mercoledì 26 marzo 2014

                                                             Buonanotte

Se un operaio con la sua paga italiana decidesse un giorno di comprarsi una mega villa a Miami .......come lo chiamereste???



Alla domanda di ‪#‎DariaBignardi‬ il ‪#‎ministro‬ Roberta Pinotti ha risposto così:

21.22 “I cacciabombardieri servono perché potrebbe succedere che qualcuno decide di sparare un missile per distruggere.
Spero che non lo decida mai nessuno, ma non viviamo in un mondo in cui non ci siano rischi in questo senso.
Lei ha citato prima la Crimea, ma non solo.
Chi si poteva aspettare una tragedia come quella delle Torri Gemelle?
Di fronte a una preoccupazione io penso che sia il caso di valutare, pensando magari di ridimensionare il numero degli F35.
Non c’è nulla di indispensabile, sto chiedendo:
“Ci sono dei rischi o delle minacce?
Come ci si potrebbe difendere?
C’è qualcuno che ci minaccia?” sulla base di questo si decide se serve più intelligence e così via
Io penso che più di tagliare, sia importante non spendere.
In questo momento i pagamenti sono bloccati.”

Mi scuso per la lungaggine di questo post. che spero leggiate fino in fondo, se non altro perchè contiene tante notizie su questi veivoli che qualsiasi mente sana si rifiuterebbe di comprare
Es. comprereste una macchina senza motore e senza impianti elettrici ed elettronici?
Una macchina con i vetri neri su tutti i lati escluso quello davanti? o che appena accendete il motore si è consumato tutto il vostro stipendio?
Se poi leggete tutto l'articolo scoprirete altre facezie !

Cosa è l'F-35? L'F-35 Lighting (fulmine) è un caccia di quinta generazione, l'unico concepito dopo la fine della Guerra Fredda.
È stato disegnato per essere invisibile ai radar e operare in rete con altri sistemi d'arma.
La velocità massima sarà di circa 1,6 volte quella del suono e potrà manovrare con carichi di gravità pari a 9,9 volte la gravità terrestre. I comandi sono tutti su schermi digitali con comandi touch.
A cosa serve?
È un aereo d'attacco al suolo, con un sistema di sensori avanzatissimo che dovrebbe permettergli di compiere qualunque missione.
È armato con un cannone da 25 millimetri e due stive ventrali per trasportare bombe o missili.
Può inoltre essere dotato di cinque piloni per armi e altri due per missili alle estremità delle ali. Il tutto per un carico bellico di 8100 chili di bombe e missili.
La versione F-35 B sarà in grado di decollare verticalmente dalle navi?
Sarà l'unico aereo disponibile con questa caratteristica?
Chi lo produce?
Il progetto è in mano alla Lockheed Martin, il colosso statunitense degli armamenti.
I paesi che hanno aderito al programma chiamato inizialmente Joint Strike Fighter hanno ottenuto una partecipazione allo sviluppo proporzionale all'investimento.
La Gran Bretagna è partner di primo livello, con circa 2,5 miliardi di dollari, con un ruolo chiave dell'industria Bae.
L'Italia è partner di secondo livello, con una spesa prevista di circa un miliardo di dollari, assieme all'Olanda, circa 800 milioni.
Nel terzo livello sono inclusi Canada, Australia, Norvegia e Danimarca.
Quanto costa il programma?
La stima iniziale era di 40 miliardi di dollari, in massima parte a carico degli Usa, le ultime previsioni calcolano un costo di sviluppo superiore a 56 miliardi.
Gli Stati Uniti contavano di acquistarne in futuro 2400 con una spesa di 200 miliardi di dollari.
Il piano iniziale prevedeva di costruirne 3100 includendo i paesi partner e altri compratori come Turchia, Singapore, Israele e Giappone, ma molti hanno già ridotto le previsioni.
E la politica di tagli al budget della difesa voluta dalla presidenza Obama potrebbe far calare anche gli ordini statunitensi.
A che punto è il progetto?
Il primo F-35 ha volato il 15 dicembre 2006.
I voli operativi d'addestramento sono cominciati nello scorso gennaio.
Finora le forze armate americane ne hanno ricevuti 69 ma tutti dovranno essere aggiornati nei prossimi anni per diventare pienamente operativi.
Che problemi sono emersi?
Contrariamente ai velivoli del passato, non ci sono stati prototipi su cui perfezionare la progettazione.
Per ridurre tempi e costi, il velivolo è stato testato virtualmente con elaboratori elettronici.
Ma i problemi non sono mancati e il programma ha accumulato ritardi importanti.
Il software per le versioni operative, da cui dipendono tutte le attività, è ancora in fase di sviluppo: non sarà pronto prima di due anni.
Forti difficoltà anche nella progettazione del casco, uno dei punti chiave del sistema F-35, che permetterà di visualizzare i dati di volo e puntare l'armamento tramite gli occhi del pilota.
Quali sono le critiche tecniche al progetto?
I piloti collaudatori, tutti americani o britannici, hanno criticato soprattutto la scarsa visibilità posteriore: non si vedono avversari alle spalle.
Un problema che dovrebbe essere risolto dai sensori tv che coprono il velivolo come una sfera.
Critiche anche al sistema anti-incendio e alla protezione contro i fulmini. Alcuni piloti hanno messo in dubbio anche la capacità di sopravvivere ai tiri della contraerea.

