giovedì 29 marzo 2018

Maria Sibylla Merian, la scienza in rosa


La banconota da 500 marchi della Repubblica Federale Tedesca, la vecchia Germania Ovest, raffigurava il volto di una donna con al suo fianco la sagoma di un insetto, una vespa. 
Sull’altro lato, una pianta di dente di leone con, appoggiati sulle sue foglie, una falena della specie Dicallomera fascelina e il suo bruco.




Agli italiani il volto della donna di cui sopra forse dirà poco, ma per il popolo tedesco Maria Sibylla Merian, questo il suo nome, rappresenta una straordinaria storia di coraggio, emancipazione femminile e talento in campo sia scientifico sia artistico.


Merian nasce nel 1647 a Francoforte, ai tempi capitale dell’editoria, crocevia di traffici commerciali e città dal grande fermento culturale. 
È figlia di un noto incisore, Matthäus Merian il vecchio, che muore quando lei ha solo tre anni.
 La madre si risposa con un pittore floreale.

 Per tutta la vita Maria Sibylla è a stretto contatto con ambienti artistici: impara svariate tecniche di disegno, pittura e incisione, raggiungendo sin da giovanissima risultati eccellenti, e ha modo di confrontarsi con i fratellastri, anche loro artisti, e con diversi insegnanti.

Al talento artistico si affianca un grande interesse per la natura e per lo studio degli insetti.
 Si dice che da bambina rubi un tulipano (ai tempi una rarità) soltanto per poterlo disegnare. 
A soli 18 anni si sposa con un pittore (non poteva essere altrimenti), Johann Andreas Graff, e con lui si trasferisce a Norimberga.
 Dal matrimonio nasceranno due figlie.




Dopo un libro dedicato ai fiori e pubblicato in tre parti, Maria comincia a lavorare a un testo interamente dedicato alle farfalle. L’opera completa, “La meravigliosa metamorfosi dei bruchi e il loro singolare nutrirsi di fiori”, è rivoluzionaria: gli animali non vengono più raffigurati in modo astratto, ma per la prima volta essi appaiono nel loro ambiente naturale. 
Come mai prima nella storia dell’illustrazione zoologica, ci si trova di fronte a immagini create solo dopo un’osservazione prolungata e scientificamente accurata dei soggetti. 
Nondimeno, per molte specie si inquadra tutto il ciclo vitale, il che non è banale: ai tempi, molti bruchi e farfalle della stessa specie vengono considerati entità separate. 
In ogni tavola del libro si possono invece vedere uova, bruchi e insetti adulti appartenenti allo stesso animale.
 E infine, è ammirevole il coraggio della scelta degli insetti come soggetto: si superano le diffuse superstizioni che raffiguravano questi animali come creature demoniache.

 La vita di Maria è movimentata. 
Dopo aver aderito a una setta labadista, un gruppo di protestanti che praticano un ascetismo estremo ispirato ai primi cristiani, si trasferisce in Olanda.
 Questa scelta la porta alla separazione dal marito.
 Dopo pochi anni, però, l’artista-scienziata abbandona la comunità e si trasferisce ad Amsterdam, porto di mare e centro di scambi commerciali. 
Merian vede le incredibili specie animali e vegetali provenienti dalle esotiche colonie olandesi, e decide di risparmiare per organizzare un viaggio in Suriname, dove potrà osservare da vicino quelle meraviglie. 

L’incredibile e inedita spedizione tutta al femminile (ad accompagnarla c’è la seconda figlia Dorothea) è un evento mai visto prima nella storia della scienza. 
Dopo due anni e non pochi problemi di salute, Merian ritorna in Olanda con un’incredibile collezione di fiori, insetti e altri reperti naturali che interesseranno persino lo zar Pietro il Grande. 

Da questa spedizione nasce il suo capolavoro, “La metamorfosi degli insetti del Suriname”, un gioiello composto da 60 incisioni colorate dedicate alle meraviglie naturali del paese sudamericano.


Da una di queste, raffigurante un grosso ragno intento a catturare un uccellino, nascerà il termine “migale”, ancora adesso utilizzato. 

Maria muore ad Amsterdam nel 1717, universalmente riconosciuta come una delle più grandi scienziate del suo tempo.

