venerdì 28 dicembre 2018

Gli scienziati credono di aver scoperto il significato di alcuni misteriosi oggetti di 4000 anni scoperti a Stonehenge


Un’analisi matematica di una collezione di cilindri di pietra decorati noti come Folkton Drums ipotizza che gli antichi oggetti avrebbero potuto essere utilizzati come unità di misura standardizzata nella costruzione di antichi monumenti di pietra.


 In un articolo pubblicato nel British Journal for the History of Mathematics , i ricercatori dello University College di Londra e della Manchester University affermano che i cilindri di pietra avrebbero permesso agli antichi costruttori di misurare con precisione i cerchi di pietra e altre strutture antiche di significato culturale o ritualistico come Stonehenge. 

“Pensiamo che ci sia un collegamento diretto tra il design del monumento di Stonehenge e gli artefatti in gesso noti come Folkton e Lavant Drums, dove i tamburi rappresentano standard di misurazione che erano essenziali per una costruzione del monumento accurata e riproducibile”, scrivono gli autori . 


Trovati per la prima volta nel 1889 nella tomba di un bambino nel nord dell’Inghilterra, i bellissimi tamburi sono fatti di gesso locale estratto e sono decorati con disegni geometrici. 
 Sebbene non sia ancora disponibile la datazione al radiocarbonio, si ritiene che i tamburi risalgano al terzo millennio aC. 
La corda di misurazione, che può variare in lunghezza a seconda dell’umidità e di altre condizioni meteorologiche, potrebbe essere stata avvolta attorno al tamburo per mantenere una lunghezza costante.
 Le decorazioni trovate all’esterno possono “codificare le istruzioni relative alle rotazioni”. 
Il più grande dei tamburi ha una circonferenza vicina a 3 metri, ma le variazioni di dimensione consentono a diverse tecniche di costruzione di “formare una sequenza armonica matematica”.


“Riteniamo che questo dimensionamento sia stato deliberatamente incorporato nel loro design al fine di consentire l’uso della batteria come standard di misurazione lineare”, hanno scritto gli autori. Data la loro vicinanza a Stonehenge, è possibile che queste pietre (o similari) avrebbero potuto essere utilizzate per misurare e costruire il monumento preistorico situato nel Wiltshire, in Inghilterra.

 La comprensione delle varie dimensioni dei tamburi, dicono i ricercatori, potrebbe fornire indizi su come sono state realizzate strutture simili. 

Poco si sa su come o perché Stonehenge è stato costruito, a parte che è stato costruito da un antico gruppo di persone su più stadi e in diversi secoli, probabilmente orientati verso eventi di solstizio. Tuttavia, i ricercatori osservano che i tamburi sono stati lasciati nelle tombe dei bambini, in modo che potessero avere alcune implicazioni per i bambini stessi, tipo la crescita o il ciclo di vita umano, tutte teorie e misteri ancora da esplorare nelle ricerche future.



Tratto da www.iflscience.com

giovedì 27 dicembre 2018

Saltriovenator zanellai: scoperto un nuovo eccezionale dinosauro italiano


Fino a qualche decennio fa, la scoperta di un dinosauro in Italia era considerata un evento impossibile. 
Il nostro Paese, nel Mesozoico, era quasi tutto sotto le acque dell'oceano, e per questo si pensava che i fossili fossero inesistenti. Dopo è arrivata la scoperta di Ciro (Scipionyx samniticus), uno dei fossili meglio conservati di tutta la paleontologia, e molte altre ne sono susseguite.
 L'ultima, annunciata il 19 dicembre, è quella un fossile di grandissima importanza: un dinosauro che è stato chiamato Saltriovenator zanellai (dal luogo del ritrovamento, una cava vicino a Saltrio, in provincia di Varese, e dal nome di chi lo scoprì, Angelo Zanella).

 L'articolo, scritto da tre palentologi italiani, Cristiano Dal Sasso, Simone Maganuco e Andrea Cau, è stato pubblicato sulla rivista Peer j 

 La scoperta è eccezionale per molte ragioni.
 Prima di tutto, per il periodo: Saltriovenator visse infatti circa 198 milioni di anni fa, nel primo Giurassico, un periodo immediatamente successivo all'estinzione di massa che avvenne 201 milioni di anni fa, dopo il Triassico.
 In quell'era alcuni dinosauri, i cosiddetti teropodi, stavano - come si dice tecnicamente - diversificandosi molto.
 Nascevano e si evolvevano nuove specie e popolavano nuovi ambienti.
 I teropodi erano un gruppo di predatori di varie dimensioni, dall'andatura bipede e dotati di zampe anteriori munite di artigli; al gruppo appartenevano specie famose, come il Tyrannosaurus rex o Velociraptor, vissuti molto più tardi rispetto al... nuovo arrivato.