Ma di che materiale è fatto?  .......certo hanno qualche problemino hahahahhh

La Marina statunitense ha contestato dimensioni e prestazioni della versione imbarcata.
Nel settembre 2012 il Pentagono, stanco per ritardi e inconvenienti, è intervenuto con durezza contro la Lockheed, chiedendo risposte rapide e "commissariando" lo sviluppo del programma.
Quanto costano gli F35?
Il prezzo di ognuno dei primissimi esemplari è cresciuto fino a 207 milioni di dollari contro gli 89 milioni preventivati dalla Lockheed. Nel 2010 la stima era di 133 milioni.
Oggi il prezzo dovrebbe essere di circa 120 milioni ma il Pentagono insiste perché venga ridotto sotto i cento.
La Lockheed sostiene che nel 2018 un F-35 verrà 67 milioni di dollari, motore incluso.
Si ritiene che ogni ora di volo verrà a costare circa 25 mila dollari.
Il problema sarà la spesa per l'aggiornamento.
Come in un sistema informatico, ogni velivolo dovrà ricevere un pacchetto di software e componenti per arrivare alla versione definitiva.
Il cui prezzo non è ancora stato ipotizzato.
Quanto costerà tenerli in servizio?
Le stime per la vita operativa, ossia il prezzo di ricambi, manutenzioni e aggiornamenti tecnici, dell'intera flotta di F-35 statunitensi per i prossimi 50 anni sono di 1510 miliardi di dollari, pari a 618 milioni per ogni aereo.
Altri paesi come la Norvegia credono invece che per ogni singolo velivolo si spenderanno 769 milioni di dollari.
La Marina americana reputa questi costi superiori di 442 miliardi rispetto alle previsioni.
Il Pentagono ha minacciato che se queste stime non verranno ridotte toglierà alla Lockheed il controllo delle forniture di ricambi. Chi ha deciso l'impegno dell'Italia?
Il primo memorandum è stato firmato dal ministro della Difesa Beniamo Andreatta del governo Prodi nel 1998 con un investimento limitato a 10 milioni di dollari. La decisione di entrare nel programma di sviluppo con la spesa di un miliardo di dollari è stata presa dal governo Berlusconi nel 2002.
Gli accordi operativi per la produzione e la costruzione della fabbrica italiana di assemblaggio sono opera del governo Prodi nel febbraio 2007 e nell'aprile 2008.
Cosa significa la partecipazione italiana? Con la scelta di entrare nel programma F-35 l'Italia ha rinunciato ai grandi programmi di collaborazione aeronautica europea, come il Tornado – realizzato negli anni '70 con Germania e Gran Bretagna – e nel decennio successivo l'Eurofighter Typhoon, progettato dagli stessi paesi assieme alla Spagna.
Una scelta che conferma la linea inaugurata dal governo Berlusconi nel 2002 rinunciando al programma di un aereo da trasporto militare europeo in favore del Lockheed C130J.
Perchè l'Italia ha scelto l'F-35? La decisione è stata stata sostenuta soprattutto dai militari, con il sostegno di un partito trasversale nel centrodestra e nel centrosinistra.
Per la Marina è una scelta obbligata: è il solo aereo a decollo verticale sul mercato e quindi l'unico che può operare dalle nostre piccole portaerei Garibaldi e Cavour.
L'Aeronautica ritiene che si tratti del migliore velivolo disponibile per le missioni d'attacco.
C'erano alternative all'F-35?
Alenia (Finmeccanica) ha offerto una variante da attacco al suolo del caccia intercettore Eurofighter Typhoon, già in servizio con le nostre forze armate.
Una prospettiva respinta dall'Aeronautica perché l'Eurofighter un velivolo di vecchia generazione e avrebbe avuto costi comunque alti. Inoltre già oggi la prima serie in servizio dell'Eurofighter è così diversa dalle ultime due da avere pochi elementi in comune. Piuttosto che spendere per aggiornarla, l'Aeronautica intende toglierla dai reparti.
Quanti ne comprerà l'Italia?
Nel 2009 il governo aveva deciso l'acquisto di 131 F-35 con un costo stimato di 12,9 miliardi di euro.
L'anno scorso sono stati ridotti a 90: 60 nella versione A e 30 nella versione B a decollo verticale (15 per l'Aeronautica e 15 per la Marina).
L'assemblaggio del primo comincerà a luglio: l'ingresso in servizio è previsto per il 2015 nel 32mo stormo di Amendola (Foggia). L'ultimo dovrebbe arrivare nel 2027.
Cosa sostituiranno? Con i 90 F-35 l'Italia rimpiazzerà tutti i cacciabombardieri Tornado e Amx dell'Aeronautica e gli Harrier a decollo verticale della Marina.
Attualmente si tratta di circa 140 aerei ancora in servizio operativo: ciascuno ha costi di gestione molto più alti di quelli previsti per l'F-35. Quanti ordini ha firmato l'Italia? Finora gli ordini firmati riguardano solo 3 aerei del lotto di produzione sesto, mentre l'Italia si prepara a firmare il contratto per altri tre del settimo lotto. Nell'immediato futuro ne sono previsti quattro dell'ottavo lotto. Quanto deve pagare l'Italia per i primi caccia? Secondo il sito specializzato Analisi Difesa, l'Italia deve versare entro poche settimane 396,4 milioni di euro per il pagamento dei primi tre F-35 ordinati.
Entro fine anno è previsto il pagamento di altri 516 milioni di euro. Questa cifra comprenderà gli altri tre F-35 di cui si prevede l'ordinazione e stock di ricambi per velivoli e motori.
Il sito ritiene che il costo per ognuno di questi primi F-35 sarà di 154 milioni di euro.
L'Italia può uscire dal programma?
Il nostro paese non è formalmente vincolato ad altri acquisti.
Uscire dal programma significherebbe perdere i fondi investiti nello sviluppo e soprattutto quelli spesi per costruire l'impianto di assemblaggio italiano: una cifra globale vicina ai due miliardi di euro.
