venerdì 5 aprile 2013
Umberto Nobile e la tenda rossa
Il 15 aprile 1928 il dirigibile Italia partì dall'aerodromo milanese di Baggio e con un volo di circa 6000 km, facendo tappa a Stolp (Pomerania) e Vadsö (Norvegia), giunse alla Baia del Re nelle isole Svalbard il 6 maggio.
La Baia del Re era il punto di partenza di quasi tutte le spedizioni aeree per raggiungere il Polo, un'impresa estremamente rischiosa che era fino ad allora riuscita solo al dirigibile Norge nel 1926. Umberto Nobile, il comandante dell'Italia era stato sul Norge al tempo della conquista del Polo, e intendeva ripetere l'impresa al fine di portare a termine importanti ricerche scientifiche che sul Norge non era stato possibile compiere.
Alle 4.28 del 23 maggio 1928 l'Italia si alzò in volo con sedici persone a bordo e, nonostante una violenta perturbazione, raggiunse il Polo Nord alla mezzanotte fra il 23 e il 24 maggio.
Fu impossibile attuare la discesa sui ghiacci, a causa del forte vento. Alle 2.20 Nobile ordinò che si prendesse la via del ritorno. L'avvistamento delle isole Svalbard era previsto per le prime ore del mattino del 25 maggio, ma la forza del vento aveva portato spesso l'aeronave fuori rotta, rallentandone la marcia. Alle 10.30 il capo motorista Cecioni diede l'allarme: l'Italia stava perdendo rapidamente quota. Tre minuti più tardi, per cause che restano tuttora sconosciute, il dirigibile si schiantava sul pack, a quasi 100 km dalle isole Svalbard.
Dieci uomini caddero dalla navicella di comando sui ghiacci. Il meccanico Pomella fu trovato morto dai superstiti subito dopo la caduta; Nobile e Cecioni subirono fratture agli arti. L'aeronave si risollevò lentamente scomparendo nella fitta nebbia: della sua sorte e di quella dei sei uomini rimasti a bordo non si ebbero più notizie. Probabilmente l'Italia andò alla deriva, inabissandosi nel Mare di Barents.
L'impatto aveva riversato un po' ovunque anche numerose attrezzature di bordo. Fu rinvenuta una parte dei viveri, ma soprattutto la tenda preparata per la discesa sul Polo e la radio di soccorso Ondina 33.
La tenda, colorata di rosso con l'anilina che doveva servire per le rilevazioni altimetriche, diventò un indispensabile rifugio per i naufraghi e un punto di riferimento per i soccorsi. Il radiotelegrafista Biagi montò subito l'antenna della radio e attivò l'apparecchio.
Il 30 maggio, dopo cinque giorni di infruttuose trasmissioni (la nave appoggio Città di Milano non riuscì a captare i messaggi di aiuto), Mariano, Zappi e Malmgren lasciarono la tenda per una marcia disperata verso la terraferma.
Quattro giorni dopo, il 3 giugno, un radioamatore russo di nome Schmidt intercettò l'SOS dei naufraghi.
La notizia del naufragio dell'Italia si diffuse in tutto il mondo. Navi e aerei di molti paesi si lanciarono in appassionate operazioni di ricerca, molto rischiose: il 18 giugno Amundsen, il celebre esploratore norvegese, precipitò nel mare di Barents con il proprio idrovolante, trovandovi la morte con cinque compagni, come lui impegnati nella ricerca degli uomini dell'Italia.
Finalmente il 12 luglio il rompighiaccio sovietico Krassin riuscì a portare in salvo gli ultimi superstiti del dirigibile, che erano riusciti a resistere per 48 giorni sui ghiacci col solo aiuto della minuscola tenda rossa, tenda che oggi e' conservata al Museo della Scienza di Milano.
Antiche civiltà scomparse
Le rovine della città di Mohenjo-Daro che, insieme con Harappa, costituì il nucleo vitale dell'antica civiltà della Valle dell'Indo |
Le civiltà della Valle dell'Indo vengono fatte risalire dai testi tradizionalisti a circa 2500 anni prima della nostra era, ma la datazione è senza dubbio errata, come hanno potuto stabilire di recente, con ricerche più approfondite, studiosi pakistani, britannici, sovietici, statunitensi e tedeschi, concordi nell'affermare che la città di Mohenjo-Daro (le cui rovine si trovano nel Pakistan meridionale, tra Larkana e Kandiaro) era già sicuramente fiorente 5-6 mila anni or sono.Ce lo provano, tra l'altro, i chicchi di grano rinvenuti tra i ruderi. L'età è stata stabilita e piantati, ci hanno dato, a distanza di tanti millenni, una sorta di frumento a noi assolutamente sconosciuta.