Del nuovo dinosauro sono state trovate alcune ossa della zampa, della mano e delle coste, sufficienti per ricostruire il fossile.
 Saltriovenator è importante anche per altri motivi. 
Le dimensioni sono piuttosto grandi: non era ancora cresciuto del tutto, ma era un predatore pesante circa una tonnellata, quando la maggior parte delle altre specie erano più piccole.
 Questo significa, come dice uno degli autori del testo, che "la 'corsa agli armamenti' evolutiva tra predatori e dinosauri erbivori, che coinvolge specie progressivamente più grandi, era già iniziata 200 milioni di anni fa".


Molte ossa del dinosauro hanno segni provocati da invertebrati marini; sono i primi mai riscontrati su resti di dinosauri e raccontano la sorte dell'animale: la carcassa galleggiò in un bacino marino e poi, affondata, rimase sul fondo del mare per un periodo piuttosto lungo.
 Un altro particolare importante per la paleontologia e soprattutto per la storia degli uccelli è la struttura della mano, un particolare molto dibattuto che riguarda la discendenza degli uccelli dai dinosauri (secondo alcune ipotesi questa discendenza non è vera). La mano di Saltriovenator invece, come afferma Andrea Cau: "riempie un vuoto nell'albero evolutivo dei teropodi dimostrando che i dinosauri predatori hanno progressivamente perso il mignolo e l'anulare, e hanno così acquisito la mano a tre dita, precursore dell'ala degli uccelli". 

 Fonte: focus.it

venerdì 21 dicembre 2018

I nativi americani stanno salvando così il bisonte dall'estinzione


Le tribù native americane stanno salvando il bisonte dall’estinzione. 
Questo mammifero, oltre ad essere una forma di sostentamento, svolge un ruolo fondamentale nella spirituale della tribù, ecco il perfetto equilibrio che si è stabilito nel Nord America. 

5mila ettari di praterie non arate nel nord-est del Montana e centinaia di bisonti selvaggi che vagano.
 Ma questa mandria non si trova in un parco nazionale o in un santuario protetto, ma bensì nelle terre ancestrali delle tribù di Assiniboine e Sioux di Fort Peck Reservation. 
 Proprio qui c’è il più grande allevamento di bisonti e solo grazie ai nativi. 

Fino a centinaia di anni fa, sulla Terra vivevano 30milioni di bisonti, un mammifero ricordiamolo, sopravvissuto anche all’Era glaciale, ma non all’intervento dell’uomo. 
 Dopo il viaggio di Colombo, i colonizzatori bianchi per occupare i territori dei nativi utilizzarono ogni mezzo, compreso quello del massacro dei bisonti, prima fonte si sostentamento delle tribù. Aggiungendo a questo i cambiamenti climatici, nel giro di poche decine di anni, il bisonte è passato da decine di milioni all’orlo dell’estinzione.


"Vogliamo riportare questi importanti bisonti nella loro dimora storica delle Grandi Pianure", dice Jonathan Proctor, direttore del programma di Rockies and Plains dell'Ong Defenders of Wildlife , che lavora accanto alle tribù per salvare questo animale. 

 Dopo il massacro del 19esimo secolo, erano sopravvissuti solo 23 bisonti in una remota valle di Yellowstone.

 Oggi la mandria è di 4mila e questi animali vivono allo stato brado, non sono addomesticati né stati fatti accoppiare con altro bestiame, mantenendo così la purezza genetica.

 Da anni, le tribù difendono i mammiferi dalla legislazione del Montana che è anti bufali. Ma per i nativi questi animali giganteschi sono una risorsa.


"Grazie a loro, abbiamo visto l'ecosistema rivivere. Gli uccelli delle praterie sono tornati, le erbe autoctone prosperano. Li accogliamo con gioia e aspettiamo i benefici che portano nelle nostre terre tribali", dicono. 
Grazie a un trattato con il governo, l'anno scorso, Blackfeet Reservation, sempre nel Montana, ha ricevuto 89 bisonti geneticamente puri da Elk Island in Canada. 
Adesso le tribù stanno negoziando con i funzionari statali per consentire a questi bufali, che sono sani e senza la temuta brucellosi, di recarsi liberamente nel parco nazionale del ghiacciaio e persino, si spera, un giorno a nord del parco nazionale dei laghi di Waterton. 

 "Le tribù delle pianure settentrionali sono la guida giusta per il ripristino dei bisonti selvatici in questo momento", ha detto Proctor. E tra 50 anni, la comunità di conservazione spera di avere almeno 10 mandrie di bisonti con mille animali.