 FONTE: RIVISTANATURA.COM

Oman, in primavera il Sultanato si tinge di rosa


“Una rondine non fa primavera”- recita un vecchio detto popolare ma, a quanto pare, una rosa potrebbe invece annunciare l’arrivo ufficiale della bella stagione. 
Basta volare nel Sultanato dell’Oman per averne conferma. 
Ebbene sì questo Paese, situato nella porzione sud-orientale della penisola arabica, è ricco di sorprese. 
Sebbene in molti associno il suo nome principalmente al deserto, il Rub’al-Khali noto anche come “quarto vuoto”, la sua tavolozza di colori è in grado di stupire con effetti e paesaggi davvero speciali.  L’affascinante natura del Sultanato, nel periodo compreso tra marzo e maggio, grazie alla fioritura della rosa damascena si tinge di soavi sfumature pastello che vanno dal rosa intenso al pastello. 
Basta uscire fuori dai soliti schemi e raggiungere l’area del Jabal Al Akhdar, massiccio della catena dei Monti Hajar (il cui nome arabo significa “montagna verde”), per ammirare uno spettacolo decisamente suggestivo per occhi e olfatto.
 



 E’ proprio qui che escursionisti e appassionati di trekking, approfittando del fresco clima montano, possono dedicarsi a mille e una attività. 
Non solo adrenalina. 
A dilettare gli animi più romantici è la raccolta delle rose e la distillazione domestica dell’attar, ovvero l’acqua di rose tipica dell’Oman.
 La sua versatilità la vede impiegata tanto nella realizzazione di essenze e profumi quanto in cucina per aromatizzare dolci e caffè. Non solo, è anche uno degli elisir di bellezza con cui trattare la pelle così come un ottimo rimedio omeopatico per curare emicrania e disturbi di stomaco.




Un tour a tema floreale permette di vivere una vera e propria full immersion a tu per tu con questo magico fiore. 
A quota 2000 m sul livello del mare si trova una struttura sui generis, l’Alila Jabal Akhdar ovvero il primo hotel di montagna a cinque stelle dell’Oman. 
Al suo interno, oltre a degustare un rinfrescante spritz aromatizzato all’acqua di rose e fiori di sambuco, è possibile rilassare mente e corpo sperimentando il trattamento “Milk and Roses bath” che, come lascia intendere il nome, altro non è che un bagno a base di olio essenziale di rosa, attar, olio di cocco e infuso al latte. 

 Fonte: lastampa.it

martedì 27 marzo 2018

Il Disco di Nebra è ancora un mistero


Nel 1999 – in un pertugio nella “Montagna di Mezzo” (Mittelberg), nei pressi di Nebra, in Germania – due tombaroli dissotterrarono, grazie ad un metal detector, numerosi reperti metallici risalenti al 1600 avanti Cristo.
 Tra questi venne fuori un disco di bronzo intarsiato con lamine in oro, del diametro di 32 cm. 

 È un peccato che un manufatto così importante sia stato scoperto tramite scavi clandestini. 
Adriano Gaspani, dell’Osservatorio Astronomico Inaf di Brera, spiega infatti che: «La base per una ricerca archeoastronomica di qualità è il rilievo topografico di precisione dei siti archeologici che si sospetta essere astronomicamente significativi, tenendo sempre ben presente che il dato archeologico deve essere tenuto nella massima considerazione».
 Difatti, come spiega Gaspani in un ampio articolo da lui già dedicato al Disco di Nebra, non abbiamo alcuna certezza sulla posizione in cui il disco fu sotterrato.
 Questo ci avrebbe permesso di verificare eventuali allineamenti astronomici, se presenti.

 La produzione del disco è comunque stimata tra il 2000 e il 1700 a.C., quando a Babilonia Hammurabi scriveva il suo codice e in Egitto governavano gli “hyksos”, i Capi Stranieri.
 Erano esattamente gli stessi anni in cui la Sardegna ribolliva letteralmente di bronzo fuso per mano di una popolazione guerriera e costruttrice di torri immortali. 
Insomma, la scoperta delle leghe e in particolare del bronzo ha fatto fare un salto tecnologico “post-neolitico” mai visto che ha portato alla produzione di manufatti prevalentemente bellici: lance, asce, pugnali, scudi, armature e molto altro.

Inizialmente – dato che ad accompagnarlo c’erano appunto asce, scalpelli e pugnali – i due tombaroli pensarono al Disco di Nebra come alla decorazione centrale di uno scudo rotondo, forma tipica degli scudi del periodo.
 Per loro, comunque, ciò che importava era il guadagno, e infatti cercarono subito di venderlo, finendo inesorabilmente nelle mani della giustizia.