Resterebbe il problema di trovare un rimpiazzo per la flotta di cacciabombardieri, usati dal 1991 nelle operazioni internazionali in Iraq, Bosnia, Kosovo, Libia ed Afghanistan.
Perché l'Italia ha scelto di costruire una fabbrica per gli F-35? L'Italia è l'unico partner europeo che ha deciso di costruire un impianto per assemblare gli F-35 utilizzando componenti prodotte altrove.
La fabbrica chiamata Faco è stata completata nella base militare di Cameri (Novara) a spese del governo.
Il costo è stimato dalla rivista Aviation Week in un miliardo di dollari.
Lo stabilimento è stato realizzato ipotizzando la costruzione di 250 F-35, inclusi 131 per l'Italia e 85 per l'Olanda.
Solo con questi numeri si rientrerà dell'investimento.
Ma l'Italia li ha già ridotti a 90 e l'Olanda ha ritardato l'acquisto in attesa che siano pronte le versioni operative mentre pensa di limitare l'ordine a soli 50.
Eventuali altri compratori invece dovranno trovare più conveniente far assemblare gli F-35 nell'impianto piemontese e non dalla Lockheed.
Quanto lavoro creerà in Italia?
Le forze armate ritengono che si potranno creare 10 mila posti di lavoro e ci sarà una ricaduta per le aziende italiane pari a 18,6 miliardi di dollari.
Queste stime si basano però su una produzione a Cameri di 250 velivoli e sulla prospettiva che altri acquirenti dell'F-35, ad esempio la Turchia e Israele, affidino allo stabilimento piemontese la manutenzione dei loro caccia.
Al momento non ci sono accordi firmati.
Lockheed invece ha prospettato una ricaduta per l'Italia pari a 9 miliardi di dollari, senza calcolare l'attività di supporto e manutenzione, più altri quattro miliardi di dollari da assegnare.
Le ricadute occupazionali per l'Italia sono garantite? Contrariamente ai programmi del passato, per l'F-35 non ci sono accordi scritti che garantiscono all'Italia un carico di lavoro in cambio dell'acquisto degli aerei.
Lockheed ha assegnato all'Alenia la produzione di parte delle ali ma ogni fornitura deve rispondere a requisiti di qualità e convenienza.
I vertici della Difesa ritengono che questo obbligherà Alenia a uscire dal mercato protetto dei vecchi contratti e la spingerà ad essere più competitiva.
Il rischio è che le nostre aziende si trovino a lavorare in perdita o rinunciare ai contratti per effetto della concorrenza americana o di altri produttori.
Quali altre aziende italiane sono coinvolte?
Oltre ad Alenia, Selex, Aerea, Secondo Mona e Sirio Panel stanno producendo componenti dell'F-35 per conto di Lockheed.
Quali sono i vantaggi tecnologici per l'Italia?
Gran parte degli esperti ritengono che siano limitati.
Gli ingegneri italiani che hanno partecipato alla progettazione sono pochi e hanno avuto un ruolo marginale.
Il Pentagono ha riconosciuto che gran parte delle informazioni tecniche sono state tenute segrete anche ai paesi partner.
L'attività nello stabilimento di Cameri sarà essenzialmente di assemblaggio, senza sviluppo di tecnologie autonome.
Gli aerei italiani saranno al livello di quegli americani?
Il programma prevede versioni di software diversi tra gli F-35 per gli Stati Uniti e quelli destinati agli altri paesi.
Poiché la progettazione del software non è ancora stata completata, è difficile stabilire quali saranno le differenze e le limitazioni operative: il pacchetto destinato anche all'Italia sarà pronto solo nel 2016.
Ma sulla nostra Cavour, in servizio già da anni?
Cosa significa questo in termini di costi e di fermo in cantiere? Certo non sarebbe la prima volta, il ponte della Cavour l’hanno già dovuto rifare pochi mesi dopo che la nave ammiraglia della nostra Marina era entrata in servizio.
Il rivestimento andava in frantumi con rischi per le operazioni di volo.
L’hanno dovuto rivestire di nuovo con una sostanza più resistente. E con quali costi non si sa. 
Manovre di atterraggio degli F35
Questo tipo di manovra consiste nell’avvicinarsi alla nave riducendo la velocità a 35 nodi (circa 65 chilometri l’ora), toccare piuttosto rudemente il ponte di volo e poi frenare disperatamente per fermarsi in circa 400 piedi, più o meno 120 metri.
Chessaramai!
Pare invece che qualcosa sarà perché, non solo bisogna riaddestrare tutti i piloti per fare questa manovra (pilotare a 65 chilometri l’ora un aereo che, senza carichi e carburante, pesa una quindicina di tonnellate mentre sta cercando si posarsi su una nave in movimento, è più un exploit da videogame che una manovra fatta da qualcuno sano di mente), ma soprattutto bisogna ridisegnare il ponte di volo e riscrivere una parte del software dell’aereo.
Dice infatti lo stesso rapporto britannico: “La tecnologia (quella dell’atterraggio Srvl, ndr) non è attualmente testata e richiede la riprogettazione del ponte di volo e del software dell’aereo”.
E non sarà pronta comunque prima del 2020.
Ma i primi F-35B italiani dovrebbero (tra molte virgolette) entrare in servizio nel 2015.
Nel frattempo? Resta da sperare che non sia umido o non faccia caldo.
Perché il problema non si presenta solo quando l’aereo ha tonnellate di bombe a bordo.
Il rapporto cita come esempio il missile aria-aria Meteor che pesa solo 185 chili ma che costa 2,1 milioni di sterline (2,4 milioni di euro).
Anche questo dovrebbe essere sganciato in mare per atterrare.
Due milioni e mezzo ai pesci, letteralmente.
Per non parlare del carburante.
Insomma, non resta che pregare che il protocollo di Kyoto funzioni. Se il clima continua a cambiare ai ritmi attuali, persino nell’Artico tra un po’ farà caldo e umido.
E allora, bye bye F-35.


