domenica 5 maggio 2013

Il Colosso di Rodi



Sul Colosso abbiamo meno notizie che su qualsiasi altra delle Sette Meraviglie. Non sappiamo dove sorgesse o quale fosse il suo aspetto; gli studiosi peraltro hanno trovato possibile, e non del tutto inutile, mettere insieme tutte le prove e le testimonianze disponibili, per rispondere in qualche misura a entrambi gli interrogativi. Prima di tutto: il significato della parola Colosso.
 Era questa una voce pregreca, originaria dell’Asia occidentale, per indicare una statua, sia pure di modeste dimensioni. In questo senso fu usata dai Dori quando, nel 1000 a. C., si stanziarono nel Dodecanneso e nell’Asia Minore di sudovest. Come tale venne riferita originariamente anche alla statua di Carete dedicata a Elio. Ma dopo la creazione di questo monumento, e la sua inclusione fra le Sette Meraviglie del Mondo Antico, la parola passò a significare soltanto una statua gigantesca.

Sebbene il Colosso sia menzionato circa sedici volte dagli antichi scrittori, solo tre ne parlano a lungo: i loro resoconti però sollevano piú domande di quante siano le risposte che dànno. Si tratta di Strabone, di Plinio il Vecchio e di Filone di Bisanzio. Una quarta fonte è un carme greco, che si ritiene fosse l’iscrizione dedicatoria della statua stessa. Piú recentemente, dal secolo XV in poi, molti hanno scritto qualcosa a proposito del Colosso.
 Le varie opinioni sono state mirabilmente riassunte, in un articolo pubblicato nel 1932, dallo studioso francese A. Gabriel, che vi aggiunse qualche sua costruttiva intuizione personale. Dall’articolo di Gabriel in poi ben poco lavoro è stato compiuto in merito: un articolo di Herbert Maryon del 1956 avanzò nuove ipotesi, soprattutto riguardo alla parte tecnica:
 ipotesi che, subito in gran parte demolite da Denys Haynes, lo indussero a pubblicare la prima ricostruzione accettabile del vero aspetto del Colosso.

In sostanza, dell’aspetto esteriore della statua sappiamo troppo poco, ma alcuni accenni a questo riguardo, fatti da Plinio e Strabone, meritano di essere citati, anche se molto incompleti. 

Plinio, nella sua Naturalis historia, ha scritto: Il piú ammirato di tutti i colossi era quello del Sole che si trovava a Rodi opera di Carete di Lindo, discepolo di Lisippo. Esso era alto 70 cubiti [c. 32 metri]. Questa statua, caduta a terra dopo sessantasei anni a causa di un terremoto, anche se a terra, costituisce tuttavia ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono piú grandi che molte altre statue tutte intere. Vaste cavità si aprono nelle membra spezzate; all’interno si possono osservare pietre di grande dimensione, del cui peso l’artista si era servito per consolidare il colosso durante la costruzione. Dicono che fu costruito in dodici anni e con una spesa di 300 talenti ricavati dalla vendita del materiale abbandonato dal re Demetrio allorché, stanco del suo prolungarsi, tolse l’assedio a Rodi. Nella stessa città ci sono cento altri colossi piú piccoli di questo, ma tali da rendere famoso qualunque luogo in cui si trovasse anche uno solo di essi. (Plinio, Naturalis historia XXXIV 41 sg).

 Strabone, nella sua Geografia, riferisce: La città dei Rodiesi è situata sul promontorio orientale dell’isola, ed è di tanto superiore alle altre città per i suoi porti, le strade, le mura e ogni attrezzatura, che, non sarei in grado di citarne una uguale o tanto meno superiore ad essa. È notevole anche per l’ordine che vi regna e per l’attenta cura agli affari di stato, e in particolare alle questioni navali; grazie a ciò mantenne il predominio sui mari per molto tempo, debellando i pirati e divenendo amica sia dei Romani, sia dei re alleati ai Romani come ai Greci. Perciò, non solo ha conservato la sua autonomia, ma fu anche adorna di molte offerte votive, che per lo piú si trovano nel Dionisio e nel ginnasio, ma anche altrove. Tra le piú importanti di queste vi è anzitutto il Colosso di Elio, che un poeta giambico dice «di 70 cubiti d’altezza, opera di Carete di Lindo». Ora però giace al suolo, abbattuto da un terremoto che gli ha spezzato le ginocchia. 
Il popolo rodio, ammonito da un oracolo, non lo rimise in piedi. Questa dunque è la piú importante delle offerte votive; e ad ogni modo è considerato per opinione generale una delle Sette Meraviglie. (Strabone, Geografia XIV 2.5). 