Il potere nutritivo molto superiore a quello delle varietà che vengono attualmente coltivate.
Anche attraverso questo piccolo prodigio il pubblico è giunto a conoscere la città di Mohenjo-Daro, senza sapere che la scoperta delle sue rovine ha colmato una notevole lacuna archeologica, aprendo, nello stesso tempo, molti altri appassionanti interrogativi. Fino a poco più di mezzo secolo fa gli studiosi delle civiltà indiane si trovavano di fronte a una curiosa situazione: disponevano, cioè, di un testo a carattere filosofico-religioso, riferibile a un popolo di alta cultura e stilato circa quattromila anni or sono e secondo alcuni anche prima (il Rgveda, o 'Veda degli inni'), mentre non erano riusciti a rintracciare una sola opera d'arte, una sola costruzione anteriore al III secolo prima di Cristo.
Fra questo periodo, posto già sotto l'influsso dell'arte persiana e greca, e il favoloso tempo del Rgveda non c'era che un grande punto interrogativo, reso ancora più sibillino da pochi, frammentari ritrovamenti: resti di mura, armi e suppellettili di bronzo, uno stranissimo sigillo con la rappresentazione di un ignoto animale cornuto e alcune parole in caratteri indecifrabili affiorato ad Harappa, nella cosiddetta 'Terra dei cinque fiumi', circa 200 chilometri a sudovest di Labore.
Solo nel 1921 l'archeologo indiano Daya Harappa, con alcuni indovinati scavi condotti nel luogo che ora porta il suo nome, mise alla luce i resti di una città antichissima, i cui abitanti non conoscevano il ferro, servendosi (almeno a quanto risulta dai rinvenimenti) soltanto di strumenti di pietra e bronzo, ma Carta della Valle dell'Indo, dove fiorì circa 4000 anni fa una civiltà giudicata tra le più importanti del mondo dopo quella Cinese, Egizia e Mesopotamica Avevano evidentemente raggiunto un alto grado di cultura, com'è dimostrato dai ruderi di una solida costruzione a cono tronco (si pensa a un silo) e da un torso maschile la cui perfezione è tale da sbalordire.
Un anno dopo, altri archeologi indiani ricevettero l'incarico di disseppellire le rovine di un tempio buddista del II secolo d. C. su un'isoletta del fiume Indo, a 700 chilometri da Harappa, una formazione collinosa che gli indigeni chiamano Mohenjo-Daro, 'la collina dei morti'.
Gli studiosi fecero effettuare i lavori del caso e, con loro grande sorpresa, videro affiorare sotto le mura del tempio un edificio ancora più antico, che rivelò poi particolari comuni a quelli della misteriosa 'civiltà di Harappa'.
L'opera venne continuata dal governo pakistano e, condotta a termine, rivelò un'intera città di estensione notevole, dalle strade regolarissime, tutte disposte in senso nord-sud ed est-ovest. Questa città dev'essere stata abitata per millenni da un popolo di agricoltori e coloro che vi risiedettero debbono averla ricostruita chissà quante volte, facendola rinascere come una fenice dalle distruzioni operate forse dalla guerra, forse dalle inondazioni, forse da altri sconvolgimenti naturali.
Organizzata secondo una geometria perfetta, la città comprendeva abitazioni, negozi ed edifici pubblici.
Finora sono state scoperte sette città sotto le rovine di quella cui abbiamo accennato, la meno antica.
E altre ancora si rinverrebbero, probabilmente, se si potessero continuare gli scavi, cosa impossibile, perché si è ormai giunti all'attuale livello dell'acqua.
Un particolare che ha subito colpito gli studiosi e in cui si rispecchia certo la struttura sociale dell'ignoto popolo di Harappa e di Mohenjo-Daro è rappresentato dall'assoluta assenza, in quest'ultimo centro, di costruzioni adibite a tempio o a reggia, come, di contro, si trovano in tutti gli agglomerati indiani delle antiche civiltà che ci sono note.