La sindrome di Stendhal fra leggenda e scienza


Una sorta di attacco di panico innanzi ad un’opera d’arte o ad un paesaggio, insomma, innanzi alla bellezza. 
Un disturbo che alcuni, forse quelli più sensibili, provano sulla loro pelle. 

 Si tratta della Sindrome si Stendhal, comunemente chiamata anche sindrome del viaggiatore.
 Le origini vengono fatte risalire al noto scrittore francese che ne fu colpito personalmente durante il Gran Tour del 1817 e ne descrive gli effetti in “Napoli e Firenze: un viaggio da Milano a Reggio" con queste parole:
Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed dai sentimenti appassionati. 
Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me era inaridita, camminavo temendo di cadere”.

 Ma la formulazione scientifica si deve alla psichiatra Graziella Magherini, la quale, osservando a Firenze più di cento casi, sostiene che la sindrome di Stendhal risalga a prima del XIX secolo. 

Nel cinema, come non ricordare il film di Dario Argento del 1996, “La sindrome di Stendhal”, dove la giovane poliziotta Anna Manni, interpretata da Asia Argento, sviene all’interno degli Uffizi, innanzi alla maestosità di un’opera d’arte.


Ma non mancano neppure i riferimenti musicali, come ad esempio “L’orizzonte di K.D.” di Francesco Guccini.

 Un fenomeno che suscita interesse e che spesso è velato da un alone di mistero, di leggenda, quasi a volersi chiedere se tale sindrome esista davvero oppure no. 
 Per chiarire ogni dubbio abbiamo chiesto al Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, professore a contratto di Medicina delle Dipendenze presso la Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Pisa. 

 Cosa è la sindrome di Stendhal e come si manifesta?

 La sindrome di Stendhal è una descrizione di uno stato emotivo caotico che si sviluppa durante una condizione di estrema eccitazione e compiacimento per bellezze estetiche o per esperienze da cui si hanno grandi aspettative di "rivelazione" o "illuminazione". La sindrome inizia da prima delle crisi che poi la persona indica.
 Le crisi sono solo momenti di perdita del controllo paragonabili ad un attacco di panico. 
 Poiché hanno sintomi particolari come la sensazione di fluttuazione fuori dal mondo, fuori dal corpo o l'amplificazione delle sensazioni, sono automaticamente collegate a ciò che in quel momento si stava facendo, come ad esempio contemplare un'opera o assistere ad una esibizione o guardare un paesaggio.
 Mi viene in mente una descrizione più "attuale", che è contenuta in una canzone di Guccini, "L’orizzonte di K.D." Somiglia molto alla descrizione originale di Stendhal, una crisi alla contemplazione, in quel caso, di un paesaggio da un ponte, seguita da uno stato di tristezza misto a stupore. 