 Dopo vari passaggi di proprietà il Disco è entrato a far parte della collezione del vicino Museo di Halle e, dal 2013 è divenuto Patrimonio Mondiale dell’Unesco. 

 Ma perché il Disco di Nebra è tanto controverso e discusso? 
Basta uno sguardo per capire che la sua funzione era, molto più che probabilmente, astronomica. 
Gli “ingredienti” che compongono il “puzzle” del disco sono inequivocabili: stelle, Sole, Luna i più sicuri. Poi una serie di altri dettagli non secondari ed anzi, probabili indizi di misurazione astronomica. 
Innanzitutto gli archi dorati laterali potrebbero raffigurare l’escursione massima di albe e tramonti solari tra i due solstizi di dicembre e di giugno ma che sembrerebbero essere stati applicati al disco solo in un secondo tempo. 
 Ancora più affascinante è il raggruppamento di stelle interpretato come quello delle Pleiadi, o Sette Sorelle. 
A prima vista sembra infatti un gruppo di stelle buttato lì in modo quasi casuale, ma se guardiamo a rappresentazioni delle Pleiadi presso altre culture, anche lontanissime, troveremo somiglianze quasi sbalorditive


Sembra dunque che il disco sia la più antica rappresentazione del cielo notturno finora ritrovata. 
Ma cosa rappresenta esattamente? E perché è stato prodotto? Gaspani su questo resta scientificamente prudente: «Non sappiamo se fosse un oggetto ornamentale, un oggetto magico-rituale utilizzato durante lo svolgimento di funzioni religiose, un oggetto didattico o altro. 
Il dato di fatto è che si trattava di un oggetto di valore, lo testimonia l’utilizzo dell’oro per rappresentare gli astri».


Il mistero, dunque, resta. Tuttavia il Disco di Nebra rappresenta un caso emblematico di quanto una corretta ed approfondita conoscenza astronomica può aiutare ad interpretare fatti e situazioni storiche con grande precisione, o comunque è uno dei pochi metodi empirici e scientifici in grado di ampliare la rosa delle ipotesi in ambito archeologico.

 Fonte: mondospazio.com

Risolto il mistero dello scheletro “alieno” ritrovato in Cile: è un feto umano


Un misterioso mini-scheletro scoperto nel Deserto di Atacama, nel Cile, ha rivelato ora a medici e archeologi tutti i suoi segreti. 
Grazie a un’analisi forense e al test del Dna, un team dell’University of California a San Francisco e della Stanford University ha fatto luce sul reperto, da alcuni ritenuto alieno, ma anche sull’origine di rare patologie ossee.

 Lo scheletro, rinvenuto in una borsa di pelle dietro una chiesa abbandonata, era intatto: una figura minuscola, lunga solo sei pollici (15,5 cm) con una strana testa allungata a forma di cono, 10 paia di costole e ossa simili a quelle di un bambino di otto anni.

 Soprannominato affettuosamente “Ata“, lo scheletro si è fatto strada sul mercato nero dei reperti archeologici e poi è finito nelle mani di un collezionista in Spagna, che pensava potesse trattarsi dei resti di un extraterrestre.

 L’analisi forense del genoma di Ata ha dimostrato senza ombra di dubbio che si tratta di resti umani, oltretutto moderni: un feto. 
Ata ha infatti il Dna di una femmina umana moderna, con un mix di marker dei nativi americani e degli europei, abitanti della zona dove è stato rinvenuto.
 Secondo i ricercatori risale a circa 40 anni fa. E il suo curioso fenotipo alieno può essere spiegato da una manciata di rare mutazioni genetiche – alcune conosciute, altre recentemente scoperte – legate al nanismo e ad altri disturbi ossei e della crescita. 

Le scoperte, descritte su ‘Genome Research’, non si limitano a smentire le origini extraterrestri di Ata, ma spiegano come l’analisi del Dna oggi possa individuare la manciata di geni mutati molto probabilmente associati alla forma insolita del suo corpo.


“L’analisi è stata ancora più impegnativa, considerata la quantità molto limitata di informazioni sul campione – spiega Sanchita Bhattacharya, ricercatrice di bioinformatica all’Ucsf – e la mancanza di una storia familiare, che lo rende un caso unico“. 