Quello che perde in pompa, Mohenjo-Daro lo acquista in razionalità, tanto che solo oggi possiamo trovare centri paragonabili ai ruderi di quello pakistano.
La costruzione più notevole è una piscina, un tempo coperta, con un bacino lungo 12 metri e largo 7, cui si accostano un bagno di vapore e un sistema di riscaldamento ad aria calda.
La strada principale corre da nord a sud, ha una lunghezza di circa un chilometro (nei limiti, naturalmente, dell'ampiezza propria agli scavi effettuati) e una larghezza di 10 metri.
Tutte le case sono costruite con mattoni simili ai nostri, a uno, due, forse tre piani, secondo una tecnica perfezionatissima: ogni abitazione possedeva il proprio impianto di acqua corrente, il proprio bagno, i propri servizi igienici, non solo al pianterreno, ma anche ai piani superiori, come dimostrano chiaramente le tubature. Il sistema di canalizzazione cittadino, poi, è tale che basta il giudizio degli esperti inglesi a definirlo: "Noi, oggi, non potremmo fare meglio!".
Sotto ogni via corrono tubazioni e cloache, destinate, queste ultime, a raccogliere i rifiuti e l'acqua piovana, che deve essere stata assai copiosa.
"Molti segni", scrive un archeologo tedesco, "ci lasciano dedurre che ai tempi in cui Mohenjo-Daro era all'apice della sua fortuna, regnava in queste regioni un clima assai più freddo e umido dell'attuale.
Qui nel Sind, ad esempio, si usano ora quasi del tutto mattoni seccati all'aria, i quali rendono l'ambiente più fresco di quelli cotti. Inoltre, in questa zona arida e diboscata, non sarebbe possibile mettere insieme una quantità di legna tale quale è stata usata per cuocere l'imponente numero di mattoni impiegati a Mohenjo-Daro". In un finissimo vaso d'argento, che evidentemente fungeva da scrigno, era conservato un piccolo tesoro costituito da gemme, anelli, braccialetti, collane d'oro, d'argento e d'avorio.
Un altro recipiente del genere conteneva i resti di un bel tessuto di cotone, i più antichi sinora scoperti.
Com'è noto, troviamo le prime tracce della preziosa pianta tessile presso gli antichi americani mentre nel bacino del Mediterraneo fa la sua comparsa soltanto ai tempi di Alessandro il Grande (intorno al 300 a. C.); tuttavia il reperto di Mohenjo-Daro ci indica che la coltivazione del cotone doveva già essere diffusa nella Valle dell'Indo nei millenni prima di Cristo.
Come abbiamo detto, pare che gli abitanti di Harappa non conoscessero il ferro. Forse dovremmo scrivere "non lo conoscessero più", come sostengono alcuni, parlandoci di una catastrofe immane che si sarebbe abbattuta sulla zona.
A metà strada fra Harappa e Mohenjo-Daro, là dove l'Indo riceve il Panjnad, infatti, sarebbero stati rinvenuti antichissimi oggetti metallici, fra cui un dado di ferro e una tazza di alluminio.
La famosa 'colonna di Kitub' a Delhi (la cui età non ha potuto ancora essere stabilita, sebbene si sappia essere superiore ai 4000 anni) è composta, ad esempio, di pezzi di ferro saldati o tenuti insieme in chissà quale altro modo, che, sebbene esposti a un clima caldo e umido e a tutte le intemperie, non danno segno di ruggine. Si tratta di ferro puro, che noi possiamo oggi produrre, mediante elettrolisi, solo in piccolissima quantità!
Due enti scientifici statunitensi, del resto, lo 'Smithsonian Institute' e il 'Bureau of Standards', hanno portato alla luce oggetti sulla base dei quali si può affermare con certezza che 7000 anni fa alcuni popoli producevano acciaio in forni aventi una temperatura di 9000 gradi.
E non dimentichiamo che monete precristiane, come quelle coniate da Eutidemo II (222-187 a. C.), rè della Battriana, una terra ora appartenente all'Afghanistan, contengono chiare tracce di nichelio, un metallo che può venire estratto dai suoi minerali solo con complessi procedimenti.