 Quali sono le cause scatenanti? 

 Sono manifestazioni di sindromi psichiatriche già note, infatti continuano poi anche in maniera slegata dalla contemplazione di bellezze.
 Possono essere l'esordio semplicemente di un disturbo bipolare.
 Le descrizioni somigliano molto a quelle degli stati pre-deliranti oppure delle crisi "temporali" pseudo-epilettiche che hanno questi pazienti prima di manifestare i classici sintomi della malattia.

 Che soggetti colpisce?

 Persone che hanno sintomi "temporali", cioè del lobo temporale: tendenza alla scrittura "a fiume", sensibilità alla musica (soprattutto triste), tendenza a scrivere, immaginare e ascoltare quando si è tristi, day-dreaming, cioè sogno ad occhi aperti, sentirsi dissociati dal proprio passato e futuro, come burattini che assorbono dall'ambiente senza avere un'identità o una storia, ovviamente tutti sintomi che capitano ogni tanto e vanno via da soli a cose normali. Si dice che non colpisca gli italiani.

 Corrisponde a verità? 

 Ogni territorio ha le sue descrizioni equivalenti, ovviamente l'Italiano medio è relativamente insensibile a ciò che vede ogni giorno, Stendhal si sentì male a Firenze.
 Gli Italiani tendono a rimanere impressionati da altre realtà, come ad esempio il deserto. 

 Che analogie e che differenze ci sono fra la sindrome di Stendhal e le sindromi di Gerusalemme e di Parigi?

 La Sindrome di Gerusalemme così come è descritta sembra semplicemente un episodio di psicosi, con tema mistico. Non è un disturbo a parte, una crisi di delirio che inizia durante una gita in luoghi sacri. Ma le persone di solito sono predisposte in quella fase. La Sindrome di Parigi sembra una versione della Stendhal. 
Essa colpiva turisti di altre culture, quindi era più legata al passaggio ad una cultura esotica. 

 Come ad esempio la predilezione di Gaugin per Tahiti?

 Nel caso di Gaugin si trattava di un gusto. Bisogna tener conto che queste sindromi sono esperienze tormentose, sgradevoli, intensamente coinvolgenti ma come un incubo.

 In che modo è possibile guarirne?

 Non è una sindrome a se stante, per cui va fatto riferimento alla malattia di cui è espressione, magari la prima espressione.
 Diciamo che fino ad ora nessuno si presenta in ambulatorio dichiarandosi vittima della sindrome di Stendhal e non è una diagnosi da manuale.

 Allora cosa bisogna fare quando si avvertono alcuni sintomi, come ad esempio gli attacchi di panico, in un luogo altamente artistico o innanzi ad un paesaggio?

 L'attacco passa, lascia un senso di svuotamento e tristezza, oppure prelude ad uno stato di perplessità che poi si protrae nei giorni.
 Se la cosa protrae in questo ultimo senso è bene farsi visitare. 

 Fonte : http://www.agoravox.it/

Il gelso : origini, miti, proprietà e benefici


 Il re normanno Ruggiero II introdusse il gelso bianco nel regno di Sicilia nel 1130. 
 Nel 1500 in tutto l'Italia era già diffuso. 
Precedentemente veniva coltivato nell'impero Bizantino, dove il gelso bianco era arrivato dalla Cina attraverso la Persia.
 Fino al VI secolo la Cina aveva invaso l'Europa con le sue sete che i romani e i bizantini pagavano a peso d'oro.
 La via della seta attraversava tutta l'Asia centrale e attraverso numerosi intermediari arrivava in Europa.
 Per lungo tempo si pensò che la seta fosse prodotta dagli alberi, fino a quando nel 555 due monaci (a rischio della propria vita) portarono nei manici dei bastoni alcune uova del bombice del gelso, i cui bruchi sono i bachi da seta.

 I cinesi lo conoscevano da 3.000 anni; le cronache narrano che verso che verso il 2.700 a.C. l'imperatrice Si-Ling-Chi, dopo aver osservato dei piccoli bruchi che mangiavano le foglie di gelso bianco e che tessevano dei bozzoli sericei in cui si chiudevano per diventare crisalidi, ebbe l'idea di allevarli per trarre profitto dalla loro seta lucente.

 Per i suoi frutti si coltivava (prima del gelso bianco) il gelso nero (Morus nigra L.) con foglie e frutti di colore scuro.
 In Grecia si conosceva la mora viola/nerastra chiamata Sykaminon, nome derivato da Sukè , il "fico" o più correttamente moron, frutto del rovo. 
 Secondo Plinio e Dioscoride, il gelso costituiva una cura contro la diarrea. combatteva i parassiti intestinali e le foglie tritate , con l'uso di un po' d'olio, venivano applicate sulle ustioni.

