mercoledì 29 novembre 2017

Gli “Occhi di Dio” nella Cava di Prohodna, in Bulgaria


In Bulgaria esiste una caverna molto suggestiva, soprattutto per i due larghi fori che presenta in cima, soprannominati “Oknata”, ovvero “Occhi di Dio”. 
Si tratta della Cava di Prohodna, una delle destinazioni più famose del nord della Bulgaria.
 Situata a 2 chilometri dal villaggio di Karlukovo e a 120 km dalla capitale Sofia, Prohodna è l’attrazione del passo di Iskar Gorge, un valico che passa attraverso i monti Balcani, collegando Sofia a Mezdra. 

 La spettacolare grotta si presenta come una cavità carsica lunga 262 metri. 
A renderla unica sono i due enormi e suggestivi lucernari naturali, formatisi in seguito ad un particolare fenomeno di erosione.
 Situati uno vicino all’altro, hanno una forma davvero singolare: questi enormi fori che si sono naturalmente formati sul tetto della cava, sembrano proprio due occhi giganti, ancora più suggestivi quando c’è la luna piena, che appare quasi simile ad una pupilla “divina”.


Non è un caso se le persone del luogo hanno ribattezzato i due lucernari scavati nella roccia gli “Occhi di Dio”. 

Guardata da una certa angolazione, la Cava di Prohodna assomiglia addirittura ad un viso proteso verso il basso, con gli occhi che guardano in giù.
 Pensate che quando piove, sembra che stiano piangendo!

 La conformazione di questa cava, unica al mondo, l’ha trasformata in una delle più grandi attrazioni della Bulgaria. Per accedervi ci sono due ingressi, conosciuti con il nome di Small Entrance (piccola entrata) e Big Entrance (grande entrata). La prima misura 35 metri di altezza, mentre quella più grande è alta 45 metri. Questo rende la Cava di Prohodna il più grande passaggio scavato nella roccia della Bulgaria.




I giochi di luce creati dai grandi fori sul tetto della grotta sono visibili da entrambi gli accessi, creando l’effetto di due occhi che stanno guardando il sole dalla buia profondità della cava.

 I bulgari li chiamano sia “Occhi di Dio” che “Occhi del Diavolo”, tanto che nel 1988 sono stati immortalati nella pellicola del film bulgaro “Time of Violence”.

 Un tempo probabilmente abitata o usata come luogo per riti esoterici, oggi la cava di Prohodna è una delle location più popolari per il bungee jumping.



Fonte: siviaggia.it

Scoperta in Messico la vasca dell’acqua mortale


Una vasca apocalittica in cui l’acqua è mortale.
 Accade in Messico, dove è stata trovata una pozza d’acqua così salata da risultare velenosa.
 L’insenatura è larga trenta metri per dieci e ha una profondità davvero unica.
 In sostanza si tratta di un lago subacqueo altamente velenoso, in cui l’acqua è densa e caldissima, così tanto che non riesce a mescolarsi con quella dell’Oceano Atlantico che si trova tutto intorno.
 Nel corso degli anni, non a caso, in questa zona è nato un cimitero di pesci e crostacei che si sono cristallizzati.

 La vasca si trova nel Golfo del Messico, al largo di New Orleans, ed è stato scoperto da alcuni sub.
 Il luogo è stato ribattezzato Jacuzzi of despair, ossia piscina della disperazione ed assomiglia molto ai laghi dell’Africa.
 La piscina ha una temperatura di 19 gradi ed è un luogo di morte. Tutti gli esseri viventi che finiscono nell’acqua infatti finiscono per morire in pochi secondi. 
I cadaveri si depositano sul fondo e vengono ricoperti da uno strato di sale.


Secondo le indagini compiute dagli esperti, la salinità della vasca mortale è quattro volte superiore a quella presente nell’Oceano.
 A rendere l’acqua densa sono i minerali, ma anche idrogeno solforato e il metano.
 L’alta quantità di questi materiali fa sì che la vita nella Jacuzzi of despair, sia impossibile.
 Nonostante ciò esistono degli esseri viventi che riescono a sopravvivere anche in quest’ambiente tossico.
 Intorno al lago infatti sono stati trovati dei vermi tubo e dei gruppi di cozze che in modo straordinario sono riusciti ad adattarsi alla vita in questo posto così estremo. 
Come? Trasformando le sostanze tossiche in elementi nutritivi che gli consentono di crescere e proliferare.


La scoperta ha suscitato un forte interesse e presto, secondo gli esperti sarà possibile visitare il lago, ovviamente prendendo le giuste precauzioni.