 Dominella Trunfio

giovedì 20 dicembre 2018

Scoperta in Egitto la tomba intatta di un sacerdote di 4.400 anni fa


Una macchina del tempo sepolta nel deserto, a cinque metri di profondità, che ha conservato intatti per millenni, come in uno scrigno, i suoi tesori: la tomba di un sacerdote di nome Wahtye, vissuto nell'antico Egitto ai tempi delle Piramidi di Giza, è stata scoperta a Saqqara, un sito archeologico a sud del Cairo che in antichità serviva da necropoli per Menfi, capitale dell'Antico Regno.
 La tomba risale a 4.400 anni fa e contiene decine di statue e rilievi a colori perfettamente conservati, iscrizioni dettagliate sul dignitario deceduto e sulla sua famiglia nonché scorci pittorici di vita quotidiana dell'epoca.
 Gli archeologi che l'hanno riportata alla luce con una serie di scavi iniziati a novembre e non ancora terminati hanno parlato di una scoperta "unica", come non se ne facevano almeno da un decennio.






Il pigmento in particolare cattura l'attenzione perché ricopre ancora totalmente sculture e decorazioni, come doveva essere in origine. Wahtye serviva il faraone Neferirkare Kakai, terzo re della Quinta Dinastia, una famiglia che governò l'Antico Egitto per meno di due secoli, dal 2.500 al 2.350 a.C.
 Il nome del deceduto si legge sui geroglifici che decorano la porta di ingresso della tomba, che declamano anche i suoi titoli onorifici: sacerdote per la purificazione reale, supervisore reale, ispettore della barca sacra (un battello rituale che si pensava accompagnasse i faraoni nell'Aldilà).


La galleria rettangolare a cui nessuno finora aveva avuto accesso, sfuggita ai tombaroli, misura 10 metri da nord a sud, quasi 3 da est a ovest e 3 in altezza. 
Rilievi a colori con Wahtye, sua moglie Weret Ptah e sua madre Merit Meen decorano le pareti, su cui si trovano anche scene di lavoro del periodo di attività dell'uomo, con persone intente a cacciare, navigare, compiere offerte religiose e produrre vasellame e altri oggetti funerari.






Grandi statue dipinte a colori del sacerdote e dei suoi familiari riempiono 18 nicchie sulle pareti della tomba, mentre altre 26 nicchie vicino al pavimento ospitano sculture di un'altra persona non ancora identificata in varie posizioni, in piedi o seduta a gambe incrociate come uno scriba.

 Nella tomba gli archeologi egiziani hanno individuato cinque camere sepolcrali, una delle quali è aperta e vuota: le altre sono ancora sigillate e potrebbero custodire il sarcofago del sacerdote insieme al suo corredo funebre.

 Gli scavi proseguiranno a gennaio. 

 Fonte: focus.it

mercoledì 19 dicembre 2018

La più antica piramide del mondo sarebbe nascosta a Gunung Padang, in una montagna indonesiana


Quando i coloni olandesi. scoprirono come primi europei Gunung (Mount) Padang nei primi anni del 20° secolo, dovettero rimasero impressionati dalla vastità delle loro antiche mura. 

Sparsi su una vasta collina di questa provincia indonesiana, giacciono i resti di un enorme complesso di strutture e monumenti rocciosi, una meraviglia archeologica descritta come il più grande sito megalitico di tutta l’Asia sud-orientale.
 Ma quei primi coloni non potevano immaginare che la più grande meraviglia di tutti potesse giacere nascosta, sepolta nel terreno sotto i loro piedi.


Nella controversa nuova ricerca presentata alla AGU 2018 Fall Meeting a Washington, DC, la scorsa settimana, un team di scienziati indonesiani ha presentato i dati per dimostrare che Gunung Padang è in realtà il sito della più antica struttura piramidale conosciuta al mondo.
 La loro ricerca, condotta nel corso di diversi anni, suggerisce che Gunung Padang non è la collina che pensiamo che sia, ma in realtà è una serie stratificata di antiche strutture con fondazioni risalenti a circa 10.000 anni fa (o addirittura anche più antiche).

 “I nostri studi dimostrano che la struttura non copre solo la parte superiore, ma avvolge anche le zone che coprono almeno un’area di circa 15 ettari”, Hanno scritto gli autori in un abstract nel loro nuovo paper .”Le strutture non sono solo superficiali ma radicate in profondità”.

 Usando una combinazione di metodi di rilevamento, tra cui il radar di penetrazione del terreno (GPR), la tomografia sismica e gli scavi archeologici, il team dice che Gunung Padang non è solo una struttura artificiale, ma una serie di diversi strati costruiti in periodi preistorici consecutivi.
 Lo strato più alto, megalitico, costituito da colonne di roccia, muri, percorsi e spazi, si trova sopra un secondo strato a circa 1-3 metri sotto la superficie.