 Nella metamorfosi di Ovidio, il gelso nero tratta della drammatica storia di due giovani babilonesi: due giovani si amavano teneramente e si trovavano spesso presso una fonte all'ombra di un albero di gelso.
 Di nascosto, perché le famiglie come nell'opera di Shakespeare "Romeo e Giulietta" contrastavano questa unione.
 Un giorno Tisbe (nome della giovane innamorata) arrivata per prima alla fonte, scorse una leonessa e fuggì spaventata, lasciando cadere il velo che la ricopriva. 
La belva lacerandolo lo arrossò del sangue di una preda che aveva precedentemente uccisa. Poco dopo arrivò Piramo (nome del giovane) trovò il velo e credette che Tisbe fosse morta per colpa sua. 
Disperato si trafisse il cuore e il suo sangue schizzò le more del gelso. 
Quando Tisbe tornò e vide l'accaduto maledì l'albero: "porterai per sempre frutti scuri in segno di lutto per testimoniare che due amanti ti bagnarono con il loro "sangue" e si trafisse con la stessa spada usata da Piramo. 
 Da allora i frutti del gelso nero prima bianchi poi rossi, quando maturano assumono un colore porpora scuro. 
 Se Ovidio attribuisce a questa leggenda un'origine asiatica è perché il gelso nero proviene da Sud, nel Caucaso, dal Mar Caspio, dall'Armenia e dall'Iran del Nord. 
Da lì, la sua coltivazione si diffuse in nord-Africa, poi nella Spagna e in Italia, ma la seta ottenuta è di scarsa qualità.


PROPRIETA'

Il gelso bianco: ha un frutto carnoso giallastro-bianco, dolciastro ma con tendenza all’acidulo, quindi poco gradevole e per questo poco utilizzato in cucina: in tal caso, specificatamente per usufruire del suo effetto lassativo. 
Gli studi scientifici hanno constatato che possiede anche una notevole attività antibatterica contro il batterio coinvolto nella carie dentale. E la radice è molto apprezzata come rimedio naturale contro la tosse e l’asma. 
Gli antichi producevano una farina dolcificante a partire dai suoi frutti essiccati, vista la grande quantità di zuccheri che contiene. 


Il gelso nero: molto simile al precedente, possiede però frutti più grossi e saporiti, di colore nero-violaceo, succosi, che consentono di produrre uno sciroppo acido e astringente che, diluito nell’acqua, diviene un ottimo dissetante e un efficace colluttorio (per gargarismi) in caso di infiammazioni alla bocca o alla gola e di tosse, come espettorante. 
Anche la corteccia della radice viene utilizzata come diuretico, purgante, ipoglicemizzante ed antianemico, nonché recenti studi hanno rilevato che in essa è contenuta anche la morusina, flavonoide con azione analgesica ideale nei casi di dolori alle terminazioni nervose (nella cute, sottocute, muscoli, fasce muscolari, articolazioni, periostio, sistema vascolare). 
Il gelso nero poi, contiene anche antocianosidi (azione vaso protettrice), acidi organici e glucidi; nelle foglie si trovano anche aminoacidi, acido folico, acido folinico, manganese, zinco boro, rame e composti volatili con azione diuretica e antibiotica e l’estratto che si ricava riequilibra il metabolismo cellulare diminuendo il grasso ed il colesterolo contenuti nel sangue.
 Avendo, sia le foglie sia le radici, anche il tannino, la pianta del gelso viene sconsigliata in tutti i suoi usi (infuso e decotto) se si soffre di gastrite e ulcera gastroduodenale.
 Non bisogna dimenticare che come frutto, il gelso nero può essere tranquillamente mangiato al naturale e che, solitamente, in piena maturità, viene utilizzato per preparare gelatine, confetture, marmellate, sciroppi, sorbetti e, data la quantità di zuccheri che possiede, anche per ottenere bevande alcoliche, per fermentazione. La polpa viene usata in cosmesi per maschere lenitive di pelli secche ed il succo nelle lozioni idratanti.


Infuso:
 sminuzzate una manciata di foglie in mezzo litro di acqua e lasciate in infusione per 10 minuti e bevetene 3 tazze al giorno prima dei pasti principali. Può essere utilizzato per gargarismi in caso di angina, stomatiti e afte e per curare la diarrea e beneficiare delle sue proprietà diuretiche ed antibiotiche.

 Decotto: 
con le foglie, usatene 2 manciate in ½ lt di acqua; con la corteccia, usate 5-12 gr per ½ lt di acqua. E’ ideale in caso di diabete ed insufficienza renale. Con il frutto, versate 100 gr di more in 1 lt di acqua (in una pentola) e ponete sul fuoco. Fate bollire per mezz’ora e poi spegnete. A parte, fate sciogliere 50 gr di zucchero in acqua calda. Con un colino, filtrate il decotto di more e aggiungete quindi lo zucchero sciolto. Il decotto è pronto e potete berlo ancora caldo: è ideale come espettorante e per calmare la tosse nei bambini o persone deboli/delicate.

 Sciroppo:
 40gr di sciroppo di more di gelso è ideale per fare gargarismi in caso di afte e faringite, lo si può acquistare in farmacia.

