investire con lungimiranza sull’istruzione e recuperare l’effetto deterrente delle condanne: i corrotti devono pagare e la società deve riconoscere la gravità di certi reati.
La sanzione, insomma, dev’essere anche sociale.
Ma essere ottimisti è difficile: il secondo più votato alle Europee, con voto di preferenza, è proprio un condannato in primo grado per corruzione.
Da Il Fatto Quotidiano del 07/06/2014
I più antichi pantaloni della storia hanno 3.000 anni
Ha dell’incredibile l’eccezionale scoperta effettuata nella regione cinese dello Xinjiang, in una delle tombe di Yanghai nel bacino di Tarim, dove sono stati rinvenuti un paio di pantaloni perfettamente conservati grazie al clima secco della zona, che risalgono a ben 3000-3300 anni fa.
A divulgare la notizia e farci vedere le prime immagini sono stati un equipe di archeologici del German Archaeological Institute di Berlino.
La tesi portata avanti dagli studiosi è quella secondo cui a inventare questa prezioso indumento siano stati i pastori e guerrieri nomadi, che si spostavano a cavallo e avevano bisogno di estrema comodità. A supportare questo concetto è il fatto che nella stessa tomba dei pantaloni sono state rinvenute anche briglie e armi tipiche dei guerrieri a cavallo.
Gli antichi pantaloni sono fatti di tre diversi pezzi di stoffa cuciti l'uno all'altro, uno per ogni gamba e uno per il cavallo: quest'ultimo è realizzato con un tessuto diverso e più resistente, con pieghe lasciate appositamente un po' lasse (per facilitare la salita in sella e non stringere durante la cavalcata) come alcuni pantaloni che vanno di moda oggi.
I calzoni - ipotizzano gli archeologi - dovevano risultare abbastanza scomodi una volta scesi dal destriero. Ma erano comunque, per l'epoca, finemente decorati con motivi geometrici su entrambe le gambe.
«Tendiamo a sottostimare i tentativi ornamentali di migliaia di anni fa, perché raramente se ne conserva traccia» spiega Wagner «ma anche all'epoca i vestiti si distinguevano anche per stile e aspetto estetico, e non solo per comodità».
Fonti :
direttanews.it
Focus.it