 I ricercatori suggeriscono che questo secondo strato sarebbe stato precedentemente scambiato per una formazione rocciosa naturale, ma in realtà è un’altra serie di rocce colonnari organizzata in una struttura a matrice. 
Al di sotto di questo, un terzo strato di rocce contenenti grandi cavità sotterranee, si estende fino a 15 metri di profondità, e si trova sul più basso (quarto) strato, fatto di roccia basaltica, in qualche modo modificata o intagliata da mani umane.
 Secondo i ricercatori, la datazione preliminare al radiocarbonio suggerisce che il primo strato potrebbe arrivare a circa 3.500 anni fa, il secondo strato approssimativamente intorno agli 8000 anni fa e il terzo strato tra 9.500 e addirittuta 28.000 anni fa. 

Per quanto riguarda lo scopo di queste antiche e vaste strutture, i ricercatori, guidati dal geofisico Danny Hilman Natawidjaja dell’Istituto di scienze indonesiano, suggeriscono che l’antica piramide avrebbe potuto avere un utilizzo religioso. “È un tempio unico”, ha detto Natawidjaja a Live Science . 

 Per ora, è soltanto una speculazione, ma se le altre affermazioni dei ricercatori sulle strutture risulteranno giuste, sarebbe una scoperta importante che potrebbe sfidare le nozioni di ciò di cui le società preistoriche erano capaci. 
“È enorme”, ha detto Natawidjaja al Sydney Morning Herald nel 2013. “La gente ritiene che l’era preistorica sia primitiva, ma questo monumento dimostra che quello che pensiamo è sbagliato.”


Tuttavia, non tutti sono convinti di queste dichiarazioni. 

La ricerca di Natawidjaja è stata oggetto di molte polemiche in Indonesia e altrove, con un gran numero di archeologi e scettici che criticavano i metodi e le scoperte della squadra.

 Le ultime presentazioni della ricerca, che, per ora, restano non sottoposte a revisione paritetica, probabilmente scateneranno polemiche, ma danno anche al mondo uno sguardo più da vicino su quella che potrebbe essere una delle strutture più antiche e misteriose del pianeta.

 Per quanto riguarda ciò che è realmente questa struttura, solo il tempo ce lo dirà. 

I risultati sono stati presentati alla riunione annuale della American Geophysical Union a Washington DC la scorsa settimana.

 Fonte: blueplanetheart
 Tratto da www.sciencealert.com

martedì 18 dicembre 2018

Great Blue Hole: che cosa c'è sotto?


È una delle strutture sommerse più fotografate al mondo: il Great Blue Hole, un sinkhole sottomarino situato nel cuore del Lighthouse Reef, un piccolo atollo a una settantina di km dalla costa del Belize, conquistò la sua fama grazie all'esploratore francese Jacques Cousteau, che nel 1971 lo dichiarò uno dei cinque siti per immersioni più affascinanti al mondo, prima di calarvisi in prima persona.

 Questa dolina carsica di forma circolare, larga 318 metri e profonda 124, è il secondo blue hole più grande al mondo dopo il Dragon Hole, nel Mare Cinese meridionale. 

Si pensa che la grotta calcarea da cui ha avuto origine si sia formata durante l'ultima Era glaciale, quando i livelli del mare erano inferiori a quelli odierni, e che sia poi stata sommersa dall'acqua, fino a che le sue pareti superiori sono collassate, dando origine al "buco" che vediamo.




Chi vi si è immerso racconta di una grotta scura disseminata di stalattiti, ma i sub umani non possono spingersi a profondità di molto superiori ai 40 metri. 

Ecco perché Fabien Cousteau, figlio di Jacques, ha deciso di unire scienziati, imprenditori visionari (come Richard Branson, il fondatore di Virgin Galactic) ed esperti subacquei nella Blue Hole Belize 2018 Expedition, una missione di esplorazione scientifica della misteriosa struttura. 

 In queste settimane il team sta visitando i fondali del "buco" con alcuni sommergibili, uno dei quali, l'Aquatica Stingray 500, può alloggiare due persone.
 Obiettivo principale della spedizione sarà mappare la struttura interna del blue hole usando una tecnologia sonar. 

Altre immersioni raccoglieranno dati sulla qualità dell'acqua, sulla quantità di luce a varie profondità, sulla presenza di batteri e sull'ossigenazione: si pensa che vicino al fondale possa esserci uno strato anossico (privo di ossigeno) vicino a un deposito naturale di solfuro di idrogeno (H2S), una composizione che si pensa contrasti la degradazione e che potrebbe aver favorito la conservazione di reperti biologici di varia natura.