 

 Fonte: siviaggia.it

martedì 28 novembre 2017

Svelati "nuovi" tesori di Tutankhamon


Finalmente fatto straordinaria scoperta nella Valle STOP 
Grandiosa tomba con sigilli intatti STOP 
Ricoperto tutto fino vostra venuta STOP 
Congratulazioni 

 Era il 26 novembre 1922 e queste sono le esatte parole usate nel telegramma che l'archeologo Howard Carter inviò al suo mecenate, Lord Carnavon, per annunciare la scoperta di quella che poi si rivelò essere la tomba del faraone Tutankhamon.


 A 95 anni da quel fondamentale momento della storia della Egittologia, il tesoro del giovanissimo sovrano della XVIII dinastia che salì al trono a 9 anni e morì a 18, continua a stupire. 100 lamine d'oro finora mai viste dal grande pubblico sono state sottoposte a un lungo restauro e ora sono esposte per la prima volta.
 I motivi animali avvolti dall'albero della vita sono sorprendenti: uno stile insolito per l'arte egizia e che, a detta degli esperti, arriverebbe dell'arte mediorientale.


La tomba di Tutankhamon ha lasciato agli egittologi uno scrigno di importantissime risorse.
 Mai violata fino alla sua scoperta nel 1922, ha conservato preziose informazioni sulla religione, sullo stato e sul sovrano dell'Antico Egitto.

 Ora, all'apertura di questa cassa dimenticata nei meandri del Museo del Cairo, le lamine d'oro che una volta fungevano da elementi decorativi per le faretre e le briglie usate dal faraone, potranno darci indizi anche sull'arte dell'antico impero.


«Presumibilmente questo stile, sviluppatosi in Mesopotamia, è arrivato al Mediterraneo e all'Egitto attraversando la Siria», spiega Peter Pfälzner, fra i restauratori dell'Università di Tübingen. «Anche questa è una prova dell'importante ruolo della Siria antica nel trasmettere e disseminare la cultura durante l'Età del Bronzo». 

La tesi di Pfälzner è avvalorata anche dall'enorme somiglianza fra queste lamine e altre ritrovate nel 2002 in un tomba a Qatna, l'antica città reale siriana.

 Fonte: focus.it

Ossidiana, il vetro vulcanico


Tra le meraviglie che l’attività vulcanica riesce a creare, come intere isole o labirinti di caverne, c’è un materiale le cui particolari proprietà sono note e utilizzate da millenni: l’ ossidiana. 

L’ossidiana è un vetro vulcanico che si forma quando una lava ricca di feldspato e quarto si raffredda rapidamente senza creare grossi cristalli, lasciando un materiale duro, fragile e che si frattura creando bordi estremamente taglienti, così taglienti da essere tutt’ora utilizzati per la realizzazione di bisturi chirurgici d’eccellenza. 

 Il nome dell’ossidiana lo si deve a Obsidius, un esploratore Romano che in Etiopia trovò alcune pietre nere che chiamò “lapis obsidianus”.

 L’ossidiana è reperibile in località che hanno vissuto eruzioni vulcaniche riolitiche (ad alto contenuto di silicio), come Lipari e Pantelleria in Italia. 
Il suo primo utilizzo risale a circa 700.000 anni fa, mentre i resti di una lavorazione precisa ed esperta risalgono al V° millennio a.C. L’ossidiana è generalmente scura con tonalità di colore date dalla presenza di impurità, andando da un marrone scuro a un nero profondo. 
Non si tratta di un vero minerale perché manca di una struttura cristallina; inoltre, la sua composizione è troppo variabile da essere considerata un mineraloide. 

 L’ossidiana è un materiale relativamente instabile dal punto di vista geologico. 
E’ raro trovare pezzi di ossidiana più vecchi di 20 milioni di anni perché nell’arco del tempo l’ossidiana tende a trasformarsi da vetro vulcanico a semplice roccia in un processo noto come “devetrificazione”: in questa fase le molecole di silicio pian piano si riorganizzano in una struttura cristallina, facendo perdere le peculiari proprietà dell’ossidiana. 

 Grazie alla sua capacità di creare bordi estremamente taglienti, l’ossidiana è stata utilizzata fin dall’antichità per produrre lame e punte di armi. 
Ancora oggi alcuni strumenti chirurgici da taglio hanno lame di ossidiana, più affilate (ma più fragili) dell’acciaio anche a livello microscopico.