 Impacco per la pelle:
 fate bollire le foglie e procedete poi facendo degli impacchi sulle zone irritate.

 Liquore:
 miscelate la polpa con alcool e zucchero e lasciatela riposare al sole per 4 giorni. Agitatela, talvolta, per far sciogliere bene lo zucchero. Ponetela poi al buio per 40 giorni, in un luogo asciutto: ideale è lasciarlo invecchiare ancora per 2 mesi.

 Fonte: vivodibenessere.it

Orrore allo zoo di Copenaghen: dopo la giraffa uccisi anche 4 leoni



E’ di qualche giorno fa il grido di allarme della Lav per questa strage silenziosa sulle soppressione degli animali nei circhi e negli zoo. 
Quello di Copenhagen è stato già nella gogna mediatica per la giraffa Marius e la sua “eutanasia” per astruse ragioni di consanguineità genetica.
 Stavolta quasi per una sorta di ironia (avevano mangiato la carne di Marius ) è toccato ad una famiglia di leoni due adulti e due cuccioli ad essere uccisi per far posto ad un nuovo maschio. 

 Ecco la motivazione esilarante della direzione dello zoo danese: "A causa della struttura del naturale orgoglio dei leoni e il loro comportamento, lo zoo ha dovuto procedere alla eutanasia di due vecchi leoni e di due giovani leoni che non erano abbastanza grandi per badare a loro stessi ( erano cuccioli!!!)
 In dieci mesi i vecchi leoni "sarebbero stati uccisi dal nuovo leone maschio, non appena avrebbe avuto la possibilità".

 Avete letto bene: sono stati uccisi perché erano in pericolo di essere uccisi.

 I quattro leoni sono stati giustiziati l’altro ieri, dopo che lo zoo non era riuscito a trovare una nuova casa per loro, confermando che i quattro erano tutti dalla stessa famiglia.
 Nessuna dissezione pubblica degli animali dal momento che "non tutti i nostri animali vengono sezionati di fronte a un pubblico".

 Il fatto di Marius aveva scioccato migliaia di amanti degli animali di tutto il mondo che avevano firmato una petizione online per salvarlo. 
Lo zoo ha detto sul suo sito web che non aveva altra scelta, ma per impedire il raggiungimento dell'età adulta degli animali, poiché, ai sensi Associazione Europea Zoo e Acquari , consanguineità tra giraffe è da evitare. 
 Ora i Danesi si ribellano alla campagna internazionale ed un accademico danese, esperto di etica del trattamento degli animali ha difeso lo zoo e denunciato la disneyficazione" delle creature degli zoo.
 Noi ci limitiamo a rammentare, su una denunzia della Lav, la situazione: “.... Un evento atroce, ma sapete quanti sono gli animali che ogni anno vengono soppressi negli zoo di tutta Europa? Dai 3 mila ai 5 mila animali. 
A confessare i numeri della strage silenziosa la stessa associazione Europea degli Zoo e Acquari (EAZA), che vorrebbe farci credere che la reclusione di un animale dietro le sbarre sia necessaria e anche educativa”. 

 Una sorta di braccio della morte, dove animali, reclusi, sono solo temporaneamente vivi, ma la sentenza arriva quando per malattia o semplice vecchiaia non sono più all’altezza del compito. 

Oppure, ed è il caso dei piccoli cuccioli, uccisi lunedì, perché erano... in pericolo di vita. 

Fonte:  http://www.agoramagazine.it/

Ville Sbertoli a Pistoia. Il villaggio manicomio


L’edificio che una volta ospitava la famosa Casa di Cura Sbertoli si erge imponente in mezzo al verde delle colline toscane. 
Sito in provincia di Pistoia, a una decina di minuti dal casello autostradale, l’ex manicomio Ville Sbertoli si trova insieme a molti altri edifici all’interno di un vasto complesso al quale si accede attraverso un imponente cancello in ferro verniciato di rosso.
 La storia dell’ex manicomio Ville Sbertoli non è chiara, alcuni amano ricordare l’edificio come un posto d’amore, ma anche di molta sofferenza, altri come un banale centro di cura eretto da un ambizioso dottore.