Bhattacharya ha usato l’Human Phenotype Ontology (Hpo), un database che collega i dati genomici ai fenotipi anomali, per far luce sull’origine dello scheletro. 
L’immunologo e microbiologo Gary Nolan della Stanford University ha iniziato a indagare su Ata nel 2012, quando un amico gli raccontò che credeva di aver trovato un alieno. 
Nolan vide che Ata, anche se era molto probabilmente un feto, aveva la composizione ossea di un bambino di 6 anni: soffriva dunque di un raro disturbo osseo. 
Iniziò così le sue analisi, e per saperne di più, Nolan si è rivolto ad Atul Butte dell’Ucsf.




Ora lo studioso di Stanford è convinto che gli studi sui resti e sul precoce invecchiamento osseo potranno un giorno aiutare i pazienti con ossa fragili o invecchiamento osseo accelerato. 
Ma Nolan spera anche che un giorno la piccola Ata possa tornare a casa e avere finalmente una sepoltura: non si tratta del visitatore da un pianeta lontano, ma di un feto sudamericano che non ha più di 40 anni.

 “Sappiamo che era una bambina, morta probabilmente prima o subito dopo il parto. 
Penso che dovrebbe tornare al suo Paese di origine ed essere sepolta secondo i costumi locali“, conclude Nolan. 


Fonte: www.meteoweb.eu

lunedì 26 marzo 2018

Khajuraho, i templi dell’amor profano dell’India


L’amore sacro e l’amore profano saldati insieme, uniti a imperitura memoria. 
A Khajuraho, nell’India più intensa, si fondono i sentimenti, la passione, l’erotismo con la religione, il misticismo e divinità. 
Uno scambio di contrasti apparenti che si basa sulla concezione tantrica del sesso e della vita che ha portato i templi di questo parco di quasi 13 chilometri quadrati ad essere famosi per rappresentare una sorta di Kamasutra in pietra. 
 Niente di pruriginoso o scabroso, anzi. Il sito, tra verde lussureggiante e strutture che appaiono all’improvviso, è già molto ricco di fascino in sé e le rappresentazioni veritiere sono solo una piccola parte della fama del luogo.


In particolare, se prima di affrontare questa passeggiata archeologica nel verde di giardini in stile inglese, il moderno pellegrino decide di assistere allo spettacolo di “suoni e luci” che si svolge la notte proprio ai piedi di un paio di templi: in una cornice estremamente suggestiva, una voce narra la leggenda dalle fondazione del luogo per volere della Dea Luna, che si specchiava nel laghetto adiacente e chiese ai suoi discendenti, che poi divennero il clan Chandela, di costruire in suo onore 85 templi. 

 La storia ha tutto il sapore delle antiche fiabe indiane (Dei, natura, eroi, soldati, tigri, principesse), mentre l’illuminazione sapiente accende nell’oscurità alcune parti delle costruzioni e la musica antica sottolinea le parole.
 Uno show decisamente affascinante che rimane nel cuore, così come la visione alla luce del sole di tutto il sito religioso.




Divisi in due sezioni, sparsi a pochi metri uno dall’altro, tra fiori giganti e lussureggianti piante, alcuni più bassi, altri alti fino ad oltre 110 metri, i 22 templi e qualche rovina sono la testimonianza della gloria della dinastia Chandela, che regnò in questa zona centrale dell’India, e furono eretti tra la metà del IX secolo e l’inizio del XII da centinaia di abili scultori, architetti e operai, il cui nome purtroppo è perso nel dimenticatoio della storia. 
 Furono sicuramente eccezionali come mano d’opera, scolpendo ad una ad una le migliaia di statue a bassorilievo che arricchiscono ogni centimetro di tutti i templi. 
Oltre ai consueti animali della giungla, elefanti, tigri e leoni, oltre ai valorosi soldati che combatterono per la dinastia, oltre alle raffigurazioni dei tanti Dei, a cominciare da Ganesh, oltre alle innumerevoli scene di vita quotidiana, i principali protagonisti di questi decori nella pietra rossa sono uomini e donne in posizioni sensuali.