I nostri antenati si resero conto che l’ossidiana, quando si spacca, crea fratture concoidi come il quarzo o la selce. 
Una frattura concoide non segue il piano cristallino del materiale fratturato, ma crea frammenti e schegge con curvature che ricordano molto quelle delle conchiglie dei molluschi.
 Quando si colpisce un blocco di ossidiana, si genera un “bulbo di percussione” in prossimità del punto di impatto.
 Dal bulbo di percussione si estendono le onde d’urto lasciando segni simili alle increspature generate da un sasso caduto in acqua.


Le popolazioni mesoamericane precolombiane elevarono ad arte la lavorazione dell’ossidiana, utilizzando questo materiale non solo per la fabbricazione di lame ma anche per oggetti decorativi come specchi e piatti.
 Grosse schegge di ossidiana fornivano bordi taglienti al macuahuitl, una versione primitiva ma efficace delle spade del Vecchio Continente. 
Sebbene alcuni popoli possedessero nozioni di metallurgia di base e lavorassero metalli teneri come l’oro, nessun metallo a loro conosciuto consentiva di avvicinarsi alle capacità di taglio di una lama di ossidiana. 

 Fonte: vitantica.net

lunedì 27 novembre 2017

In Turchia è stato scoperto un antichissimo castello sul fondo di un lago


Dopo dieci anni di ricerche nel Lago di Van, il più grande della Turchia, è stato trovato il cuore di una civiltà risalente a 3.000 anni fa.
 Ad annunciare la scoperta è stata l'università locale Van Yüzüncü Yıl, che, in collaborazione con una squadra di sommozzatori, ha scoperto un castello nascosto sotto la superficie del lago. 
L'acqua alcalina ha però conservato bene le mura del castello, che si innalzano ancora per 3 - 4 metri e si estendono per più di un chilometro.




Secondo i ricercatori, l'enorme fortezza è stata la capitale del regno di Urartu, un antico regno che agli inizi del 1° millennio a.C. ha proliferato dall'odierna Siria fino al Caucaso.

 La città fortificata sorgeva proprio sulle rive del lago di Van, ma, come già dimostrato da altri studi, il livello delle acque è cambiato radicalmente nel corso dei millenni, fino a sommergere il castello. Ma altre parti della fortificazione si sono salvate dall'innalzamento delle acqua e sono oggi oggetti di studi archeologici.


«Molti popoli e civiltà hanno stanziato nei pressi del Lago di Van - spiega Tahsin Ceylan, capo del gruppo di sommozzatori, - chiamavano il lago "mare superiore" e credevano nascondesse molti misteri.
 Oggi andiamo a caccia proprio di quei misteri».

 Con un discreto successo: oltre al castello il suo team ha ritrovato i resti di una nave turca affondata nel 1948, tombe dell'impero selgiuchide di mille anni fa e un pavimento di stalagmiti che si estende per 4 km quadrati.


Ma i misteri sono lontani dall'essere completamente svelati. 
La ricerca non è ancora riuscita a capire quanto in profondità i muri del castello penetrano il fondale, non si conosce quindi l'effettiva altezza del castello.
 Sarà interessante anche studiare gli oggetti rimasti nel castello per capire qualcosa di più sulle persone che lo abitavano. 

 Fonte: focus.it

L'incredibile fioritura fuori stagione dei ciliegi di Shillong, in India


C'è un posto dove i ciliegi fioriscono a novembre, nel pieno dell'autunno. 
E' questa la straordinaria magia regalata da Shillong, nel Meghalaya: una municipalità indiana che con otto mesi di ritardo (o quattro di anticipo, questioni di punti di vista) vuol far concorrenza ai regali viali giapponesi inondati dai Sakura, i fiori di ciliegio. 

 La natura non smette mai di stupire, soprattutto quando regala degli spettacoli così mozzafiato. E anche se in questo caso c'è lo zampino dell'uomo, il risultato non è da meno. 
Duemila alberi di ciliegio sono stati piantati nella regione di Khasi Hills dal Dipartimento Ambiente del Governo di Meghalaya pochi anni fa. E proprio in questi giorni hanno raggiunto il loro massimo splendore.






La regione raggiunge i duemila metri di quota ma regala proprio in questo periodo il clima adatto alla fioritura delle spettacolari piante. Un incanto che ha portato a scegliere Shillong come sede di uno dei Cherry Blossom Festival che si svolgono in tutto il mondo, aggiudicandosi il primato di essere l'unico «fuori stagione». 

Meghalaya è famosa per le sue colline e i paesaggi selvaggi. E il significato del nome - dimora delle nuvole - si adatta alla perfezione alla tradizione del Sakura, che in Giappone simboleggia anche le nubi, oltre ad essere una metafora per la natura effimera della vita. 

