sabato 31 dicembre 2016

Il capodanno 2017 è più lungo di un secondo


L'International Earth Rotation and Reference Systems Service (IERS), l'organismo internazionale che vigila sui sistemi di riferimento legati alla rotazione terrestre, ha stabilito che la mezzanotte del 31 dicembre 2016 - orario di Greenwich: per noi sarà già l'una di notte - dovrà durare un secondo in più.
 Ci saranno quindi le 23:59:60, per dar modo al tempo universale coordinato (UTC) di restare al pari con il sempre più lento giorno terrestre.


Il moto di rotazione della Terra dovrebbe durare 86.400 secondi atomici, ma l'attrazione gravitazionale del Sole e della Luna, con le maree, la non omogenea distribuzione delle masse nel nucleo del pianeta (nel quale il tempo scorre più lentamente) e altri fenomeni su larga scala, come i grandi terremoti o la fusione di grandi ghiacciai continentali, alterano questo movimento, rallentandolo di circa 2 millesimi di secondo al giorno. 
 Lo IERS monitora queste discrepanze con l'aiuto della luce di galassie distanti, usate come punto di riferimento. 
Quando lo scarto supera gli 0,9 secondi, si introduce il cosiddetto leap second (secondo intercalare), che si aggiunge per comodità a fine anno o al termine di giugno, e si annuncia sei mesi in anticipo: potrebbe infatti far sballare alcuni sistemi computerizzati, i motori di ricerca e i riferimenti satellitari e gps. 
Quella del 31 dicembre 2016 sarà la 27esima correzione dal 30 giugno 1972 (l'ultima è stata il 30 giugno 2015). 
 Finora è sempre stato necessario aggiungere, e mai togliere, un secondo. Senza questo espediente, la nostra misura del tempo si discosterebbe in modo crescente dalla posizione del Sole nel cielo. Senza il leap second, nel 2100 saremmo 2 o 3 minuti desincronizzati con la nostra stella, e nel 2700 di 30 minuti. 

 Fonte: focus.it

sabato 24 dicembre 2016

giovedì 22 dicembre 2016

Natale con la Luna piena. L’ultima volta 38 anni fa


È Natale e lo sembra ancor di più se c’è qualche segno nel cielo… E quest’anno ne abbiano due. 
 La cometa Catalina, innanzitutto.
 Una cometa che potremo vedere soltanto una volta, perché a causa della sua orbita si perderà negli spazi siderali.


E poi c’è la Luna, la Luna piena. 
È vero che abbiamo una luna piena al mese (se non due), ma questa volta cade proprio nel giorno di Natale. 
Chi si alzerà di buon ora (prima delle 5:50) la potrà vedere in tutto il suo splendore.
 La Luna infatti, inizierà a sorgere al tramonto a est e raggiungerà il punto più elevato nel cielo a mezzanotte per poi tramontare verso ovest.
 Sembrerà proprio che la Luna voglia guidare con il suo massimo splendore il viaggio di Babbo Natale… 

 L’evento non è così “normale”, perché l’ultima volta che una Luna piena coincise con il giorno di Natale si ebbe nel 1977 e la situazione non si avrà più fino a Natale del 2034. 

 Fonte: focus.it

mercoledì 21 dicembre 2016

Giuseppe Arcimboldo : "L'Inverno"


L’Inverno è un dipinto di Giuseppe Arcimboldo e appartiene al ciclo delle quattro stagioni.
 Tale ciclo di dipinti venne donato all’imperatore del Sacro Romano Impero Massimilano II d’Asburgo dall’Arcimboldo nel 1569, insieme ad altri quattro dipinti che rappresentavano i quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco, dipinti nel 1566.
 L’ Inverno fu dipinto nel 1563, ma la versione che si può vedere è quella del 1573 in parte diversa dall’originale (l’uomo rappresentato aveva un mantello e una corona) e che fu realizzata dal pittore su richiesta dell’imperatore. 

 Si tratta di un olio su tavola che misura 66,6 x 50,5 ed è attualmente esposto al Louvre di Parigi. 
Come nelle composizioni fantastiche, che contraddistinguono la produzione artistica di questo straordinario pittore, anche L’Inverno rappresenta il volto di un anziano, composto, in questo caso, da elementi naturistici, rami, foglie, frutti, pezzi di alberi, dipinti con i colori e disegnati con le forme che assumono durante la stagione invernale.
 La pelle del volto è un tronco nodoso e in parte marcio con pezzi della corteccia al posto delle rughe, rotte e rovinate.
 La barba è composta da qualche piccolo ramo spoglio e senza foglie. 
L’occhio, che appare una fessura piccola come se la persona cercasse di mettere a fuoco qualcosa, è una spaccatura del legno, la bocca è composta da due funghi.
 I capelli sono foglie e rami spezzati e radi. 
I colori sono tetri e scuri, la natura riposa in inverno e si mostra all’occhio umano in una fase morente.
 La veste dell’uomo è una stuoia e al petto dell’uomo è attaccato un ramo da cui penzolano due frutti: un limone e una arancia. 