Per questo Khajuraho è considerato il luogo della rappresentazione del Kamasutra. Anche se le “vignette” erotiche sono soltanto il 15 % delle opere d’arte scolpite nelle pareti. 
I templi sarebbero il centro del misticismo tantrico, dove il sesso è essenziale affinché gli umani tramite esso si avvicinino al divino e all’assoluto.
 Per alcuni studiosi, invece, le raffigurazioni sensuali sarebbero state effettuate per ricordare che si può arrivare al cospetto degli Dei soltanto abbandonando i propri istinti e desideri sessuali.
 Una sorta di purificazione: infatti quel tipo di sculture si trovano nella zona esterna del tempio, che al centro è dedicato ad una delle tante divinità, da Shiva a Vishnu e Brahma, mentre una volta, prima di crolli, saccheggi e attacchi del tempo, ognuno aveva intorno mura, porte e cortili circondati da palme da dattero (Khajur, in indi, significa palma). 
 Quello che è certo è che i bassorilievi sono un esempio di grande manualità artistica degli scultori e anche se potrebbero sembrare una sorta di libro di pietra di figure sessuali, trasmettono sicuramente gioia e positività.




I primi scopritori inglesi, dopo che per secoli i templi furono inghiottiti dalla giungla, nel 1840, in piena epoca puritana dell’Ottocento, rimasero sconvolti e inorriditi davanti a tanta lussuria. 
Oggi invece, abituati come siamo a provocazioni di ogni genere, fanno sorridere.
 Donne prosperose nelle loro curve morbide e sinuose e uomini prestanti in varie posizioni hanno l’espressione del viso felice di chi ha raggiunto l’illuminazione divina.



Fonte: latitudinex.com

giovedì 22 marzo 2018

Nelle spettacolari grotte di ghiaccio dell’Isola degli Apostoli in cui nessuno può più entrare


Un altro inverno senza grotte di ghiaccio. 
L'ultima volta che hanno aperto al pubblico era il 2014. Ma anche quest'anno nessuno potrà godere dell'incredibile spettacolo offerto dalle Mainland Caves di Apostle Island, nel Wisconsin, o anche solo raggiungerle senza camminare sotto le loro stupefacenti arcate di arenaria ricoperte di stalattiti di ghiaccio. 
 A causa dei forti venti e delle temperature miti, lo strato di giacchio che permette di raggiungere queste spettacolari grotte in inverno si è frantumato.
 Accesso vietato, quindi: non sarebbe sicuro avventurarsi in questo angolo dell'Apostle Islands National Lakeshore, dove l'acqua incontra terra e cielo creando spettacolari insenature.


Il ghiaccio delle Mainland Cave appare blu solo quando è sufficientemente consolidato: così denso che le bolle d'aria non permettono il passaggio della luce. 
Man mano che le bolle si disperdono, invece, il giaccio diventa brillante, diamantato, abbagliante. 


Il loro massimo splendore lo hanno vissuto nell'inverno fra il 2013 e il 2014. 
E' stato così freddo che uno spesso strato di ghiaccio si è formato da subito e non si è più sciolto sino a primavera, trasformando le grotte di Apostle Island in un paesaggio incantato che sembrava uscire dalle cronache di Narnia.




Da allora decine di migliaia di visitatori hanno provato a raggiungerle in questi quattro anni, ma hanno trovato sempre la strada chiusa. O meglio, sciolta. 
In questo periodo il ghiaccio non si è mai congelato abbastanza da permettere il passaggio a piedi.
 Il freddo di inizio dicembre aveva fatto ben sperare in una riapertura. Ma il vento ha soffiato via ogni speranza, lasciando a queste foto l'ultimo ricordo.


Siamo lungo la sponda settentrionale del Lago Superiore, il più grande lago d'acqua dolce del pianeta.
 D'estate queste grotte si possono raggiungere facilmente con qualsiasi tipo di imbarcazione.
 D'inverno il piccolo arcipelago si unisce alla terraferma con uno strato di ghiaccio, che solo se supera un certo spessore può essere varcato. 

 Prima del 2014, erano passati cinque anni dall'ultima apertura. Quindi la speranza è che l'anno prossimo il ciclo si ripeta, permettendo a tutti di accedere a questa incredibile meraviglia della natura.
 Ma non tutti sono così ottimisti: «Gli inverni sono sempre più miti e il giaccio non ce la fa a consolidarsi», spiega Julie Van Stappen dell'Apostle Islands National Lakeshore, e «le proiezioni climatiche ci dicono che il raggiungimento dello spessore minimo sarà sempre più raro».

 Un altro, inesorabile e irreversibile, «effetto indesiderato» del cambiamento climatico.