Nella tomba del generale cinese Chou C hi i (vissuto fra il 265 e il 316 d. C.) venne poi trovata, fra altri oggetti, una curiosa cintura che, sottoposta nel 1958 ad accurate analisi presso l'Istituto di fisica applicata dell'Accademia delle Scienze cinese, risultò composta per 1'85 per cento di alluminio, per il 10 per cento di rame e per il 5 per cento di manganese.
Scoperte nel deserto egiziano due grandi statue di leoni
Il deserto egiziano ha restituito due monumentali statue di epoca greco-romana raffiguranti leoni. La scoperta e' avvenuta durante la recente campagna organizzata dal Centro Studi Papirologici dell'Universita' di Lecce sotto la direzione di Mario Capasso (cattedra di papirologia) e Paola Davoli (cattedra di egittologia) nell'oasi del Fayyum nel sito di Dime es-Seba, a nord del lago Qarun. In epoca antica la località si chiamava Soknopaiou Nesos, ovvero 'isola del dio Soknopaios', probabilmente a causa della particolare conformazione dell'insediamento che si erge su un pianoro rialzato.
La notizia della scoperta e' stata pubblicata dalla rivista ''Archeologia Viva''.
Le ultime ricerche si sono concentrate nell'area esterna di un tempio, già posto interamente in luce dall'equipe italiana, e hanno portato al rinvenimento di due statue architettoniche quasi completamente integre in calcare locale (conchiglifero), raffiguranti la parte anteriore di leoni. Le due fiere presentano dimensioni e lineamenti diversi, probabilmente perché realizzati da maestranze differenti. In un caso la rappresentazione e' più naturalistica mentre nell'altro e' piu' stilizzata. Le parti posteriori sono state lasciate grezze poiché le statue dovevano essere inserite nel muro del tempio. Esse infatti decoravano la parte esterna aggettante di due grondaie, in modo analogo a quanto avviene nel più noto tempio di Dendera, in Alto Egitto, dedicato ad Hathor, dove la gronda si trova pero' tra le zampe del leone e non sotto come in questo caso.
Usi e costumi nel mondo
E' giusto avere qualche conoscenza dei costumi dei diversi popoli,
per poter meglio giudicare dei nostri e per non ritenere
che tutto ciò che non è conforme alle nostre usanze sia ridicolo e contrario alla ragione,
come sono soliti fare coloro che non hanno mai visto nulla.
Cartesio
I cavalli
I progenitori del cavallo sono apparsi sulla Terra circa 55 milioni di anni fa; i biologi evoluzionistici, infatti, hanno una buona conoscenza del processo evolutivo che ha portato alla specie attuale, dato che si sono trovati vari resti.
Gli studi sui fossili dimostrano che il probabile progenitore dell'odierno cavallo era il Hyracotherium, d'altezza non superiore a 30–40 cm al garrese e con arti di almeno 4 dita; il suo habitat naturale era la foresta ed aveva una dentatura tipica degli onnivori. Durante il processo evolutivo, i suoi discendenti si adattarono progressivamente alla condizione di erbivori stretti e alla vita nelle praterie.
La statura aumentava, gli arti diventavano più lunghi, diminuiva il numero delle dita e i denti si modificavano progressivamente aumentando in lunghezza e nei caratteri della superficie masticatoria.
Il cavallo odierno, Equus caballus, e gli altri appartenenti del genere Equus poggiano sull'unico dito rimasto loro: il medio.
In America, il cavallo si estinse in epoca preistorica, contemporaneamente ad altri grandi mammiferi; fra le ipotesi per tali estinzioni.
Il disturbo antropico costituito dalla caccia da parte dell'uomo. Cavalli in gruppo.
Sopravvissuto in Europa e Asia, la prima evidenza storica dell'addomesticamento del cavallo si ha in Asia Centrale verso il 3000 a.C.
Infatti in Asia centrale e meridionale il cavallo fu addomesticato dagli allevatori di stirpe mongola, che in seguito daranno vita all'Impero mongolo proprio grazie alla forza e all'astuzia dell'esercito di guerrieri a cavallo.
Secondo altri studiosi, l'addomesticamento risale a 6000 anni fa nell'Età del rame presso la cultura di Srednij Stog fiorente in Ucraina.
Un progenitore dei cavalli attuali è considerato il tarpan, un cavallo selvatico europeo ufficialmente estinto tra il 1918 e 1919.
