sabato 10 novembre 2012

L'acchiappa sogni


Molto tempo prima che arrivasse l’uomo bianco, in un villaggio cheyenne viveva Nuvola Fresca, una bambina. Un giorno la piccola disse alla madre, Ultimo Sospiro della Sera:” quando scende la notte, spesso arriva un uccello nero, becca pezzi del mio corpo e mi mangia finché non arrivi tu a cacciarlo via. Ma non capisco cosa significhi tutto questo”.Ultimo Sospiro della Sera rassicurò la piccola dicendole: “le cose che vedi di notte si chiamano sogni e l’uccello nero che arriva è soltanto un’ombra che viene a salvarti” Nuvola fresca rispose: “ma io ho tanta paura, vorrei vedere solo le ombre bianche che sono buone”. Allora la madre, che in cuor suo sapeva che sarebbe stato ingiusto tralasciare le paure della sua bimba, inventò una rete tonda per pescare i sogni nel lago della notte, poi diede all’oggetto un potere magico: riconoscere i sogni buoni, utili alla crescita spirituale della sua bambina, da quelli cattivi, cioè insignificanti e ingannevoli. Ultimo Sospiro della Sera costruì tanti dream catcher e li appese sulle culle di tutti i piccoli del villaggio cheyenne. Man mano che i bambini crescevano abbellivano il loro acchiappasogni con oggetti a loro cari e il potere magico cresceva, cresceva, cresceva insieme a loro… Ogni cheyenne conserva il suo acchiappasogni per tutta la vita, come oggetto sacro portatore di forza e saggezza. Il funzionamento dell'acchiappasogni secondo i Cheyenne è questo:Il cerchio rappresenta l'universo e al suo interno viene intrecciata una rete simile alla ragnatela di un ragno. Questa rete ha il compito di catturare tutti i sogni. Se i sogni sono positivi, il dream catcher li affiderà al filo delle perline (le forze della natura) e li farà avverare. I sogni negativi invece verranno consegnati alle pime di un uccello che li porterà via. ( leggenda Cheyenne)

Ogni posto è una miniera


Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l’amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove.
La miniera è esattamente la dove si è: basta scavare.

Tiziano Terzani 

Rajasthan.India

Situato al confine tra India e Pakistan a West Rajasthan. La maggior parte degli abitanti di Jaisalmer sono Yadav Bhatti Rajput, che prendono il loro nome da un antenato di nome Bhatti, rinomato come un guerriero quando la tribù si trovavano nel Punjab. Deoraj, un principe famoso della famiglia Bhatti, è stato il vero fondatore della dinastia Jaisalmer, e con lui il titolo di Rawal è iniziato. Nel 1156 Jaisal Rawal, il sesto in successione da Deoraj, fondò la fortezza e la città di Jaisalmer, e ne fece la sua capitale. Durante il Raj britannico, Jaisalmer fu sede di uno stato principesco con lo stesso nome, governata dal clan Bhati dei Rajput. Il discendente attuale è Brijraj Singh. Anche se la città è sotto il governo del governo indiano, un sacco di lavoro sociale è svolta da lui e la sua famiglia. La Famiglia Reale comanda ancora ricevendo il massimo rispetto da parte del popolo.

Castello di Tures


Narra la leggenda che lo spirito senza pace di Margarete von Taufers abiti ancora le antiche sale, ricordando ai visitatori il suo infelice, struggente amore per un giovane di basso lignaggio, assassinato il giorno delle loro nozze per l’imperioso volere della famiglia von Taufers. Da quel giorno Margarete pianse per sette anni il proprio amato, prima di ricongiungersi a lui allo scoccare del settimo anniversario gettandosi dalla finestra.