 Le operazioni andranno svolte con la massima delicatezza, per non danneggiare il sito protetto dall'UNESCO. 
Il team ha comunque già esperienza di immersioni pilotate attorno a relitti e sa come spostarsi senza toccare nulla. 
Lo stesso fondale è rivestito da una fanghiglia accumulata nel corso di 100 mila anni: neanche lì ci si potrà appoggiare. 

Fonte: focus.it

lunedì 17 dicembre 2018

Questa supercolonia di 1,5 milioni di pinguini è rimasta nascosta per quasi 3000 anni


Quest’anno, gli scienziati hanno annunciato un’incredibile scoperta guardando alcune minuscole macchie nelle immagini satellitari: 1,5 milioni di pinguini di Adelia vivevano e prosperavano in una piccola zona dell’Antartide circondata da infidi ghiacci marini chiamati le Isole Danger. 

Si è scoperto che questi elusivi uccelli marini vivevano sulle isole inosservati da almeno 2.800 anni, secondo una nuova ricerca inedita presentata l’11 dicembre all’American Geophysical Union meeting a Washington, DC 

Tutto è iniziato quando un gruppo di ricercatori ha trascorso 10 mesi facendo quello che pensavano fosse un sondaggio pan-antartico dei pinguini di Adelia guardando attraverso ogni singola immagine satellitare senza nuvole che avevano del continente meridionale. 
“Pensavamo di sapere dove fossero tutte le colonie di pinguini [Adelia]”, ha detto Heather Lynch, ecologista alla Stony Brook University, durante la conferenza stampa. 

Questa metodologia è andato avanti fino a quando un collega della NASA ha sviluppato un algoritmo che ha automatizzato i rilevamenti. 
Ed è proprio da quel momento che l’algoritmo ha iniziato a contrassegnare tutti questi pixel dalle Isole Danger che “noi come annotatori umani ci eravamo semplicemente persi”, ha detto Lynch. Quando Lynch e la sua squadra tornarono a guardare più da vicino le immagini videro fino a che punto le Isole Danger erano piene di pinguini


 Le isole Danger non sono facili da raggiungere, perché sono “così chiamate in quanto sono quasi sempre coperte da uno spesso strato di ghiaccio marino tutto intorno che preclude censimenti regolari in quest’area”, ha detto Lynch.
 I colleghi di Lynch si sono quindi recati nelle isole per un sondaggio completo, dove hanno contato, fisicamente a terra e con i droni, come erano popolate le isole da questo uccello marino. 
“In quest’area così piccola che non appare nemmeno sulla maggior parte delle mappe dell’Antartico,” vivono più pinguini di Adelia rispetto al resto dell’Antartide messi insieme, ha detto Lynch.

 La notizia, uscita a marzo, ha sorpreso e deliziato le persone in tutto il mondo


Dopo tutto, l’habitat dove vive il resto dei pinguini Adélia sulla terraferma, è stato colpito duramente dai cambiamenti climatici , ed è in costante declino da 40 anni. 
In effetti, “il cambiamento climatico non è più rapido che nella penisola antartica”, ha affermato Lynch. 
Ma alcune delle nuove scoperte del team suggeriscono che anche se 1,5 milioni sembrano un grande numero, questa colonia non è grande come lo era una volta. 

Dopo le analisi iniziali delle recenti immagini satellitari, il team ha deciso di guardare le immagini satellitari del passato che risalgono al 1982. Hanno scoperto che le popolazioni di pinguini di Adelia avrebbero raggiunto il picco alla fine degli anni ’90 e “da allora hanno avuto un declino lento ma costante”, ha detto Lynch. 
Il declino “non è catastrofico”, ma piuttosto sull’ordine del 10-20%, ha aggiunto in seguito.

 Poiché le Isole Danger sono quasi sempre circondate da ghiaccio marino, sono più protette dalla pesca al krill e da altri interventi umani rispetto ad altre aree del continente, ha detto Lynch.
 Ma anche così, la migliore ipotesi di lavoro è che il declino della popolazione sia dovuto probabilmente anche ai cambiamenti climatici.


Una parte del team, guidata da Michael Polito, un professore universitario nel dipartimento di oceanografia e scienze costiere della Louisiana State University ha scavato buche nell’isola per conoscere il passato dei pinguini.
 La datazione al radiocarbonio delle ossa e dei gusci d’uovo trovati in questi buchi ha rivelato che questi pinguini si nascondono da molto tempo nelle isole: sembra che siano apparsi per la prima volta sulle isole 2.800 anni fa. 