La prima storia racconta che la villa in origine era la maestosa residenza della Famiglia Sbertoli e che a metà dell’Ottocento si ergeva in tutta la sua maestosità adornata da un grande e bellissimo parco. 
In questa lussuosa residenza però si consumava giorno dopo giorno un penoso vivere: il ricco Sig. Sbertoli che nulla poteva desiderare di più dalla vita, aveva un figlio gravemente malato, un figlio “matto” come si era soliti definire le persone con disturbi mentali. Per tutta la vita, il Sig. Sbertoli cercò una cura per il figlio senza trovarla, così prima di morire decise di donare tutti i suoi averi, compresa la villa, a un’opera pia che creasse all’interno della residenza un centro di ricovero per malati mentali, in modo da sapere il figlio in buone mani e nella tranquillità della sua casa natia
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L’altra storia racconta invece che in origine sorgessero due ville patrizie, con annessa la casa per i mezzadri, sulla collina di Pistoia: villa Franchini – Taviani e la villa Rosati.
 Le ville furono acquistate nel 1868 da Agostino Sbertoli originario di Fivizzano in Lunigiana e medico presso il Manicomio di San Benedetto a Pesaro.
 Il dottor Sbertoli spinto dalla sua voglia di fama e ricchezza sognava di aprire una Casa di Cura per malati mentali di cui diventare il direttore e così fece.
 Le due ville furono trasformate in Manicomio e il complesso acquistò subito molta popolarità.
 Per soddisfare la numerosa clientela il dottor Sbertoli decise di ingrandire il complesso sanitario e iniziò la costruzione di nuovi edifici che oggi si trovano disseminati su una vasta superficie.
 I pazienti vennero suddivisi nelle diverse strutture in base al sesso,allo status sociale e al grado e tipo di malattia e grazie alla riservatezza che la clinica offriva ai malati questa divenne molto famosa anche fra le famiglie facoltose. 
Nella clinica venivano curati pazienti affetti da moltissimi tipi di disturbi mentali, anche epilettici, alcoolisti e ipocondriaci, così Ville Sbertoli divenne rinomata anche oltre il confine italiano accogliendo pazienti da tutta Europa.
 Anche illustri personaggi come il poeta Severino Ferrari e l’illustre giurista Francesco Bonaini furono ricoverati a Ville Sbertoli.


Dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai primi del Novecento nella Casa di Cura si recarono moltissimi illustri psichiatri italiani per compiere i loro consulti, alcuni dei più illustri furono Cesare Lombroso, professore di medicina legale all’Università di Torino e fondatore dell’antropologia criminale e pioniere della frenologia ed Eugenio Tanzi, che dal 1895 al 1931 fu a capo del manicomio di San Salvi a Firenze.
 Nel 1898 Agostino Sbertoli morì lasciando la conduzione del manicomio al figlio Nino che continuò l’opera del padre. 
Nino fece ampliare le strutture, costruire una centrale elettrica all’interno del complesso e un tunnel per collegare la sede della direzione con i principali edifici per permettere comodi spostamenti ai medici e infermieri. 
Nel 1920 Nino abbandonò l’attività e cedette il Manicomio a un gruppo di privati pistoiesi.
 Nel 1950 il complesso fu acquistato dall’Amministrazione Provinciale di Pistoia che lo convertì in Ospedale Neuropsichiatrico Provinciale.

 Nel 1978 Franco Basaglia, psichiatra di grande fama italiana, si impegnò nel compito di riformare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, proponendo un superamento della logica manicomiale, così il 13 maggio 1978 con la Legge Basaglia si impose la chiusura di tutti i manicomi sul territorio italiano. 
Come disse lo stesso Basaglia intervistato da Maurizio Costanzo: “Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione”
 L’ex manicomio passò quindi alle dipendenze della USL n. 8 di Pistoia e con il passare del tempo venne abbandonato e lasciato esposto al più triste deperimento.


La visita al sito è affascinante e ricca di sorprese, all’interno del complesso alcuni edifici sono ancora utilizzati come uffici o sedi universitarie. 
La villa che un tempo fu manicomio si erge solitaria nascosta dietro a una folta vegetazione sul limitare della strada che attraversa il complesso.
 Il giardino davanti alla villa, oggi invaso dalla vegetazione, doveva essere davvero delizioso un tempo: abbellito da due fontane identiche con statue di tartarughe che in passato zampillavano acqua, da un gazebo in ferro e da qualche palma che svetta malconcia sull’erbaccia. 
Le finestre sono tutte murate e la porta principale è sprangata. Le sbarre alle finestre ricordano al visitatore quello che doveva essere un tempo, sia un luogo di cura ma anche un luogo di estremo dolore.


L’interno della villa è suddiviso in 3 piani più il sottotetto.
 Al piano terra si trova una piccola cappella con ancora le panche e lo scheletro di quello che una volta dove essere l’altare, proseguendo la visita si incontrano stanze ingombre di lettini, schedari, fogli e cartelle.
 Si può anche notare una macchine elettrica che probabilmente veniva utilizzata per i trattamenti elettroterapici.
 Una delle stanze, la più colpita dalla mano dei vandali, ha i muri interamente ricoperti di disegni di uomini armati.
 Al piano di sopra si trovano altre stanze, i bagni, e quella che risulta essere la stanza più bella dell’intero edificio: interamente affrescata e decorata con stucchi, ha grandi finestre e al suo interno si trova ancora un antico pianoforte.
 La grande villa ha mantenuto nel tempo la sua antica altezzosità nobiliare, ma i piccoli dettagli dell’ex manicomio ricoprono l’intero edificio di un triste velo di sofferenza.


I piccoli spioncini sulle porte che servivano per sorvegliare i pazienti, gli altoparlanti affissi sui muri, un vecchio telefono a muro che veniva utilizzato per comunicare all’interno della struttura: tutto ciò rimanda a quello che un tempo era un luogo di reclusione.