Il castello di Tures è uno dei castelli più belli e grandi di tutto il Tirolo. La sua posizione è senza dubbio magnifica: alto sopra il paese, in una postazione dominante davanti all'imponente panorama delle vette dolomitiche. In passato i sovrani di Tures appartenevano ad una stirpe molto potente nel Tirolo; erano degni di essere paragonati ai Conti del Tirolo e di Appiano oppure di ognuno dei Baroni di Wangen. Furono nominati per la prima volta nel 1130 e si estinsero nel 1340. Il castello di Tures apparteneva a questa stirpe già a partire dal 1315. In seguito si succedettero diversi casati, fino a quando il castello non andò in rovina. All'inizio del ventesimo secolo fu restaurato da Ludwig Lobmayr e dopo il 1945 fu nuovamente restaurato sotto l'amministrazione di Hieronymus Gassner. Nel 1977 l'Istituto dei Castelli dell'Alto Adige entrò in suo possesso. La sezione romanica del castello è originaria del periodo dei Signori di Tures, mentre quella gotica risale al tempo dei Vescovi di Bressanone. "Der Bergfried", la considerevole torre abitabile con le doppie finestre ad arco e la cappella del castello in stile romanico risalgono al primo periodo di costruzione (Tredicesimo secolo). Successivamente, dopo il 1500 il castello venne ampliato con nuovi e complicati portoni, parti abitabili, cammini di ronda, due ponti levatoi, granai, un pittoresco chiosco ed infine con delle cisterne. Oggi un terzo della costruzione è accessibile al pubblico.

Poiché il castello non è mai stato esposto ad attacchi e devastazioni, i suppellettili si sono conservati quasi completamente integri. Il castello possiede 64 locali ben arredati, i quali in parte sono dotati di stufa di maiolica. Ventiquattro di essi sono rivestiti con legno di cembro.






















Nella cappella si trovano delle opere d'arte romaniche e gotiche, fra le quali quelle di Pacher-Fresken. Ritratti di famiglie sudtirolesi, splendidi armadi risalenti all'età gotica e rinascimentale, armamenti ed una grande biblioteca danno l'impressione di quella che era la vita nel castello. Oltre a ciò i visitatori possono ammirare la sala delle udienze, alla cui colonna di mezzo venivano legati gli imputati durante il dibattimento, la sala da pranzo, la stanza del cappellano, la torre con la camera di tortura, la prigione, la cappella, l'armeria, la stanza principesca ed infine la sala dei cavalieri. Tra i locali più affascinanti c'è senza dubbio la biblioteca, con i suoi magnifici ed elaborati soffitti a cassettoni, con le sue splendide librerie e con la sua stufa di maiolica.

Strane coincidenze

Trovate qualcosa in comune... tra queste due figure??? Sembrano quasi fatti dallo stesso artista e comunque potrebbero sembrare dei di uno stesso popolo. Invece non è così: Il primo è stato ritrovato in Amazzonia da Carlo Crespi nella famosa caverna Cueva de los Tayos. Il secondo è il semidio Oannes reperto sumero trovato a Nimrud, in Iraq.

La storia di Azzurrina

La leggenda di Azzurrina sarebbe stata tramandata oralmente per tre secoli, presumibilmente venendo di volta in volta distorta, ampliata, abbellita.

 Solo nel '600 un parroco della zona la mise per iscritto assieme ad altre leggende e storie popolari della bassa Val Marecchia.


 Guendalina era albina. La superstizione popolare del tempo collegava l'albinismo con eventi di natura magica se non diabolica. Per questo il padre aveva deciso di farla sempre scortare da un paio di guardie e non la faceva mai uscire di casa per proteggerla dalle dicerie e dal pregiudizio popolare. La madre le tingeva ripetutamente i capelli con pigmenti di natura vegetale estremamente volatili. Questi, complice la scarsa capacità dei capelli albini di trattenere il pigmento, avevano dato alla bimba riflessi azzurri che ne originarono il soprannome di Azzurrina.


 La leggenda narra che il 21 giugno del 1375, nel giorno del solstizio d'estate, Azzurrina giocava nel castello di Montebello con una palla di stracci mentre fuori infuriava un temporale. Era vigilata da due armigeri di nome Domenico e Ruggero. Secondo il resoconto delle guardie la bambina inseguì la palla caduta all'interno della ghiacciaia sotterranea. Avendo sentito un urlo le guardie accorsero nel locale entrando dall'unico ingresso ma non trovarono traccia della bambina. Il suo corpo non venne più ritrovato.


 La leggenda vuole che il fantasma della bambina sia rimasto intrappolato nel castello e che torni a farsi sentire nel solstizio d'estate....