Cimitero degli elefanti: un mistero ancora irrisolto
Da anni si sente parlare di cimiteri degli elefanti, ossia di luoghi dove i pachidermi andrebbero a morire quasi guidati da uno strano senso di appartenenza al territorio in cui sono nati. Sono stati anche scritti diversi libri in materia, con materiale fotografico e di altro genere raccolto per testimoniare dove si trovino questi misteriosi luoghi, ma nessuno è ancora riuscito a convincere gli zoologi con prove inconfutabili.
Di sicuro questi enormi mammiferi, che dominano la savana africana senza temere i feroci branchi di leoni e di iene, hanno un rapporto particolarissimo con la morte e sembrano vegliare i loro simili gravemente feriti fino al momento del trapasso.
Le prime voci sui cimiteri degli elefanti provengono dalle tribù autoctone di cacciatori, come i Masai in Kenia e Tanzania. Raccontavano che tutti gli elefanti, quando era giunta la loro ora, tornavano nel luogo in cui erano nati per morire e che questi luoghi impervi fossero gli stessi da secoli. Tanti furono allora cacciatori o avventurieri che si lanciarono nella ricerca dei presunti cimiteri, alcuni per curiosità, altri bramando di trovare una miniera di avorio da trafficare.
Ma mai nessuno è riuscito a scovare questi luoghi o, se lo ha fatto, non se ne ha notizia.
E’ stato invece provato e accertato lo stranissimo rapporto con la morte di questi pachidermi: gli elefanti si stringono sempre intorno ai compagni morenti, sforzandosi di sostenerli fino alla fine, quasi volessero prolungare ancora la sua vita. Inoltre quasi sempre, quando un elefante muore, gli altri ne ricoprono il corpo con foglie e rami, come se volessero dargli una degna sepoltura. Quest’ultimo comportamento è stato spiegato da alcuni etologi come una semplice strategia evolutiva per evitare il diffondersi di virus e malattie attraverso l’esposizione dei cadaveri all’aria aperta. Gli elefanti sono i mammiferi più grandi della terra e il loro unico nemico naturale è l’uomo, così come avviene per i mammiferi più grandi degli oceani, le balene.
La ricercatrice Rennie Bere, nel suo libro ‘The African Elephant’, ha descritto l’episodio di una femmina di elefante che si rifiutò di abbandonare il cadavere del suo piccolo, trasportandolo per giorni sulle proprie zanne. Uno dei sovraintendenti parco nazionale di Aberdares. Bill Woodley, raccontò di aver osservato elefanti difendere per tre giorni un loro compagno ucciso dai bracconieri.
Le località dei cimiteri degli elefanti rimangono quindi un segreto, e forse è meglio così, per conservare intatto un comportamento tanto misterioso quanto quasi umano. Oltre che negli elefanti, comportamenti di solidarietà verso i propri simili feriti o morenti sono stati infatti registrati anche in altri animali più comuni, come cani e gatti. Possiamo quindi abbandonare una visione troppo antropocentrica e ammettere che anche i nostri amici a quattro zampe mostrano dei sentimenti pari, se non superiori, ai nostri
I musei delle cere
The Grévin Museum è un museo delle cere a Parigi situato sulla Grand Boulevards sulla riva destra della Senna .
Il museo Grevin è il palazzo delle illusioni!
Mescolando lo stile Luigi XIV ed il rococo veneziano, l'ospite può contemplare quasi 450 personaggi in cera: star del rock o del cinema, personalità politiche o scientifiche
Da Einstein a Hitchcock passando per Mahatma Gandhi, la visita dei suoi grandi uomini è ludica e pedagogica.
Si scoprono anche grandi momenti della Storia della Francia, come Luigi XVI alla bastiglia, Giovanna d'Arco, l'assassinio di Marat, ma anche degli eventi che hanno segnato il XX secolo: il primo uomo sulla luna, la caduta del muro di Berlino
Madame Tussauds è uno dei più famosi musei delle cere al mondo, presente in diverse città, Londra, Amsterdam, Berlino, Hong Kong, Las Vegas, New York, Shangai, Washington e da agosto 2009 anche a Hollywood.
È di proprietà dell'azienda inglese Merlin Entertainments, la stessa che possiede anche Gardaland e Legoland.
Marie Tussaud era una donna di origini alsaziane. Aveva imparato l'arte di modellare la cera fin da piccola, creando i primi capolavori. Nel 1802 lascia Parigi per l'Inghilterra, portando con sé le sue opere, e da questa collezione nasce l'attuale museo delle cere di Londra.