 Fonte: lastampa.it

venerdì 24 novembre 2017

La porta alchemica di Roma


Nel colorato e multietnico quartiere Esquilino, c’è la Porta Alchemica, simbolo dell’alchimia occidentale e unica superstite tra le cinque porte di Villa Palombara.
 Essa viene considerata come la più alta testimonianza della tradizione magico-alchemica europea e si dice che conservi il segreto della pietra filosofale.

 Detta anche Porta Magica, Porta Ermetica o Porta dei Cieli, è una struttura in pietra con diverse iscrizioni di carattere esoterico ed iniziatico ed è l’unico resto dell’antica villa Palombara edificata nella seconda metà del ’600 dal Marchese di Pietraforte, Massimiliano Palombara (1614 -1680), appassionato d’esoterismo ed alchimia e frequentatore della corte di Cristina di Svezia.


Il monumento originariamente era una dei 5 ingressi esterni della villa, che il marchese aveva fatto incidere con simboli alchemici al fine di attirare l’attenzione di chi potesse decifrarne i segreti. 

Attualmente il portale che è murato e circondato da una recinzione ha due serie di tre simboli planetari, ciascuno associato ad un metallo e ad un criptico motto.
 In alto, invece, c’è un disegno con due triangoli sovrapposti, che vanno a formare una stella di Davide unita ad ulteriori simboli. 
Alla base c’è una parola palindroma Si Sedes Non Is (se siedi non vai) che al contrario si trasforma invece in Si Non Sedes Is (se non siedi vai).




Si dice che nella realizzazione di questa porta fu importante la presenza della Regina Cristina di Svezia, personaggio controverso e continua fonte di scandalo nella Roma secentesca.
 Costretta ad abdicare al trono a causa della sua conversione al cattolicesimo, trascorse gli anni dell’esilio fino alla morte a Roma dove fondò l’Accademia dell’Arcadia e si circondò di intellettuali e uomini di scienza. 

 Tra questi personaggi illustri c’era anche il medico esoterista Giuseppe Francesco Borri, che fu ospite per diversi anni alla villa durante un periodo di semilibertà dalla prigionia a Castel Sant’Angelo.
 La tradizione identifica addirittura il Borri anche con il protagonista della versione leggendaria della storia della porta, narrata nel 1802 da Francesco Girolamo Cancellieri.

 Si dice poi che le iscrizioni siano state ispirate da un pellegrino trovato una mattina nel giardino della villa mentre cercava una pianta capace di produrre l’oro. 
Capendo le sue doti da alchimista il marchese di Palombara lo aveva invitato nel suo laboratorio.

 La mattina seguente, però il misterioso pellegrino, era scomparso lasciando alle sue spalle dell’oro purissimo ed una serie di appunti pieni di quei simboli ermetici poi scolpiti nella villa.

 L’attuale posizione della Porta Alchemica non è comunque quella originale, dato che la Villa Palombara sorgeva poco più in là, tra la Via Gregoriana (oggi Merulana) e il lungo rettilineo di quella che era la Via Felice, la strada voluta da Sisto V che congiungeva Santa Croce in Gerusalemme con Trinità dei Monti. 

 Dominella Trunfio

giovedì 23 novembre 2017

Ascolta la lira d’argento sumera


Nel 1929, un gruppo di archeologi guidati da Sir Leonard Woolley scoprì cinque lire di legno vecchie di 5.000 anni sepolte in una tomba reale della città sumera di Ur.
 Gli strumenti erano stati riposti con ben poca cura all’interno della sepoltura e ogni resto organico si era ormai deteriorato a tal punto da essere irriconoscibile, ma due degli strumenti erano stati ricoperti da uno strato d’argento spesso quasi due millimetri e avevano mantenuto parte della forma originale, permettendo una ricostruzione abbastanza accurata della struttura di questi strumenti musicali.


Peter Pringle, musicista ed esperto di strumenti musicali tradizionali e antichi, ha ricostruito fedelmente una di queste antiche lire sumere utilizzando legno di quercia e una copertura di acciaio per simulare le proprietà acustiche e la rigidità dell’argento (ed evitare una spesa di migliaia di dollari per procurarsi l’argento necessario). 
Lo strumento ricostruito da Pringle è dotato di una camera di risonanza a cui sono collegate 11 corde di seta, mentre in antichità erano probabilmente utilizzate corde in budello (che producono suoni molto simili a quelli della seta).