 E’ da notare che malgrado l’opinione corrente, che ritiene il quadro una rappresentazione grottesca dell’inverno e della vecchiaia, in realtà quando il quadro fu realizzato l’inverno era considerato la stagione più importante e in questa rappresentazione la sua forza visiva assume un’impostazione originale e unica. 

Fonte: biografieonline.it

martedì 20 dicembre 2016

Granchio scatola, il crostaceo vergogonoso


Nomen omen è una locuzione di derivazione latina che tradotta significa “il nome è un presagio”, “un nome, un destino”, “il destino nel nome”, “di nome e di fatto”.
 Cosa c’entri questo con il granchio protagonista di questo articolo sarà subito chiaro quando diremo che il nome popolare attribuito a questi crostacei è quello di “box crab” o granchi scatola oppure, più simpaticamente, granchi vergognosi, in riferimento alla loro abitudine di nascondere la bocca dietro le chele.
 Osservato da vicino il granchio in questione – un esponente tropicale del genere Calappa presente anche nel nostro Mediterraneo con il granchio melograno (Calappa granulata) – non può che avere questo nome a causa del suo carapace, così compatto e chiuso da assomigliare addirittura, più che a una scatola, a un carro armato disegnato da Leonardo da Vinci.
 I granchi scatola sono davvero animali corazzati. 
Il loro carapace si presenta fortemente convesso, quasi come un elmetto militare, con il dorso caratterizzato da solchi e rilievi distribuiti uniformemente, che curva verso il basso per raccordarsi alla piastra ventrale, altrettanto robusta e compatta.


In questa foto la parte anteriore appare nascosta dalle due grosse e robuste chele, tenute in posizione di difesa a causa della presenza del fotografo di questo articolo, il biologo marino Federico Betti. Le chele si incastrano quasi perfettamente con il resto della corazza, lasciando sporgere soltanto gli occhi. 
Al loro incrocio si nota anche una piccola apertura, in apparenza poco significativa, ma in realtà molto importante per l’animale. Infatti, è allineata con la bocca e consente al granchio – grazie anche alla peluria ai margini delle chele e che funziona da filtro – di respirare quando, com’è sua abitudine, si nasconde nei sedimenti. 
In questo è rapidissimo, e con abili movimenti avanti, indietro e di lato si scava uno spazio nella sabbia, dove poi scompare lasciando come unica traccia gli occhi e un leggero movimento di particelle di sabbia dovuto ai flussi respiratori.
 La calappa curiosamente non solo è una perfetta scatola, ma è anche un efficiente apriscatole e le altre scatole sono gli altri animali marini ben inscatolati, i molluschi, che caccia soprattutto di notte quando anche le loro prede sono solite uscire dai sedimenti dove hanno trovato rifugio nelle ore diurne.
 Grazie alle sue chele, la calappa è in grado di spezzare i gusci dei molluschi gasteropodi utilizzando in particolare la chela destra, particolarmente robusta e potente e proprio a forma di apriscatole, per poi servirsi della sinistra per afferrare e tagliare la polpa della preda, ormai priva di difese.
 Secondo alcuni studiosi, la conformazione delle chele della calappa è un chiaro esempio della corsa alle armi che si svolge sotto il mare: con l’evoluzione, più i molluschi si dotavano di conchiglie robuste, più i granchi perfezionavano e potenziavano le proprie chele. 

 Fonte rivistanatura.com

lunedì 19 dicembre 2016

Cos'è questo "mostro" comparso su una spiaggia in Nuova Zelanda?


Lo hanno chiamato il Muriwai Monster ("Mostro di Muriwai"), dal nome della spiaggia della Nuova Zelanda dove è stato individuato, ed il nome è quanto mai appropriato: a giudicare dalle foto, pare infatti ciò che ci si aspetterebbe di vedere in un film che parla di una mostruosa creatura saltata fuori dalle profondità oceaniche. 

Comparso sulla spiaggia di Muriwai, nella parte occidentale dell'isola settentrionale della Nuova Zelanda, il "Mostro" ha dapprima suscitato la curiosità delle comunità locali: un'abitante del posto, Melissa Doubleday, ha condiviso le immagini su Facebook, nella speranza che qualcuno l'aiutasse a svelare il "mistero".
 Le ipotesi sono state parecchie, alcune particolarmente fantasiose, a partire da quella che identificava il mostro con "una balena rastafariana", visti i lunghi e numerosi tentacoli, molto simili a dei rasta. 

Ci spiace per chi si aspetta l'annuncio della scoperta di qualche nuova e mostruosa specie marina: nulla di tutto questo.
 In effetti, la spiegazione è molto più semplice, ma non per questo meno affascinante.
 Quello che si vede nella foto, almeno secondo la New Zealand Marine Sciences Society, è un grosso pezzo di legno coperto di pedunculata, dei crostacei maxillopodi che si attaccano a rocce, detriti vari ed anche alle chiglie delle navi. 
Molto spesso questo comportamento viene messo in atto da molti esemplari, creando effetti come quello del "mostro".