Fonte: lastampa.it

mercoledì 21 marzo 2018

Sakura e Hanami, quando il Giappone diventa magico


Sakura e hanami. Due piccole paroline magiche che aprono le porte ad un mondo incantato, lanciano uno sguardo al Giappone più reale, sospeso tra tradizione e futuro ipertecnologico.
 Sakura e hanami sono la vera essenza del Giappone e lo fanno risplendere nel periodo compreso tra fine marzo e inizio aprile. Legate una all’altra, le due paroline si completano. 
Quando i sakura, ovvero i ciliegi, sono sbocciati è il momento dell’hanami, ovvero ammirare i fiori all’inizio della primavera facendo un pic nic.
 Se uno è fortunato da poter visitare questo Paese così particolare durante questo periodo, avrà realizzato un sogno, avrà la sensazione di vivere in un luogo da fiaba.


Vedere i rami carichi di fiori bianchi gettarsi quasi nel fiume Shirakawa a Kyoto e creare una scenografia di acqua e petali delicati è qualcosa che segna per sempre l’immaginario, soprattutto se si è colpiti dalla Jap-mania.
 Difficile non rimanere coinvolti dalla spasmodica attesa di ogni singolo giapponese davanti ad una pianta in boccio: la studia, la monitora, la coccola. 
 Da Sud, dove sbocciano i primi ciliegi, al Nord, tutto il Giappone va letteralmente in tilt per la fioritura. La sorveglia come noi seguiamo il meteo, anzi, esiste proprio una sistema di bollettini di aggiornamento, previsioni e testimonianze passo passo, da Sud, dall’Okinawa, al Nord, all’Hokkaido, della fioritura, su tutti i media. 


Dalla fine di gennaio, la tensione sale e ogni giapponese attende trepidante il momento di hanami, di poter andare nei parchi cittadini al mattino presto, stendere i teli sull’erba, aspettare di salutare amici e vicini di casa e augurare una festa felice.
 Non solo nei parchi. 
Ogni attimo è buono per hanami, l’importante è che ci sia un albero in fiore per mettersi sotto, anche in piena città, anche con i colleghi di lavoro, e bere qualcosa insieme all’ombra. 
Se poi un petalo di ciliegio cade su una persona, è segno di buona fortuna per l’anno a venire.


Questa tradizione così amata risale al periodo Nara, intorno al VIII secolo.
 La fioritura di sakura coincideva con l’inizio della stagione della semina del riso e il rilancio delle attività agricole: così per propiziare il raccolto venivano fatte offerte alle divinità locali ai piedi dell’albero fiorito e i contadini bevevano sake in onore degli Dei. 

Un secolo più tardi, la corte imperiale di Kyoto riprese e ampliò questa festa, accompagnandola con piatti sofisticati e sake raffinati e legandola alla contemplazione dei fiori e alla scrittura di poesie. In breve tempo, quest’usanza di bere e mangiare sotto gli alberi in fiore fu ripresa dai samurai e in seguito dal popolo, fino a diventare, nel XVII secolo, una tradizione nazionale.


I sakura giapponesi non fruttificano: sono ciliegi particolari, coltivati unicamente per i fiori, sono diventati simbolo di un Paese, si trovano ovunque, nell’arte, nella cucina, con i dolcetti sakura mochi (pasta di fagioli rossi avvolta da riso pestato e tinto di rosa, avvolto da una foglia di ciliegio salata), nella cerimonia del tè, dipinti sulle sete per i kimono, negli inevitabili souvenir, persino ritratti sulla moneta da 100 yen e scolpiti nei tombini delle strade di Osaka. 

 I fiori bianchi tendenti al rosa durano pochi giorni ma bastano per rendere unico il panorama. 
 Inevitabilmente, durando così poco, sono anche il simbolo della bellezza effimera, una metafora della vita, bella e luminosa, ma anche fragile e passeggera, e hanno ispirato poeti, pittori e musicisti, dalle canzoni tradizionali fino a quelle moderne dell’effervescente pop made in Japan. 
 Con i sakura, e poco prima a febbraio con ume, i pruni di un rosa più intenso, inizia la primavera e le città cambiano volto diventando ancora più magiche.
 Soprattutto Kyoto, così meravigliosamente persa nel tempo e nella tradizione: visioni candide di rami e fiori stregano lunga la Passeggiata del Filosofo, incorniciano il Padiglione d’oro che tinge di colore brillante il laghetto davanti, abbelliscono il Palazzo Imperiale e il parco Maruyama, famoso proprio per i ciliegi.