 

 Fonte: vitantica.net

mercoledì 22 novembre 2017

Gli otri ingrassa-ghiri della Roma antica


Il ghiro è un roditore della famiglia dei Gliridae noto per i suoi lunghi periodi di ibernazione. 
Nell’ Antica Roma una particolare specie di ghiro chiamata “ghiro commestibile” (Glis glis o Myoxus glis) era considerata una prelibatezza culinaria destinata all’aristocrazia e veniva fatta ingrassare come qualunque altro animale da carne.

 La pratica di far ingrassare i ghiri commestibili sembra risalire a prima del II° secolo a.C. ed era considerata del tutto normale tra Romani, Galli ed Etruschi, alla stregua di allevare maiali per produrre carne. I ghiri commestibili, noti come glires in latino, dopo la cattura venivano ingabbiati in vasi di terracotta (chiamati glirarium o vivarium in doliis) e alimentati a noci, castagne e ghiande con il preciso scopo di farli ingrassare oltre i limiti del loro naturale aumento di peso per l’inverno.

 Il ghiro commestibile è considerato da millenni una delizia per il palato, tanto da costringere Roma ad emanare una legge nel II° secolo a.C. che prevedeva l’esplicito divieto di servire questo roditore ai banchetti (lo stesso valeva per molluschi rari e uccelli esotici). 
Col tempo nacquero vere e proprie fattorie di ghiri su piccola o larga scala, dove questi animali venivano allevati e fatti riprodurre allo scopo di avere una fornitura costante di ghiri senza doverli catturare in natura come la “povera gente” era costretta a fare ogni anno.


Il ghiro commestibile non è un grosso roditore, anche se è una delle specie di ghiro più grandi: può raggiungere i 20 centimetri di lunghezza (coda esclusa) e pesa mediamente 150 grammi, ma raddoppia il suo peso in prossimità della stagione invernale accumulando grasso per sopravvivere all’ ibernazione. 

Il ghiro è un erbivoro e si nutre di bacche, noci e frutta, ma si adatta a mangiare qualunque cosa in periodi di difficoltà compresi fiori, piccoli invertebrati e uova d’uccello. 
 Le abitudini del ghiro sono principalmente notturne e l’animale spende la maggior parte delle ore di luce rinchiuso nella sua tana, di solito un tronco d’albero cavo o un nido sottratto a qualche uccello. 

Sfruttando queste loro abitudini, i Romani idearono un sistema per ingrassare i ghiri che simulava una tana e rendeva relativamente semplice farli crescere fino a raggiungere un peso adatto alla vendita.

 I ghiri non allevati erano catturati durante l’autunno, periodo in cui aumentano enormemente di peso in vista della stagione fredda. Trovare e catturare vivo un ghiro non era affatto semplice: tendono a rimanere nascosti nella boscaglia, sono discreti arrampicatori d’alberi ed evitano aree prive di copertura o zone di transizione per rimanere nascosti il più possibile dai loro predatori naturali. 

Dopo la cattura, il ghiro veniva immediatamente intrappolato in un vaso di terracotta chiamato glirarium e specificamente progettato per ospitare questo roditore.


I gliraria erano vasi esternamente simili a quelli impiegati per la conservazione del cibo ma erano realizzati in modo tale da rendere l’interno del contenitore una tana ideale per un ghiro: i vasai praticavano fori per la ventilazione e creavano una piccola apertura per rifornire di cibo l’animale intrappolato senza dover aprire il vaso.
 Una serie di ripiani lungo il perimetro interno consentivano al ghiro di muoversi nella gabbia (una versione primitiva della “ruota per criceti”) mentre un coperchio li teneva quasi costantemente al buio. 

 Quando il ghiro raggiungeva il peso desiderato poteva essere estratto dalla gabbia, ucciso e cucinato.

 Il ghiro commestibile diventò una prelibatezza tra gli strati sociali più alti: alcuni proprietari terrieri dedicavano parte dei loro possedimenti all’allevamento di questi animali e li vendevano a caro prezzo ai cuochi dell’aristocrazia, che li preparavano come portata separata dal resto della selvaggina.
 Un ghiro ben pasciuto servito a tavola rappresentava spesso la portata più importante del banchetto ed era un chiaro indizio sulla ricchezza del padrone di casa.

 Non abbiamo dettagli su come i Romani catturassero i ghiri senza ucciderli; siamo però a conoscenza dei principali metodi di caccia utilizzati in Europa a partire dal XV° secolo, specialmente in zone come Slovenia e Ucraina.
 I metodi di cattura erano principalmente due: trappola a laccio e trappola a caduta.
 Le trappole a laccio venivano posizionate in prossimità di un vecchio albero cavo e lasciate attive fino al mattino successivo; le trappole a caduta potevano invece essere collocate lungo la pista abituale dell’animale nella speranza che, durante la notte, il ghiro restasse vittima dell’agguato. 