E “ora che abbiamo scoperto questo hotspot così abbondante di popolazione di Adélie qui nelle Danger Islands, vogliamo essere in grado di proteggerlo, e ciò implica cercare di capire perché le popolazioni possono essere cambiate così radicalmente di numero”, ha detto Lynch

Tratto da www.livescience.com

giovedì 13 dicembre 2018

Vasa: il Veliero intatto del XVII secolo soprannominato il “Titanic Svedese”


Si chiama Vasa (Nave di sua Maestà) è fu uno dei maggiori velieri della storia, che andò incontro a una sorte tragica quanto beffarda. Varato il 10 agosto 1628, la nave compì soltanto una sortita di un miglio nautico fuori dal porto di Stoccolma per poi finire rovinosamente inghiottito dal mare, rimanendo sul fondo del mar Baltico per oltre 3 secoli.

 La storia di questo veliero, e del motivo del suo affondamento, è interessante e ottimo metro di giudizio per quella particolare epoca storica.


Nonostante le tragedie del mare siano frequenti nella storia dell’uomo, basti vedere quella del moderno Titanic, nel 1912, un disastro navale a soli 150 metri dalla costa risulta strano, persino per il XVII secolo.

 Il veliero fu costruito su ordine del Re Gustavo II Adolfo di Svezia, che voleva realizzare un simbolo della propria potenza. Il maestro carpentiere realizzò i disegni dello scafo, e si iniziò la costruzione.

 Ma a Gustavo II non bastava


Il sovrano scandinavo seppe che altri velieri di stazza simile erano in costruzione in tutta Europa, e pretese l’ampliamento del progetto iniziale.

 Sfortunatamente il mastro carpentiere morì proprio in quei giorni, lasciando ai suoi giovani apprendisti l’onere di confrontarsi con il Re.
 Questi (ovviamente) non osarono contraddire Gustavo II, che ottenne un significativo allungamento dell’imbarcazione e il suo innalzamento, con l’aggiunta di una seconda fila di bocche da fuoco, che resero il Vasa uno fra i più imponenti velieri della propria epoca.
 Oltre che imponente, la nave era anche instabile
 Alzata e allungata in modo tecnicamente errato, la nave aveva un baricentro troppo alto, e sarebbe stata certamente suscettibile a inclinazioni pericolose anche con i venti più deboli.

 Durante la prova di stabilità, che un tempo si svolgeva facendo correre da una sponda all’altra della nave 30 marinai, l’imbarcazione mostrò la sua assoluta inadeguatezza a prendere il mare, ma i responsabili della costruzione assecondarono il re, che chiedeva che il Vasa fosse varato quanto prima.


Il vascello fu adornato per le grandi occasioni con statue, quadri, oggetti preziosi, cannoni e molto altro per spiccare nei confronti dei concorrenti europei. 

Il 10 Agosto del 1628 si imbarcarono circa 150 persone, comprese mogli e figli dei marinai e dei notabili presenti.
 Il Vasa partì dal porto di Stoccolma, fece una prima virata, poi si inclinò pericolosamente, ma il timoniere riuscì a controbilanciare la spinta del vento.
 Con i portelli dei cannoni aperti, la seconda inclinazione iniziò a far entrare una marea d’acqua nelle stive, e il Vasa iniziò a inabissarsi.
 Nel giro di pochi minuti il veliero affondò 

 Dei 130/150 presenti morirono almeno fra le 30 e le 50 persone, fra cui diverse donne e bambini, che non riuscirono a trarsi in salvo.

 Il Vasa aveva completato poco più di un miglio marino, ma la sua inadeguatezza al mare lo aveva condannato al disastro. 

Negli anni immediatamente successivi vennero recuperati molti cannoni in bronzo e altri oggetti, rompendo parti dello scafo, ma la nave rimase praticamente immersa in acqua.


Col passare del tempo del Vasa si persero le tracce, e la sua storia finì dimenticata. 

Fu solo oltre 3 secoli dopo, nel 1961, che l’archeologo navale Anders Franzén pensò a un suo recupero, e grazie all’aiuto della Marina Svedese e alle nuove tecniche di immersione sottomarina si riuscì a trarre in salvo quasi tutto l’antico veliero, che era ancora in posizione verticale e che celava al suo interno i resti di 25 persone.


Le acque del Baltico, poco salate e a temperature glaciali, avevano conservato in modo integro il legno dell’imbarcazione, che venne interamente ricomposta in quello che oggi è il Vasamuseet, il Museo Vasa a Stoccolma, costruito sull’isola Djurgarden proprio di fronte al porto della città, che quasi 4 secoli orsono aveva visto andare a picco il suo più grande Vascello.

 La nave fu ricomposta per circa il 95% con pezzi originali, ancora decorato con le sculture ornamentali del giorno del varo, normalmente eliminate durante i mesi successivi per rendere la nave più pratica. 

Il vascello costituisce l’unico veliero al mondo del XVII secolo conservato al giorno d’oggi, e rappresenta una delle attrazioni più visitate di Stoccolma. 