I sakura portano nelle memorie del passato anche a Takayama, circondata dalle montagne e rimasta come nel Seicento, o a Kanazawa con il suo grande Giardino Kenroku-en, tinto dai ciliegi a fine marzo, dagli iris a maggio e dagli aceri rossi in autunno: una visione da sogno in ogni stagione.

 I ciliegi abbelliscono la fervida Tokyo dalle mille luci: la metropoli che non dorme mai, con i suoi quartieri, dal tentacolare Shibuya all’affaristico Ginza, diversi per indole ma tutti sempre in movimento, si ferma in contemplazione del fiore sacro, i suoi abitanti mollano il lavoro e si siedono sotto i rami a fare hanami. Anche i parchi della metropoli diventano luoghi affollati di ammiratori di fiori. 
Ad esempio, Showa Kinen Park, che ospita più di millecinquecento alberi di ciliegio e numerosi altri fiori, tra cui i tulipani, che sbocciano a metà aprile, è il luogo ideale per gli amanti della fotografia; lo Shinjuku Gyoen National Garden, che si trova nel cuore di Tokyo, un parco grandioso dove godere l’hanami in piena serenità e in perfetta armonia con la natura, qui è possibile ammirare la fioritura anche dopo l’alta stagione; al Nakameguro, lungo il fiume Meguro, dove con il calar del sole gli alberi vengono illuminati e i ciliegi creano giochi di luce davvero imperdibili che si riflettono sulle acque del fiume, qui a fine fioritura i petali caduti nell’acqua dipingono il fiume di rosa, uno spettacolo davvero indimenticabile.


Il Yanaka Reien Cemetery, che ospita anche la tomba del 15° shogun Tokugawa, è un luogo tranquillo dove fare una piacevole passeggiata sotto gli alberi in fiore, mentre il Chidori-ga-fuchi è il canale che circonda il palazzo imperiale ed è uno dei luoghi più conosciuti dove celebrare l’hanami, qui si può godere della fioritura sia a terra sia noleggiando una barca.

 Per finire, il Sumida Park, il parco più amato dai giapponesi fin dal periodo Edo, consente di godere particolarmente lo spettacolo dell’hanami. Sempre nella zona del Sumida Park, un altro modo di vivere l’hanami è fare una crociera sul fiume, soprattutto la sera, le luci di TOKYO SKYTREE® e lo yakatabune (tradizionale imbarcazione giapponese) regalano forti emozioni.

 Fra gli eventi suggeriti da Tokyo per non perdere la magia di questo momento vi è anche il Sakura Festival, dedicato all’arte, alla musica e alla tradizionale cultura culinaria giapponese che avrà luogo a Nihombashi dal 16 marzo al 15 aprile.



Fonte: latitudinex.com

lunedì 19 marzo 2018

L'innalzamento dei mari minaccia l'isola di Pasqua


L’aumento del livello del mare minaccia l’integrità delle coste dell’isola di Pasqua, uno dei luoghi più remoti al mondo e famosa per un patrimonio storico-artistico unico nel suo genere. 
Le grandi statue monolitiche con i caratteristici faccioni (moai) e le piattaforme su cui poggiano rischiano di essere raggiunte dall’acqua marina, un serio pericolo per la loro conservazione. 

Secondo i modelli matematici più accreditati sul cambiamento climatico, entro la fine di questo secolo i mari si innalzeranno fino a quasi 2 metri, cambiando la geografia di interi arcipelaghi e la vita delle persone che li popolano. 
Nel caso di Rapa Nui – il nome dell’isola nella lingua nativa –– il danno potrebbe essere enorme non solo dal punto di vista culturale, ma anche economico.


L’isola di Pasqua si trova nel bel mezzo dell’oceano Pacifico meridionale a una distanza di circa 3.600 chilometri dalla costa del Cile, al quale appartiene. 
Con un’estensione massima di appena 24 chilometri, è popolata da circa 6mila persone e ha un traffico di turisti molto alto. 
Solo lo scorso anno in 100mila hanno raggiunto Rapa Nui per visitare le sue statue.
 I turisti sono la principale fonte di ricavo per l’isola, che è costellata di alberghi e locali per ospitarli il cui fatturato annuo è intorno ai 70 milioni di dollari. 
Le statue sono tenute al sicuro entro il perimetro di un grande parco storico, tutelato dall’UNESCO.