Giuseppe Arcimboldo,

E’ inevitabile, se ci si accinge ad occuparsi del simbolismo nell’arte, incontrare il pittore E’ inevitabile, se ci si accinge ad occuparsi del simbolismo nell’arte, incontrare il pittore Giuseppe Arcimboldo, maestro dell’arte di scomporre e ricomporre la realtà in modo originale, unico ed inconfondibile. maestro dell’arte di scomporre e ricomporre la realtà in modo originale, unico ed inconfondibile.
Era nato, forse a Milano, nel 1527.Apparterrebbe a un casato,risalente all’epoca di Carlo Magno, stabilitisi poi in Italia. Il prozio dell’artista ebbe la carica di arcivescovo di Milano dal 1550 al 1555 egli fu l’artefice della formazione intellettuale del pittore introducendolo nel mondo culturale della città. Dal 1549 al 1559 lavorò alla fabbrica del Duomo di Milano. Nel 1962 si trasferì a Praga,da allora fu profondo e radicale il mutamento di linguaggio artistico. Si avvicinò al mondo alchimico e dei Rosa+Croce. Questa città centro dell’esoterismo europeo,si conquistò l’attributo di città magica.Quì acquisì queste conoscenze e elaborò la sua tecnica: scomporre la realtà in parti, come le monadi di Leibnitz o gli atomi di Democrito.
La Grande Opera: “Il Vertumno”, olio su tela del 1590 circa, custodito al Skoklosters Slott, in Svezia, è l’opera probabilmente più famosa di Arcimbold. Il Vetumno, che presso gli antichi romani era il dio della vegetazione e dei cambiamenti. La figura composta da magnifici frutti, fiori e verdure varie rappresentano la sintesi della quattro stagioni.
Il significato segreto dell’acrostico INRI sulla croce del Cristo, Ineffabile Nomen Rerum Initium, in cifre 10, 5, 5, 7, dalla somma delle lettere che compongono le parole. Arcimboldo le cela nei fiori, nei frutti e nelle verdure del suo dio degli inizi e compie la sua Grande Opera, per conservare e trasmettere il segreto, come ogni confratello doveva fare, prima della sua morte.

Poesie di Toto

Stu core analfabbeta tu ll'he purtato a scola, e s'è mparato a scrivere,
e s'è mparato a lleggere sultanto na parola: "Ammore" e niente cchiù.
~ Totò ~

E' questa la vita che vogliamo ?


Ci hanno rubato il nostro io, ci hanno rubato i nostri sogni, ci hanno rubato la nostra anima,ci hanno rubato la libertà,ci hanno rubato la nostra vita, ci hanno rubato tutto.
Ci hanno rubato tutto e non ce ne siamo accorti. Hanno sostituito i nostri veri bisogni con quelli artificiali, facendoceli credere reali. Stiamo seguendo le briciole di pane, come nella favola, che hanno seminato loro, per farci restare sul sentiero scelto da loro, per condurci dove vogliono loro…e noi felici di farlo. E’ questa la vita che vogliamo? Una vita virtuale?

Da ridere? o da piangere!

Dopo monti (ammesso che ci sia un dopo) Se hai una mucca che produce più latte del dovuto paghi la multa per le quote latte imposte dall'UE Se la ricoveri in una stalla paghi l'IMU Per aiutare gli allevatori stanno immettendo in gran quantità sul mercato latte artificiale.

Le carrozze del Quirinale

Appena insediato al Quirinale Vittorio Emanuele II, primo re dell'Italia unita,una delle preoccupazioni del Ministero della Real Casa, fu quella di ricavare nell'antico palazzo dei papi degli spazi sufficienti a contenere cavalli, carrozze e corredi di scuderia.
 La vita della numerosa corte sabauda necessitava di ampi apparati di scuderia, indispensabili sia per le attività quotidiane che per le occasioni di rappresentanza, e le scuderie fatte costruire su piazza del Quirinale dai papi nel Settecento non erano sufficienti a contenere tutto l'occorrente. Si decise allora di edificare un grande fabbricato a forma di "L" che venisse a delimitare l'intero confine nord-occidentale del complesso del Quirinale; la costruzione - oggi detta "Fabbricato Cipolla" dal nome dell'architetto - era abbastanza vasta da poter contenere le scuderie, una pagliara, gallerie per i finimenti ed il vestiario, una rotonda da utilizzare come maneggio, centoventisei stanze per il personale, rimesse per le carrozze. Ancora oggi parte di questo fabbricato ospita l'antica Galleria dei Finimenti e delle Livree, un Gabinetto Storico con i corredi di scuderia più preziosi, l'ufficio del Grande Scudiere (il funzionario regio che si occupava di questo importante settore della vita di corte), le carrozze