All'interno del museo inglese, il più celebre, si possono ammirare le statue dei personaggi che hanno scritto la storia, dal re Enrico VIII a George W. Bush, passando per Hitler e la regina Elisabetta II, accanto ai quali si trovano statue di divi dello spettacolo di ieri e di oggi, sportivi ed altri ancora.
Il teatro greco di Siracusa
Il Teatro Greco di Siracusa, tra i fianchi rocciosi del Colle Temenite, un po’ distante dal centro di Siracusa è uno dei più belli che l’antichità ci ha lasciato in eredità. La cavea è rivolta verso il mare e l’intero teatro ancora oggi dà spettacolo.
Sotto i Romani (I-V sec d. C.) l’edificio teatrale venne ulteriormente modificato per consentire l’effettuazione di alcune rappresentazioni e spettacoli tipici del mondo romano.
Purtroppo le sciagurate spoliazioni effettuate nella prima metà del XVI sec., allorché sotto Carlo V si provvide a smantellare la porzione superiore della cavea e la scena per farne materiale edile da destinare alla fortificazione di Ortigia, hanno gravemente e irrimediabilmente alterato e danneggiato l’edificio nella sua identità strutturale.
La costruzione del Teatro di Siracusa iniziò nel lontano V secolo a.C.
L’architetto era un certo Damocopos detto Myrilla (questo appellativo deriva dal fatto che nel giorno dell’inaugurazione avesse fatto spargere degli unguenti “myroi”).
Da subito il teatro ebbe grande importanza per l’attività teatrale. Anche Eschilo vi rappresentò “Le Etnee”, (nel 456 a. C. circa) un’opera scritta per celebrare la rifondazione di Catania, e “I Persiani”.
Inizialmente questo teatro non aveva ancora la forma semicircolare, ma era composto da tre gradinate disposte a forma di trapezio.
Nel corso degli anni sono tanti gli autori che hanno citato l’antico teatro nelle loro opere a cominciare da Diodoro Siculo fino a Plutarco.
Tra il 238 e il 215 a. C. il teatro venne interamente ricostruito con la sua caratteristica forma a ferro di cavallo, tipica della cultura ellenica.
La ricostruzione fu guidata da Ierone II che tenne conto della forma del vicino colle e fece in modo di sfruttarne al massimo l’acustica.
Una delle caratteristiche dei teatri greci è quella di offrire un eccezionale panorama e quello di Siracusa non è da meno offrendo una gradevole vista sul Porto della città e sull’Isola di Ortigia, parte più antica di Siracusa.
La cavea del teatro, così come progettata da Ierone II, è una delle più grandi del mondo greco ed originariamente contava 67 gradini, in maggioranza scavati nella roccia, e 9 settori. Sulla recinzione sono incisi i nomi delle divinità e i nomi della famiglia reale. Originariamente l’orchestra era delimitata da un grande euripo (un canale scoperto)
oltre il quale vi era l’inizio dei gradini.
La parte scenica di questo magnifico teatro è ormai quasi del tutto scomparsa e restano visibili solo i tagli realizzati nella roccia. Sempre durante questo primo periodo sotto l’orchestra vi era un passaggio che permetteva agli attori di scomparire o apparire e vi era anche un solco per il sipario.
Molto probabilmente la statua di una cariatide che si trova nel Museo Archeologico regionale Paolo Orsi apparteneva alla scenografia di questo teatro.
Al di sopra del tetto del teatro si trova una terrazza, anch’essa scavata nella roccia, alla quale si può accedere tramite una gradinata e ad una nota strada, “via dei sepolcri”. In origine su questa terrazza si trovavano un grande portico e una grotta, all’interno della quale si trovava una vasca nella quale si depositava l’acqua di un antico acquedotto che serviva l’intero teatro.
Questo insieme era identificato come il Mouseion o “Santuari o delle Muse”.
Numerosi e sostanziali modifiche furono apportate al teatro con l’arrivo dei romani. La cavea venne modificata in forma semicircolare (tipica dei romani) e furono realizzati dei corridoi che portavano all’edificio scenico. Anche la scena fu ristrutturata e fu costruita una nuova fossa per il sipario.