 Fonte: vitantica.net

martedì 21 novembre 2017

Scoperta in Arabia la prima raffigurazione di un cane; ha 8000 anni


Tredici cani ed un cacciatore intento a scoccare una freccia sono stati scoperti, in un’incisione, su una roccia in Arabia Saudita. 
Si tratta della prima raffigurazione di un cane e risale ad ottomila anni fa. 

La scoperta è stata realizzata da un team di ricercatori dell’Istituto tedesco Max Planck e pubblicata sulla rivista Journal of Anthropological Archaeology e su Science.

 Il rinvenimento ha un’importanza storica perché conferma come l’uomo abbia imparato ad addestrare i cani in epoca remota (due dei cani raffigurati erano legati ad un guinzaglio).


In realtà la datazione è tutt’altro che sicura, ma basata essenzialmente sullo stile della rappresentazione e dal tipo di usura dell’incisione. 

La raffigurazione dei cani conferma come la regione della Shuwaymis, in Arabia, fosse migliaia di anni fa fosse un luogo accogliente con piogge stagionali che alimentavano corsi d’acque ed una rigogliosa vegetazione.
 L’incisione, inoltre, sembra raffigurare una particolare razza, quella di Canaan, originaria dalle regioni del Medio Oriente.



Fonte: .scienzenotizie.it

Un accordo prematrimoniale di 4.000 anni fa


Argomenti come infertilità e maternità surrogata possono sembrare questioni moderne, ma sono forse sempre stati tema di discussione. Se ne trovano tracce persino su una tavoletta di argilla di 4.000 anni fa rinvenuta nel sito, protetto dall'Unesco, di Kültepe-Kanesh, nella provincia di Kayseri (Turchia centrale). 

  Kültepe ospitò un insediamento assiro tra il XXI e il XVIII secolo a.C.: da quando sono iniziati gli scavi moderni, nel 1948, vi sono state rinvenute oltre 25.000 tavolette cuneiformi. Questa, che ai caratteri accompagna piccole illustrazioni, è una sorta di accordo prematrimoniale tra un uomo e una donna, Laqipum e Hatala, che si giurano amore eterno condito da una buona dose di senso pratico. 

  Il contenuto della tavoletta, conservata presso il Museo archeologico di Istanbul, è descritto sulla rivista Gynecological Endocrinology.
 Come parte dell'accordo tra i due partner, il contratto cita la possibilità, per Laqipum, di ricorrere a una madre surrogata per i suoi eredi nel caso in cui la coppia non riesca a concepire un figlio entro i due anni dalle nozze. 
 In particolare si fa riferimento alle ierodule, le giovani schiave che amministravano il culto sacro nei templi, e che in alcune occasioni esercitavano una forma di "sacra prostituzione" (sacra perché in un contesto rituale) all'interno, o nei pressi, del tempio stesso. 
Per la schiava era prevista la possibilità di guadagnare la libertà, una volta donato alla coppia il primo, atteso figlio maschio.

 Nella cultura assira, tradizionalmente monogama, l'infertilità non era considerata una valida giustificazione al divorzio, e la possibilità di ricorrere a un'altra donna per concepire un figlio era considerata un modo per mantenere il legame matrimoniale anche in caso di difficoltà. 

Il testo infatti prosegue stabilendo per entrambi i contraenti, in caso di richiesta di divorzio, un'ammenda da corrispondere al coniuge: «Se Laqipum scegliesse di divorziare, dovrà pagarle 5 mine di argento, e se Hatala scegliesse di divorziare, dovrà pagare a lui 5 mine di argento. Testimoni: Masa, Ashurishtikal, Talia, Shupianika». 


Fonte: focus.it

lunedì 20 novembre 2017

Il Lago Sørvágsvatn nelle isole Faroe: un tuffo a precipizio nell’oceano


Il Lago Sørvágsvatn è noto per essere il più grande delle Isole Faroe; è situato sull’isola di Vágar e copre una superficie di 3,4 metri quadri, più di tre volte superiore a quella del secondo lago nazionale, il Fjallavatn, sempre collocato sull’isola di Vágar.
 Il lago si trova a 30 metri sopra il livello del mare, anche se l’effetto ottico di alcune foto può far sembrare che la distanza tra i due sia ben maggiore.
 Posizione e angolazione della macchina fotografica possono fare miracoli!