Se nel viaggio inaugurale il Vasa aveva condiviso il suo destino con quello del Titanic, oggi è un orgoglio della Svezia e un reperto storico visitabile dal valore incommensurabile.


Fonte vanillamagazine.it

mercoledì 12 dicembre 2018

Che cos’è il pendolo di Foucault?


Si tratta del grande pendolo sferico (un cavo di oltre 60 m al quale era attaccata una sfera di 28 kg) che fu appeso nel 1851 da Léon Foucault (1819-68) alla cupola del Panthéon di Parigi, per dimostrare con un esperimento l’esistenza della rotazione terrestre. 

Se infatti la Terra fosse ferma, il pendolo dovrebbe tracciare un’unica linea sul pavimento coperto di sabbia. 
 Nel corso dell’esperimento, il fisico lasciò oscillare il pendolo e vide che disegnava delle linee sotto di esso.


Poiché il piano di oscillazione libera di un pendolo non cambia nel tempo, le linee stavano a indicare che era il terreno sottostante a muoversi. 
Foucault dimostrò che l’angolo che raggruppava queste linee era da mettere in relazione alla latitudine del luogo. All’equatore, infatti, l’angolo è nullo e al Polo Nord è di 360°.
 In Italia l’angolo è di 254°.
 Perché?
 Si pensi al pendolo al Polo Nord: la Terra ruota sotto di lui facendo in 24 ore un giro completo, dando l’impressione che sia invece il pendolo a ruotare. 
All’Equatore la rotazione “non c’è” perché il piano del pendolo è perpendicolare all’asse di rotazione terrestre.


Fonte: focus.it

lunedì 10 dicembre 2018

Lo splendido e raro cucciolo di renna bianca avvistato in Norvegia


Stava facendo una passeggiata quando si è imbattuto in un rarissimo esemplare di renna bianca.
 Un fotografo fortunato l'ha immortalata in Norvegia.


 Mads Nordsveen, 24 anni, di Oslo, ha avvistato il cucciolo col suo candido manto bianco che quasi si mimetizzava in mezzo al paesaggio innevato, durante una passeggiata nel nord della Norvegia.
 Le foto, pubblicate su Instagram, hanno subito fatto il giro del mondo, così come il video postato da Mads, che ha parlato dell'incontro con la renna come di un'esperienza da favola, un momento magico.
 Il giovane ha raccontato all'agenzia di stampa Caters di aver individuato la "piccola, meravigliosa creatura" mentre camminava sulle montagne.
 Condividendo le immagini sui social, ha detto: "Era quasi scomparsa nella neve!"




La renna bianca, alla vista di Nordsveen e dei suoi amici, sembrava quasi essersi messa in posa.
 "È venuta molto vicino a me e ci siamo guardati negli occhi, era molto calma quando ha visto che non avevo cattive intenzioni", ha detto il fotografo.

 Questi animali sono molto rari. L'ultimo avvistamento risaliva al 2016, a Mala, nel nord della Svezia. 
Il loro aspetto insolito è dovuto a una condizione genetica che toglie il pigmento dalla loro pelliccia.

 L'animale ha lasciato il ragazzo e i suoi amici dopo pochi minuti, quando è tornata dalla madre ai margini della foresta.

 Secondo alcune tradizioni scandinave, individuare una renna bianca è considerato un segno di buona fortuna.
 Mads è stato doppiamente fortunato! 

 Francesca Mancuso

Un tuffo nell'altra Olbia, l'antica città greca andata perduta in Francia


Leggi Olbia, pensi Sardegna. E invece ne esiste una anche in Francia, sulla Costa Azzurra. E anche se si trova sott'acqua, è l'unica città greca ritrovata su suolo francese conservata interamente.
 Quella che una volta era la Olbia fortificata fondata dai Massalioti, utilizzata come scalo commerciale nelle rotte da Marsiglia verso l'Italia e la Grecia, si trova lungo la Plage de l'Almanarre di Hyeres, a pochi metri dalla costa.

 Con i suoi quattro chilometri di sabbia, la spiaggia di Almanarre è una mecca per gli amanti del sole e dei kitesurf. Ma il suo più grande tesoro non è visibile a occhio nudo: il sito archeologico è infatti subacqueo e custodisce i resti del porto dove duemila anni fa attraccavano le barche.
 E per ammirarlo bastano maschera e pinne.


Per secoli la città era stata considerata perduta. Non si conosceva la sua esatta ubicazione, solo che si trovava lungo la costa francese, fra Marsiglia e Nizza.

 La conferma che si trovasse proprio sotto Hyeres è arrivata all'inizio nel Novecento, grazie ad alcuni sondaggi archeologici che hanno riportato alla luce una incontrovertibile iscrizione che affermava di trovarsi a Olbia.