Non sappiamo ancora molto sulla storia di Rapa Nui. 
Sulla base delle testimonianze trovate sull’isola, gli storici sono convinti che i primi a raggiungerla furono i polinesiani circa mille anni fa: vi si stabilirono creando una civiltà piuttosto florida. Costruirono oltre 1.100 moai usando tecniche non ancora del tutto chiare, comprese quelle per trasportare i pesanti blocchi di pietra dalle cave ai punti perimetrali dell’isola dove si trovano tuttora. Non sappiamo nemmeno di preciso a che cosa servissero, anche se la teoria più comune è che fossero scolpiti per augurare benessere e prosperità, e per questo sono rivolti verso l’interno dell’isola. 

I moai più piccoli erano invece rappresentazioni dei defunti di un certo rango, come i personaggi più importanti della comunità.
 Non sappiamo di preciso che cosa portò la civiltà dell’isola di Pasqua a scomparire, ma tra i più grandi indiziati ci sono l’eccessivo consumo di risorse e l’arrivo dei colonizzatori europei, che portarono malattie verso cui gli abitanti dell’isola non erano immuni.


Esploratori che misurano le statue sull’isola di Pasqua, circa nel 1790 (Hulton Archive/Getty Images)

Ora, a causa della progressiva erosione delle coste, statue e manufatti rischiano di andare perduti prima che gli storici riescano a risolvere tutti i misteri e ricostruire la storia di questa sperduta isola.

 I cambiamenti sono già evidenti: di solito i turisti iniziano la loro visita da Tongariki, sulla costa sud-est, dove è possibile osservare il Sole che sorge dietro le statue allineate. 
Le visite proseguono lungo l’unica spiaggia sabbiosa e in un’altra area del parco storico, dove si trova la statua attribuita a Hotu Matu, il mitico fondatore dell’isola.
 Tutti e tre questi siti stanno subendo una rapida erosione a causa dell’innalzamento delle acque.
 Altri danni sono giudicati ormai irreversibili nella parte nord-est di Rapa Nui, dove una spiaggia sabbiosa è quasi del tutto sparita, con danni ad alcune antiche tombe ritrovate nella zona.

 Ad Ahu Runga Va’e, lungo la costa sud dell’isola di Pasqua, i ricercatori hanno costruito una piccola diga marittima per ridurre l’impatto delle onde. 
Non è chiaro se questa soluzione possa essere sufficiente per fermare o almeno rallentare i processi di erosione.

 I responsabili del parco storico stanno valutando di spostare le statue più nell’entroterra, ma questo significherebbe modificare la disposizione dei monoliti, decisa secoli fa da chi li portò fino a lì.


Nonostante le difficoltà e le prospettive poco incoraggianti, i residenti di Rapa Nui mantengono un certo ottimismo, come hanno spiegato al New York Times.
 In mille anni di storia, la loro civiltà ha affrontato e superato crisi di ogni tipo, compresa quella che decimò la popolazione dell’isola nel Diciannovesimo secolo.
 Sono convinti che si potrà trovare una soluzione al loro problema, per conservare un posto lontanissimo da tutti e che in un certo senso è sotto la responsabilità di tutti. 


Fonte: ilpost.it

venerdì 16 marzo 2018

A Dubai arriva la motocicletta drone per la polizia


Da oggi pattugliare le strade di Dubai sarà ancora più facile. La polizia della città ha infatti ricevuto in dotazione una hoverbike, una vera e propria motocicletta drone che consentirà agli agenti di volare e atterrare direttamente dal cielo. 
E così dopo la Bugatti Veyron in grado di toccare i 408 chilometri orari, le forze dell’ordine di Dubai guardano ancora più al futuro con una ‘pattuglia volante’ che permetterà loro di spostarsi più rapidamente. 
Del resto le caratteristiche dell’hoverbike parlano chiaro: questo mezzo può raggiungere i cinque metri di altezza, ha un’autonomia di 25 minuti e può sopportare carichi fino a 300 kg.




Un’innovazione tecnologica di tutto rispetto per spostarsi agilmente nel cielo della capitale di uno dei sette emirati degli Emirati Arabi. Da non dimenticare che, oltre all’hoverbike e alla Bugatti Veyron, il parco macchine della polizia di Dubai vanta tra le altre anche un’edizione limitata dell’Aston Martin One-77, una Ferrari FF ed una Lamborghini Aventador.
 Del resto la città è tra le più ricche ed evolute al mondo dal punto di vista tecnologico e questo non rende certo la vita facile ai malviventi che, con la motocicletta drone, avranno serie difficoltà a far perdere le proprie tracce. 


Fonte: scienzenotizie.it