. Le carrozze in uso alla corte furono in massima parte realizzate alla fine dell'Ottocento da ditte specializzate. Fanno eccezione solo quattro berline piemontesi e tre del Granducato di Toscana. Le quattro carrozze piemontesi sono i pezzi più antichi e pregiati della collezione del Quirinale, spesso utilizzati nelle occasioni più importanti della storia sabauda: un berlingotto del 1789 con la cassa verniciata in oro e dipinta; una berlina del 1817 detta degli sposi perché utilizzata in occasione delle nozze di Vittorio Emanuele II; un'altra berlina del 1817 la cui cassa è completamente dipinta con le storie dell'eroe greco Telemaco alla ricerca del padre Ulisse; l'Egiziana, costruita per il carnevale torinese del 1819 ma in seguito, tinteggiati in nero gli originari fondi color avorio, utilizzata per i solenni trasporti funebri dei sovrani sabaudi. Risalgono all'inizio dell'Ottocento, precisamente al 1821-22, anche due delle tre carrozze provenienti dal Granducato di Toscana, più semplici e sobrie però rispetto alla straordinaria fastosità e originalità dei quattro splendidi esemplari piemontesi. Tra le 105 carrozze della collezione del Quirinale vale la pena ricordare ancora alcune berline di gala e gran gala prodotte a Milano per Vittorio Emanuele II, vetture coperte o scoperte destinate al servizio privato del re o dei funzionari di corte, vetture per la campagna, carrozzine per bambini, calessini da pony, una piccola berlina in stile rococò donata al principe di Napoli fanciullo, il futuro Vittorio Emanuele III. Berlina di gran gala detta “Telemaco”, 1817








Berlina di gran gala detta “Egiziana”, 1819
Berlina di gran gala detta “di Maria Teresa” o “degli Sposi”, 1817

I primi caffè a Venezia

Le Botteghe del Caffè a Venezia


attrezzi per caffè alla turca
Venezia, importò per prima in Italia il caffè dalla Turchia.
Grande fu la diffusione di questa bevanda ottenuta da una semente chiamata "Kahvè", giunta da Costantinopoli nel 600. La prima bottega del caffè a Venezia fu il Caffè Quadri, nella prima metà del 700, e si distinse per bevanda preparata alla turca
Fu un richiamo per la clientela cosmopolita.
Caffè Lavena 
Accanto al Quadri vi era il Lavena,ritrovo di musicisti,e intellettuali, D' Annunzio, spesso in compagnia della Contessa Casati,con al guinzaglio un leopardo. R. Wagner e altri
I codega 
Fuori sostavano i gondolieri ed i "codega" portatori di lanterne con l'incarico di accompagnare a casa i clienti.
Allora non vi era l'illuminazione nelle strade realizzata solo nel 1732.
In seguito nacque il famoso caffè Florian, che esiste tutt'ora.
Era frequentato dal del Canova, quando sostava a Venezia.
Fu anche la prima bottega del caffè dove anche le donne potevano entrare.
Al Caffè Florian nacque la Gazzetta Veneta del Conte Gaspare Gozzi,che qui aveva la redazione.
Nell'800 venne frequentato da Lord Byron, Foscolo, Goethe, Marcel Proust, Russeau, Stravinsky, Modigliani e altri.
Carlo Goldoni nella sua "Bottega del Caffè" ne descrive lo spirito, era il punto d'incontri, pettegolezzi e chiacchiere o ciàcoe