Il lago di per sè non rappresenta nulla di speciale, ma è la sua collocazione geografica a suscitare interesse.
 I 6 chilometri del lago Sørvágsvatn si estendono infatti a ridosso di un precipizio, che si getta nel Nord Atlantico da un’altezza compresa tra i 252 e i 376 metri.

 Il punto forse più spettacolare è dato dalla cascata naturale che scaturisce dalla roccia e che costituisce lo sbocco delle acque del lago in quelle dell’oceano.


Questo lago ha la peculiarità di aver assunto una doppia denominazione, a causa di un dibattito molto acceso presso la popolazione locale. 
Gli abitanti di Sørvágur sono infatti orgogliosi di affermare che è stato il loro paese a dare nome al lago, mentre gli abitanti di Miðvágur si riferiscono ad esso come Lago Leitisvatn, in virtù della regione Leiti, situata al di là della sponda opposta del bacino. Osservando la cartina geografica, può apparire strana la denominazione di Lago Sørvágsvatn, dato che il paese di Miðvágur è in realtà più vicino ad esso di quello di Sørvágur; la motivazione sta però nel fatto che l’insediamento di Miðvágur è avvenuto successivamente a quello di Sørvágur.

 Per tagliare la testa al toro ed evitare problematiche, gli abitanti dell’isola hanno molto diplomaticamente deciso di rifersi ad esso esmplicemente come a “Il lago”, perciò la confusione si crea solo quando sono altri connazionali della Faroe a dover usare un nome per il Lago Sørvágsvatn/Leitisvatn 

 Fonte: http://gizzeta.it

Nell'oceano Pacifico c'è una foresta marina dove le spugne sono dei fiori alieni


A cosa somigliano decidetelo voi.
 Non per niente queste spugne di vetro che abitano le profondità dell'atollo Johnston, nell'oceano Pacifico, si sono guadagnate il nome di ««Forest of the weird»», ovvero la Foresta delle assurdità. A ««scovarle»» questa estate è stato un team del Noaa, il National Oceanic and Atmospheric Administration, l'agenzia federale americana che si interessa di oceani e meteorologia.
 I ricercatori hanno inviato il robot Deep Discoverer a 2.300 metri di profondità, in acque oceaniche contaminate di plutonio, in cui furono condotti test nucleari. E lo scenario apparso davanti ai loro occhi li ha stupiti non poco.




Nessuno si sarebbe mai aspettato di trovare delle spugne con lo scheletro il silice, che ricorda appunto il vetro, dalle forme così bizzarre. 
Così inconsuete e diverse dalle loro simili che sembrano essere uscite da un cartone animato. 
Uno spettacolo definito dagli stessi ricercatori «alieno».
 Per la ambigua conformazione che hanno assunto le spugne, potrebbe quasi sembrare un giardino fiorito.
 Gli scheletri hanno infatti uno «stelo» che li tiene ancorati al fondale. Mentre il resto del corpo è concentrato al suo apice e tende a seguire l'andamento della corrente oceanica.


Serviranno ora altre ricerche per capire se spugne avvistate sono vive o morte, così come la loro età e la loro origine. 

Inutile nascondere che le forme così assurde e diverse dalle solite spugne presenti in altri mare facciano pensare a delle «mutazioni», dovute proprio all'inquinamento nucleare assorbito da queste creature.
 Non a caso l'accesso all'atollo Johnston è interdetto al pubblico. 

 Fonte: lastampa.it

venerdì 17 novembre 2017

Il Poūwa, il mega-cigno nero della leggenda Maori esisteva davvero


Confermerebbe un’antica leggenda Maori la (ri)scoperta di un mega-cigno nero in Nuova Zelanda. 

Qui, prima che queste zone più remote venissero colonizzate, viveva un cigno nero e veloce, estinto intorno al 13° secolo. 

 Ora, Nicolas Rawlence dell’Università di Otago e il suo team hanno usato tecniche genetiche per confermare l’esistenza di quello stesso mega-cigno.

 La presenza di un cigno neozelandese preistorico è da tempo controversa.
 Le leggende dei Maori parlano del Poūwa, una grande "creatura cigno" che uccide e mangia gli esseri umani.
 Fino ad oggi diverse erano le teorie che accostavano il mito alla realtà. 
Alcuni hanno ipotizzato che si potesse trattare dell'aquila del Haast : un uccello di enormi dimensioni e la forza, estinto circa 100 anni dopo l'arrivo dei Maori forse proprio a causa della caccia eccessiva e della perdita del proprio habitat naturale.
 Ma alcuni paleontologi hanno suggerito che questa figura potrebbe riferirsi al cigno nero australiano (Cygnus atratus), che a volte vola attraverso il mare di Tasman (o di Tasmania). E oggi, in nuovo studio, i ricercatori avrebbero confermato l’esistenza di un enorme aviario, un mega-cigno che si sarebbe estinto meno di due secoli dopo che i polinesiani colonizzarono la Nuova Zelanda nel 1280.