Il porto di Olbia risale al primo secolo dopo Cristo e ha un molo lungo cento metri usato solo per 80 anni.

 Secondo l'archeologo marino Lenaic Riaudel, che guida le visite dei resti che si trovano vicino alla riva, «ha sofferto a causa della sua posizione, completamente esposta al vento da maestrale, ma soprattutto per la concorrenza di Tolone, che si trova a 20 chilometri di distanza».


Oltre al porto, di Olbia rimangono anche bagni termali, abitazioni, negozi e le fortificazioni, le uniche non inghiottite dalla marea, proprio perché si trovano su un promontorio a picco sul mare.

 Gran parte dei resti sono ricoperti di madreperla e colonizzati da alghe e ricci di mare, ma alcuni si trovano anche a pochi centimetri di profondità, proprio dove tutti fanno il bagno, inconsapevoli di dove si trovano. 


 Fonte: lastampa.it

venerdì 7 dicembre 2018

Parco Ma'u Henua: le splendide terre ancestrali restituite agli indigeni rapa nui dopo 129 anni di controllo cileno


Rapa Nui, la celebre isola di Pasqua, ospita uno splendido parco naturale dove di recente è avvenuto un cambiamento che ha fatto la storia. 
Qui, infatti, le terre ancestrali sono tornate nelle mani degli indigeni da quasi 2 anni.

 Proprio così! Il governo cileno ha ridato la gestione del territorio patrimoniale di Rapa Nui alla comunità dell'isola, e ora il ministro dei Beni Nazionali, Philip Ward, ha di recente annunciato la proposta di estendere la zona di conservazione gestita dalla comunità indigena polinesiana.

 Il Parco Nazionale Rapa Nui è un'area naturale protetta situata sull'isola di Pasqua, a 3700 chilometri dal Cile.
 La sua superficie totale corrisponde a 7150,88 ettari, suddivisi in nove zone indipendenti, dove sono presenti i resti archeologici della cultura di Rapa Nui, flora e fauna, rappresentazioni geologiche come grotte e scogliere, ma anche una varietà di vulcani e lagune d'acqua dolce. 
Un vero e proprio paradiso naturale.




Come Parco Nazionale, nacque nel 1935 e a luglio dello stesso anno venne dichiarato Monumento Nazionale.
 Nel 1976, incorporò gli isolotti adiacenti in un unico Santuario della Natura.

 L'8 dicembre 1995, l'UNESCO lo dichiarò Patrimonio Mondiale dell'umanità nella categoria del "bene culturale".


Il suo attuale sistema amministrativo è governato dalla Co-Amministrazione di due entità, la Rapa Nui People, rappresentata dalla Comunità indigena di Ma'u Henua e dalla National Forestry Corporation CONAF, che rappresenta lo Stato del Cile. 
Entrambe le istituzioni collaborano alla manutenzione, al recupero, al ripristino, al'imboschimento e alla cura dei siti del Parco.

 Dopo 129 anni di controllo cileno, nel 2016 l'Isola di Pasqua tornò nelle mani degli indigeni.
 Nel 2016, la presidente cilena Michelle Bachelet restituì ufficialmente il controllo delle terre ancestrali e dei siti archeologici ai nativi, trasmettendoli a un'entità locale chiamata Ma'u Henua.

Fino alla fine del 19° secolo, gli abitanti di Rapa Nui popolavano l'isola resa celebre anche dalle imponenti e misteriose statue dei moai. 
Nel 1888, l'isola fu annessa al Cile, che la affittò a un'azienda dedita alla tosatura delle pecore. Di conseguenza, i nativi furono costretti a lasciare le loro case e si trasferirono in quella che divenne l'unica città dell'isola - Hanga Roa.


Qualcosa inizia a cambiare nel 1986 quando la Nasa estende e migliora l'aeroporto, consentendo in tal modo ai passeggeri di visitare l'isola, incrementando il turismo. 

Per minimizzare l'impatto, la Chilean national forest corporation (CONAF) ha tenuto sotto controllo i siti archeologici negli ultimi decenni.
Nel 2016 la svolta: Michelle Bachelet ha ufficialmente restituito il controllo di questi siti archeologici alle popolazioni locali.


"Il primo cambiamento che avverrà da ora in avanti è che tutte le decisioni riguardanti l'isola saranno prese dalla popolazione di rapa nui", furono le parole di Camilo Rapu, direttore di Ma'u Henua che oggi nutre grandi speranze per il rimboschimento dell'isola con piante endemiche per restituirle l'aspetto che aveva mille anni fa. 

Una splendida isola tornata nelle mani dagli indigeni che da sempre la popolano. 

 Francesca Mancuso