Resoconti che ci informano pochissimo sull’aspetto reale del Colosso; ma il buon senso, unito a ciò che gli antichi scrittori dicono, o non dicono, porta alla conclusione che il dio stava ritto in piedi e probabilmente nudo.  

 Possiamo formulare altre congetture, e dedurre che una statua di 33 metri, per stare in piedi, doveva avere una linea semplice, pressappoco la forma di una colonna, con una sagoma e un atteggiamento non dissimile da quello di un kuros greco del periodo arcaico. Prima di tutto, dobbiamo rifiutare la ricostruzione di Maryon, che ci presentava un uomo nudo in atto di alzare la destra verso il capo; essa è basata su un frammento di bassorilievo marmoreo rinvenuto a Rodi, che in modo molto evidente rappresenta un atleta in atto di posarsi una corona sul capo, e non ha nulla a che vedere con Elio. Sulla base delle testimonianze credibili, Gabriel ha ipotizzato una possibile, anche se non in alcun modo certa, struttura della statua, che consiste in un giovane nudo, rigidamente diritto, con le gambe unite, una torcia in una mano e una lancia nell’altra. 
Quanto alla testa del dio, gli studiosi hanno sempre fatto riferimento alle monete di Rodi dell’epoca che raffigurano la testa di Elio. 
Molte di esse, circa dello stesso periodo, mostrano il capo circondato dai raggi solari, immagine allora assai comune nelle rappresentazioni di Elio. 
Ma su altre monete rodiesi dello stesso periodo si trova la variante di una testa senza raggi: la questione rimane aperta, con una certa propensione – da parte nostra – per la testa raggiata.  

 L’elemento piú sorprendente dev’essere stato la grandezza della statua, ugualmente impressionante sia dopo la caduta, sia da eretta. La maggior parte delle descrizioni è d’accordo sui 70 cubiti di altezza, anche se una fonte che, nella misura data, forse comprendeva la base, parla invece di 80. La lunghezza del cubito nell’antichità poteva leggermente variare a seconda del luogo o dell’epoca, ma pensiamo di essere nel giusto indicando la statura complessiva del monumento in circa 33 metri. 
Statue al disopra dei 10 metri non erano rare allora in Grecia, ma nessuna è citata grande come il Colosso, né prima né dopo la sua comparsa. L’ispirazione derivò forse dall’Egitto, dove si conoscevano enormi statue di pietra fin dai tempi più antichi; e sappiamo Rodi e l’Egitto strettamente legati nel III secolo a. C. Una delle pochissime statue di tale grandezza, al giorno d’oggi, è quella in bronzo della Libertà, nel porto di New York, eseguita dallo scultore francese Frédéric-Auguste Bartholdi, che aveva nella sua mente il Colosso di Rodi. Inaugurata nel 1886 per commemorare le rivoluzioni francese e americana, con i suoi 46 metri è persino piú alta del Colosso.

Per renderci conto del metodo incredibilmente complicato con cui il Colosso fu costruito, dobbiamo ricorrere a Filone di Bisanzio. Come egli sostiene, non vi è dubbio alcuno che fu forgiata a pezzi, e che Herbert Maryon si sbagliava supponendola fatta di lastre di bronzo martellato. 