Successivamente vi furono altre modifiche che consentissero al teatro di ospitare anche i combattimenti dei gladiatori.
Dopo i romani lo splendente teatro fu abbandonato e nel 1526 subì gravi saccheggi da parte degli spagnoli che utilizzarono i grossi massi di pietra per costruire le fortificazioni intorno all’isola di Ortigia.
Dopo la seconda metà del 500 il marchese di Sortino, Pietro Gaetani, riattivò a proprie spese l’acquedotto e istallò diversi mulini sulla cavea dei quali è ancora oggi visibile la “casetta dei mugnai”. Alla fine del 700 rinacque l’interesse per il teatro che continuarono anche per il secolo successivo, studi, ricerche e ristrutturazioni che donarono al teatro l’antico splendore.
Dal 1914 l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA) inaugurò, nell’antico teatro, le rappresentazioni annuali di opere greche che continuano tutt’oggi.
Il Teatro Greco di Siracusa è uno dei più belli di tutti quelli che l’antica cultura ellenica, e non solo, ci ha lasciato. Un teatro che mostra fiero il tempo che è passato, mostra i segni delle diverse dominazioni, testimonia i diversi modi di vivere e di interpretare gli spazi ma soprattutto è lì a testimonianza dell’amore per il bello e per l’arte che hanno caratterizzato le due culture più importanti del mondo: quella greca e quella romana. Non serve essere un appassionato d’arte per visitare il Teatro Greco l’importante è avere ancora voglia di stupirsi.
Er cane
-Che cane buffo! E dove l' hai trovato? -
Er vecchio me rispose: -è brutto assai,
ma nun me lascia mai: s' è affezzionato.
L' unica compagnia che m' è rimasta,
fra tanti amichi, è ' sto lupetto nero:
nun è de razza, è vero,
ma m'è fedele e basta.
Io nun faccio questioni de colore:
l'azzioni bone e belle
vengheno su dar core
sotto qualunque pelle.
Trilussa
Lo specismo una stortura concettuale errata
Noi abbiamo bisogno di studi, di filosofi, di fiumi di parole, di dibattiti, di simposi per capire una cosa che gli animali hanno innata Lo specismo non esiste per loro, non hanno bisogno di elucubrazioni mentali per saperlo lo sanno e basta
Li definiamo esseri non senzienti
Ne abusiamo in ogni modo molto spesso ignobile
Ci autodefiniamo esseri superiori, ma da dove ci viene la supponenza di questa definizione?
Sappiamo scrivere libri, guidiamo macchine, facciamo le guerre, andiamo sulla luna è questo essere superiori?
Ma abbiamo capito a fondo cosa è la vita?NO
Sappiamo cosa significa veramente l'energia cosmica che unisce ogni cosa in un tutto?NO
Andiamo a tentoni in un mare di supposizioni, di teorie, di dogmi,di verità presunte,di bugie comode.
Dimenticandoci che tutto anche noi siamo parte della natura animale
Dimenticandoci che abbiamo sopito l'istinto a favore dell'esteriorità Loro no lo seguono come facevano gli uomini antichi
Ci abbiamo perso o guadagnato?
Io penso fermamente che abbiamo perso il gioco della vita
La specie è l'unità di base di classificazione degli organismi viventi. L'antispecismo è il movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo.
Come l'antirazzismo rifiuta la discriminazione basata sulla razza e l'antisessismo quella basata sul genere sessuale.
L'antispecismo respinge quella basata sulla specie, sostenendo che la sola appartenenza a una diversa specie non giustifica eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro di un essere senziente.
Il primo autore a parlare di «specismo» fu lo psicologo Richard D. Ryder.
Ryder sostiene l’esigenza di smascherare che il più grosso "errore morale" che contraddistingue la società occidentale antropocentrica risiede nel suo rifiutarsi di riservare un trattamento egualitario agli esseri non umani solo per ragioni connesse all’assenza di un legame di specie.
L'approccio antispecista ritiene che: le capacità di sentire (di provare sensazioni come piacere e dolore), di interagire con l'esterno, di manifestare una volontà, di intrattenere rapporti sociali, non siano prerogative della specie umana; l'attribuzione di tali capacità agli animali di specie non umana comporti un cambiamento essenziale del loro status etico, da equiparare a quello normalmente riconosciuto agli animali di specie umana; da ciò debba conseguire una trasformazione profonda dei rapporti tra individui umani ed individui non umani.