Innocenzo Manzetti, il vero inventore del telefono

E' paradossale che ancora oggi, dopo quasi un secolo e mezzo dall'invenzione del telefono, si debba ancora porre in dubbio la paternità di questo apparecchio, ormai diventato parte integrante della nostra vita quotidiana. Ma, come è noto, la nebbia che avvolge i misteri della storia copre ancora molte vicende dell'umanità. A prescindere comunque dalla soluzione dell'enigma sulla paternità del telefono, ciò che è certo è che esso è frutto dell'ingegno italiano. Alla voce "telefono" tutte le enciclopedie e i testi scientifici associano il nome di Antonio Meucci, o al massimo citano la storica disputa tra questi e l'americano Alexander Graham Bell. E' comunque Meucci che viene universalmente riconosciuto come inventore dell'apparecchio che rivoluzionò la comunicazione mondiale dell'era moderna. Ma fu veramente il fiorentino Meucci ad inventare il telefono? Non è una domanda casuale, perché vi è un altro italiano, il valdostano Innocenzo Manzetti (Aosta, 1826-1877), a cui deve essere attribuita l'invenzione del primo apparecchio capace di trasmettere la voce e i suoni a distanza. Il valdostano Innocenzo Manzetti precorse con largo anticipo tutti coloro che contribuirono all'invenzione del telefono, riuscendo ad approntare un apparecchio elettrico in grado di comunicare a distanza già negli anni Cinquanta dell'Ottocento. Molto prima di Antonio Meucci (1871) e di Alexander Graham Bell (1876), coloro che oggi vengono unanimemente riconosciuti come inventori del telefono. La sensazionale scoperta di Manzetti ebbe un notevole risalto internazionale grazie ad una serie di articoli apparsi su alcuni giornali italiani, francesi ed americani del 1865-1866, in seguito alla presentazione pubblica della sua invenzione. Purtroppo nonostante questi avvenimenti inconfutabili, il nome di Manzetti non ha mai avuto la possibilità di imporsi con decisione nella storia delle telecomunicazioni e nel mondo scientifico. Diversi sono stati i motivi che hanno relegato nell'oblìo l'inventore. Basti pensare alla sua morte prematura (a soli 51 anni ed appena un anno dopo il brevetto di Bell), che gli impedì di difendere in prima persona la sua priorità. Oppure al fatto che Aosta, eccessivamente periferica all'interno del nuovo Regno d'Italia, nonché investita di ben più gravi problemi di carattere sociale ed economico, era praticamente esclusa dal dibattito culturale e scientifico italiano ed internazionale che avrebbe potuto senza dubbio contribuire a esaltare la sua invenzione. Di conseguenza gli indiscutibili meriti di Manzetti nell'invenzione del telefono sono stati poco a poco dimenticati nel corso degli anni, fino a farne un personaggio sconosciuto ai più, suoi concittadini compresi.

I misteri del Principe di San Severo

IL CRISTO VELATO.
Nell'Archivio Notarile di Napoli è stato rinvenuto il contratto tra il Principe e Giuseppe Sammartino (1720-1793), scultore e artista famoso per la sua abilità. In questo contratto egli s’impegna ad eseguire l'opera di una 'statua raffigurante Nostro Signore morto al naturale da porre situata nella cappella gentilizia del Principe, un Cristo Velato steso sopra un materassosituato sopra un panneggio e appoggia la testa su due cuscini.Il principe si impegnava a procurare il marmo e realizzare una " SINDONE, una tela tessuta la quale dovrà essere depositata sopra la scultura. Dopo che il principe l'haverà lavorata secondo sua propria creazione e cioè una deposizione di strato minutioso di marmo composito in grana finissima sovrapposta al telo. Il quale strato di marmo da usa idea, farà apparire per la sua finezza il sembiante di Nostro Signore dinotante come fosse scolpito di tutto con la statua".
Il Sammartino s’impegnava inoltre a ripulire detta 'Sindone'per renderla un tutt'uno con la statua stessa. E a non svelare a nessuno la 'maniera escogitata dal principe per la Sindone ricovrente la statua". Loro concordarono che l'opera sarebbe stata attribuita al Sammartino. Guardiamo con meraviglia questo capolavoro. Canova avrebbe pagato - (per sua ammissione) - qualsiasi prezzo per averlo, ma essa era invendibile. Il velo NON E' DI MARMO bensì di STOFFA FINISSIMA, MARMORIZZATA CON UN PROCEDIMENTO ALCHEMICO DAL PRINCIPE, a tal punto da costituire un'unica opera con la scultura del Sammartino! La studiosa Miccinelli, la cui ricerca sarà il filo conduttore di questa ricostruzione, avrebbe rintracciato il documento contenente la 'ricetta' per fabbricare questo 'marmo a velo. Il significato dell'opera lo abbiamo in un’iconologia "geroglifica" che mostra il connubio tra arte ed alchimia e ci pone vari interrogativi.