Filone racconta: Steso al di sotto un basamento di marmo bianco, l’artefice vi appoggiò anzitutto i piedi della statua fino ai talloni, concepiti in proporzione alle misure del dio, che doveva sollevarsi fino a 70 cubiti di altezza; e la sola pianta del piede superava di già le altre statue. Infatti non era possibile sovrapporre le altre parti dell’opera trasportandole da altri luoghi; bisognava invece sovrapporre le caviglie e far salire l’intera opera su se stessa, come un edificio in muratura. Per questo, mentre gli artisti modellano le altre statue in un primo tempo, poi fondono le varie membra separatamente e finalmente le compongono tutte insieme, qui alla parte fusa per prima era subito attaccata sopra la seconda, e su questa veniva sistemata la terza dopo la fusione, quindi la successiva, ancora con lo stesso sistema. Infatti non era possibile rimuovere le singole membra metalliche. Avvenuta la fusione sopra le parti precedentemente disposte, si assicuravano gli stacchi degli agganci e le giunture delle graffe, e si garantiva l’equilibrio gettando pietre nell’interno. Per continuare poi su basi salde il piano delle operazioni, al compimento di ciascuna delle sezioni del colosso l’artista accumulava tutt’intorno una massa mostruosa di terra, nascondendovi sotto la parte già finita e fondendo su quella piattaforma le successive. 
È evidente che, dato un simile modo di procedere, la statua non poteva avere braccia tese in nessuna direzione, se non forse verso l’alto. Il fatto che Carete fosse allievo di Lisippo ci suggerisce qualcosa sull’aspetto dell’opera, quello che era in uso al tempo in cui la statua fu costruita. Anche se immobile, non poteva avere l’austera e grave fissità di uno degli arcaici kuroi greci. Lisippo si compiaceva di aggiungere un agile senso di moto a un corpo atletico in riposo, e l’Elio di Carete non deve aver fatto eccezione. 
Nessuna delle fonti antiche riferisce sulla collocazione esatta del Colosso nella città di Rodi, un’omissione che ha dato luogo a innumerevoli tentativi di situarlo, tentativi tutti scrupolosamente analizzati da Gabriel. Possiamo non tenere in alcun conto la teoria che la statua fosse nel deigma, o bazar, a sudest del porto di Mandraki, poiché tale teoria si basa sull’errata lettura di certi testi antichi. Si è anche asserito che nella città bassa vi era una cappella di San Giovanni al Colosso, eretta sul sito del Colosso stesso; ma Gabriel ha dimostrato non esservi mai stata una cappella in quella parte della città.
 La credenza che la statua fosse collocata a cavallo del porto, poi denominato Mandraki, è riportata negli scritti di un pellegrino italiano, un certo De Martoni, che visitò Rodi nel 1394-95. Egli citava una tradizione popolare, secondo la quale la statua poggiava un piede dove, al tempo suo, sorgeva la chiesa di San Nicola (oggi forte San Nicola), all’ingresso orientale del porto, mentre l’altro piede poggiava sul fianco opposto dell’imbocco del porto. Cosa chiaramente impossibile, perché l’apertura delle gambe della statua, come fece osservare Gabriel, avrebbe dovuto superare in tal caso i 400 metri. Eppure quest’idea, insieme all’altra che il Colosso reggesse una torcia a mo’ di faro, ebbe ampia diffusione nel Medioevo, sia in racconti scritti sia su disegni. 
Questa credenza può esser anche derivata dalla cattiva interpretazione di un carme tramandato nell’Antologia Palatina. Con ogni probabilità è l’iscrizione dedicatoria del Colosso: Sole, per te gli abitanti di Rodi la dorica, al cielo il colosso levarono di bronzo, quando, sopiti marosi di guerra, di spoglie nemiche fecero per la patria una corona. Ché sulla terra né solo sul mare l’eressero, lume dolce di libertà senza servaggio. Sono Eraclidi di stirpe, non è che un avito retaggio sulla terra e sul pelago l’impero. (Antologia Palatina VI 171).
 Forse ispirata a quanto sopra è la supposizione, risalente al XV secolo, che il Colosso si ergesse dove De Martoni aveva collocato il piede destro della statua, e cioè all’imbocco orientale del porto di Mandraki. Qui, al tempo dei Cavalieri, vi erano prima una chiesa, poi un forte (che esiste tuttora), dedicato a San Nicola. Questa è la posizione che Gabriel preferisce, e molti elementi l’appoggiano. Certamente nel forte è incorporato materiale da costruzione antico, e Gabriel ha dimostrato la fondata possibilità che le macerie della statua non siano rotolate nel mare, ma siano rimaste sulla terra. Sappiamo anche che, dopo il Colosso, si diffuse il costume di collocare statue gigantesche all’ingresso dei porti, come quelle di Ostia, il porto di Roma, e di Cesarea in Palestina.
 Quest’ultimo è menzionato da Giuseppe Flavio nella sua Guerra Giudaica (I 413): 
«La bocca del porto guardava verso nord, [...], e su ciascuno dei due lati si elevavano su colonne tre colossali statue».