I ricercatori hanno confrontato il DNA di 47 cigni neri australiani e 39 antichi fossili di cigno scoperti in alcuni siti archeologici della Nuova Zelanda.
 Molti dei fossili provenivano dalle Isole Chatham, un arcipelago a circa 650 chilometri a est della Nuova Zelanda, sede proprio dei Maori.

 Le analisi effettuate suggeriscono che il mega-cigno si sarebbe “separato” dalla specie del C. atratus circa 1-2 milioni di anni fa. “Pensiamo che i cigni neri australiani abbiano volato in Nuova Zelanda in questo momento e poi si sono evoluti in una specie separata - il Poūwa”, spiega Rawlence.

 La squadra di scienziati è stata in grado di ricostruire l’aspetto generale del Poūwa confrontando le dimensioni e la forma dei crani, delle ali e delle gambe dei fossili con i moderni esemplari di C. atratus e hanno trovato che il Poūwa era circa il 20-30% più pesante dei cigni neri australiani e pesava fino a 10 chilogrammi. Il Pouwa aveva anche gambe più lunghe e ali più corte, suggerendo che non era in grado di volare e che i predatori erano grandi uccelli come le aquile.


I fossili mostrano che il Poūwa si è estinto intorno al 1450 d.C., meno di due secoli dopo che i polinesiani colonizzarono la Nuova Zelanda nel 1280. 
Poiché non c'erano cambiamenti climatici o ambientali in questo periodo, l’unica spiegazione logica è che siano stati gli esseri umani gli unici responsabili della loro scomparsa e, in più, le loro uova sarebbero state mangiate dai ratti che sono arrivati in Nuova Zelanda con i coloni polinesiani. 

Questi fattori, combinati con la distruzione degli habitat, avrebbero portato alla loro estinzione. 
 Un mega-cigno, quindi, che probabilmente si è evoluto dai cigni neri australiani. 
Se è così è davvero una sorprendete scoperta. 

 Germana Carillo

giovedì 16 novembre 2017

La rivalsa del pesce blob: non è brutto come pensiamo


Questa foto di "Mr Blobby" finisce spesso nelle collezioni di scatti delle creature più buffe del mondo animale.
 Ma la fama del pesce blob (Psychrolutes marcidus), un pesce abissale che vive nelle acque profonde di Australia meridionale, Tasmania e Nuova Zelanda, è in parte immeritata e causata dall'uscita dal suo habitat naturale: quando nuota nella sua casa oceanica, tra i 600 e i 1200 metri sotto alla superficie, questo animale non è flaccido e informe come lo vediamo.

 Lo scatto qui sopra è stato realizzato nel 2003 al largo della costa della Nuova Zelanda, durante una spedizione scientifica di un gruppo di biologi australiani (la New Zealand and Australia Norfolk Ridge - Lord Howe Rise Biodiversity Voyage, in breve: NORFANZ). 
Nel 2013 l'animale (in realtà, la foto) ha partecipato a una competizione per la creatura più brutta del mondo, sbaragliando la concorrenza e diventando così la mascotte della Ugly Animal Preservation Society. 

 Forse dovremmo togliergli il titolo: il suo aspetto "rilassato", da blob, come fosse sul punto di sciogliersi, è dovuto in realtà a un danno da decompressione. 
A meno che uno scienziato, o un pescatore, non lo costringa, il pesce blob non si avventura mai sopra alla cosiddetta twilight zone, quella zona che inizia a 200-300 metri di profondità, caratterizzata da alta pressione e oscurità.




Il suo corpo è quindi fatto per sopportare pressioni notevoli: ha ossa morbide e carni gelatinose che gli permettono di resistere alle sollecitazioni e controllare la galleggiabilità.
 Non ha nemmeno la vescica natatoria, un organo che consente ai pesci di adattare il peso specifico all'ambiente, riempiendosi di gas. Senza supporti strutturali a tenerlo insieme, quando è sottratto al suo habitat naturale il pesce è sottoposto a decompressione e si espande, trasformandosi in una massa informe.

 Da "normale" non è un campione di bellezza, ma, come si suol dire, c'è di peggio.

 Fonte: focus.it