L’idea che sia possibile riconoscere agli animali non umani diritti validi all’interno delle comunità umane inizia a diffondersi verso la fine del XVIII secolo, in un clima di promozione di diritti per un numero sempre maggiore di individui in precedenza soggetti a discriminazione, quali le donne e gli schiavi.
Il filosofo Jeremy Bentham, in questo contesto, fu il primo a proporre di seguire un’impostazione etica fondata su un criterio capace di includere tutti gli animali all’interno di una medesima comunità morale.
Per quanto Bentham si opponga fortemente al causare sofferenza agli animali non umani, egli non mette tuttavia mai in discussione il nostro diritto di sfruttarli e ucciderli per fini umani – quando ciò avviene senza inutili torture.
Nonostante i forti limiti del suo utilitarismo, il pensiero dell'autore ha fornito una forte base concettuale all’animalismo filosofico perché riconosce nella capacità di provare piacere e dolore, non soltanto il movente originario dell’agire morale, ma anche qualcosa di cui sono intuitivamente (e non solo) dotati tutti gli animali.
Li definiamo esseri non senzienti
Ne abusiamo in ogni modo molto spesso ignobile
Ci autodefiniamo esseri superiori, ma da dove ci viene la supponenza di questa definizione?
Sappiamo scrivere libri, guidiamo macchine, facciamo le guerre, andiamo sulla luna è questo essere superiori?
Ma abbiamo capito a fondo cosa è la vita?NO
Sappiamo cosa significa veramente l'energia cosmica che unisce ogni cosa in un tutto?NO
Andiamo a tentoni in un mare di supposizioni, di teorie, di dogmi,di verità presunte,di bugie comode.
Dimenticandoci che tutto anche noi siamo parte della natura animale
Dimenticandoci che abbiamo sopito l'istinto a favore dell'esteriorità Loro no lo seguono come facevano gli uomini antichi
Ci abbiamo perso o guadagnato?
Io penso fermamente che abbiamo perso il gioco della vita
La specie è l'unità di base di classificazione degli organismi viventi. L'antispecismo è il movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo.
Come l'antirazzismo rifiuta la discriminazione basata sulla razza e l'antisessismo quella basata sul genere sessuale.
L'antispecismo respinge quella basata sulla specie, sostenendo che la sola appartenenza a una diversa specie non giustifica eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro di un essere senziente.
Il primo autore a parlare di «specismo» fu lo psicologo Richard D. Ryder.
Ryder sostiene l’esigenza di smascherare che il più grosso "errore morale" che contraddistingue la società occidentale antropocentrica risiede nel suo rifiutarsi di riservare un trattamento egualitario agli esseri non umani solo per ragioni connesse all’assenza di un legame di specie.
L'approccio antispecista ritiene che: le capacità di sentire (di provare sensazioni come piacere e dolore), di interagire con l'esterno, di manifestare una volontà, di intrattenere rapporti sociali, non siano prerogative della specie umana; l'attribuzione di tali capacità agli animali di specie non umana comporti un cambiamento essenziale del loro status etico, da equiparare a quello normalmente riconosciuto agli animali di specie umana; da ciò debba conseguire una trasformazione profonda dei rapporti tra individui umani ed individui non umani.
L’idea che sia possibile riconoscere agli animali non umani diritti validi all’interno delle comunità umane inizia a diffondersi verso la fine del XVIII secolo, in un clima di promozione di diritti per un numero sempre maggiore di individui in precedenza soggetti a discriminazione, quali le donne e gli schiavi.
Il filosofo Jeremy Bentham, in questo contesto, fu il primo a proporre di seguire un’impostazione etica fondata su un criterio capace di includere tutti gli animali all’interno di una medesima comunità morale.
Per quanto Bentham si opponga fortemente al causare sofferenza agli animali non umani, egli non mette tuttavia mai in discussione il nostro diritto di sfruttarli e ucciderli per fini umani – quando ciò avviene senza inutili torture.
Nonostante i forti limiti del suo utilitarismo, il pensiero dell'autore ha fornito una forte base concettuale all’animalismo filosofico perché riconosce nella capacità di provare piacere e dolore, non soltanto il movente originario dell’agire morale, ma anche qualcosa di cui sono intuitivamente (e non solo) dotati tutti gli animali.