Il porto fu costruito da Erode il Grande fra il 22 e il 20 a. C. Rappresentazioni di simili statue appaiono su monete come elemento essenziale nella raffigurazione dei porti. Parecchie di esse, aventi funzione di faro all’ingresso della rada, dovevano essere di proporzioni gigantesche.
 Tuttavia vi sono due obiezioni principali alla teoria che la statua stesse all’imbocco del porto. Prima di tutto, sembra improbabile che gli abitanti di Rodi accettassero, dopo la distruzione del Colosso nel 226 a. C., che un’enorme massa di macerie occupasse indefinitamente un tratto di terreno cosí vasto e importante. In secondo luogo, un autore antico ci informa che la statua, nella caduta, causò il crollo di molte case all’intorno, il che non sarebbe potuto accadere se fosse stata sul molo di un porto. 
Tutto ciò conduce a un’ipotesi conclusiva, che sembra la piú probabile a chi scrive.
 In cima alla Strada dei Cavalieri vi è una vecchia scuola turca, che si sa essere stata costruita nel secolo scorso sul luogo della chiesa conventuale dei Cavalieri, dedicata a San Giovanni al Colosso. La chiesa, iniziata nel 1310, fu disintegrata accidentalmente da un’esplosione di polvere da sparo nel 1856. Prima di attribuire troppo peso alla denominazione data alla chiesa di San Giovanni al Colosso, occorre notare che, per la grande fama della statua, l’aggettivo colossensis («del Colosso») nel Medioevo era applicato all’intera città di Rodi. 
Tuttavia, da numerose iscrizioni trovate vicino a questo luogo si ha la certezza quasi assoluta che il tempio di Elio anticamente sorgeva lí o nelle immediate vicinanze. Era pratica comune presso i Greci dedicare offerte votive nei santuari degli dèi, cosí che grandi santuari come quello di Delfi ed Olimpia divennero veri musei di sculture.
 Poiché sappiamo che il Colosso era un ex voto per la liberazione della città dall’assedio di Demetrio, esso doveva essere stato elevato nel tempio di Elio. Se è da escludere la localizzazione a San Nicola, la zona della scuola turca ha molti motivi per essere ritenuta la piú probabile e potrebbe premiare le operazioni di scavo. Al momento, intorno alla scuola, si può vedere molto materiale da costruzione antico, ed esso indica forse che la scuola è stata costruita proprio sul quadrato delle primitive fondamenta. Inoltre, vi sono resti delle antiche mura sia subito fuori dai cancelli della scuola, sia nella parte bassa del muro perimetrale di fronte al Palazzo dei Grandi Maestri. 

Il terremoto che abbatté il Colosso (e anche molti altri edifici della città di Rodi) avvenne nel 226 a. C. Strabone annota che la statua si spezzò all’altezza delle ginocchia, e che l’offerta di Tolomeo III d’Egitto di pagarne subito il restauro fu declinata dai Rodiesi, ammoniti da un oracolo a non provvedere a ricostruirla. Cosí la statua rimase per circa 900 anni dov’era caduta, e i viandanti potevano vederne i resti nonché la massa di pietra e ferro che un tempo l’aveva sorretta. 
Quando gli Arabi, nel 654, saccheggiarono Rodi, trasportarono i pezzi del Colosso attraverso il mare in Asia Minore e li vendettero a un ebreo di Emesa.
 La tradizione vuole che questi li portasse in Siria sul dorso di 900 cammelli; e qui finisce la storia del Colosso di Rodi, la meno conosciuta delle Sette Meraviglie.

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