Nel caso doveste andare in Spagna o in Portogallo, potreste trovarveli (a caro prezzo) nel piatto, con il nome di percebes: sopratutto nella zona della Galizia vengono considerati come i più prelibati fra i crostacei.
 La specie delle immagini è presumibilmente quella della Lepas anatifera, che ha la caratteristica di agganciarsi ad una superficie utilizzando questi "gambi" di muscoli che possono essere visti nelle foto e che possono raggiungere fino ad una lunghezza di 80 centimetri. 
Per alimentarsi sfruttano dei tentacoli che fuoriescono dai gusci.


Quando si attaccano ad una superficie producono una specie di "mastice" che li rende quasi un tutt'uno con ciò a cui decidono di attaccarsi.
 Il che può essere un problema se l'oggetto sul quale vivono decide di arenarsi su una spiaggia, dal momento che questi sono gli unici crostacei sessili al mondo, ossia gli unici incapaci di muoversi autonomamente. 

 Fonte: ibtimes.com

Viaggio nella terra dei Navajo alla scoperta di incredibili formazioni geologiche naturali


 In Arizona, al confine con l’Utah, a pochi chilometri dalla città di Page, vicino Lake Powel, si trova Antelope Canyon, il più suggestivo ed imperdibile slot canyon (canyon stretto) degli Stati Uniti sud-occidentali. Si tratta di incredibili e misteriose formazioni geologiche naturali, opera del vento e dell’acqua che, in milioni di anni, hanno eroso la pietra arenaria, dando origine ad incantevoli percorsi che si sviluppano come delle spirali… non a caso è anche chiamato “corkscrew Canyon”, ossia “Canyon a cavatappi”.






Situato sulla terra dei Navajo (Nà-va-ho), è un luogo da sogno, possibilmente da visitare quando i raggi del sole sono perpendicolari al suolo terrestre, riuscendo a filtrare tra le piccole insenature del canyon, dando vita a suggestivi giochi di luci ed ombre, indescrivibili a parole ed i periodi ideali per ammirarlo sono quelli primaverili (marzo-aprile) e autunnali ( ottobre-novembre). 

La storia narra che l’Antelope Canyon venne scoperto nel 1931, da una pastorella indiana appartenente alla tribù dei Navajo, mentre cercava una pecora fuggita dal branco.

 Essendo soggetto ad inondazioni impreviste, il canyon può essere visitato solo con delle escursioni guidate. 
Questa meraviglia paesaggistica, che attira sempre folle di turisti ed aspiranti fotografi alla ricerca dello “scatto mozzafiato”, è davvero imponente, con i suoi 240 metri di altezza. 
Si arriva all’ingresso dell’area, composta da due formazioni distinte: Upper Antelope Canyon e la Lower Antelope Canyon , tramite mezzi fuoristrada.









L’ingresso all’Upper Antelope, che in lingua Navajo significa “il luogo dove l’acqua scorre tra le rocce”, si presenta come una fenditura nella roccia del deserto e, appena entrati, ci si trova di fronte a stretti passaggi tra rocce striate di una bellezza indescrivibile, con geometrie e curve perfette. 
Il canyon deve il suo nome alle numerose greggi di antilocapre americane (pronghorn) che pascolavano in questa zona e veniva utilizzato dagli indiani Navajo per fare pascolare le mandrie durante l’Inverno. 
Mentre l’Upper Antelope Canyon è facilmente accessibile e presenta con più frequenza il fenomeno della penetrazione dei raggi di luce, Lower Antelope Canyon ha un accesso più impegnativo, con scalette di ferro e un percorso non semplicissimo. 
Tuttavia ha due vantaggi non da poco: la presenza di molti meno turisti e la possibilità di trattenersi al suo interno per tutto il tempo che si desidera. 

 Caterina Lenti

venerdì 16 dicembre 2016

I Re Magi vennero guidati da un eccezionale allineamento di pianeti


La famosa stella cometa di Natale, che avrebbe guidato i Re Magi dall’Oriente a rendere omaggio a Gesù appena nato, in realtà non era presente nel cielo, ma fu un eccezionale allineamento di pianeti ad indirizzarli, fatto che si verificò il 6 a.C. 
 Il primo a teorizzarlo fu Keplero, e dopo di lui diversi astronomi hanno lavorato su questa tesi.
 L’ultimo è Grant Matthews, astrofisico dell’università di Notre Dame, che ha presentato le sue conclusioni in una conferenza nello stesso ateneo. 

Studiando i dati storici, astronomici e biblici, Matthews è arrivato alla conclusione che l’evento che guidò i Magi, sacerdoti zoroastriani dell’antica Persia, fu una congiunzione di pianeti estremamente rara, avvenuta nel 6 a.C. e da allora mai più osservata in cielo.  

C’erano il Sole, Giove, la Luna e Saturno nella costellazione dell’Ariete, Venere nella vicina costellazione dei Pesci, e Marte e Mercurio dalla parte opposta del cielo nel Toro. 
In quell’epoca, l’equinozio di primavera era in Ariete. 
Un evento simbolico per chi era un esperto di astronomia, come i Magi. 
La presenza di Giove e la Luna infatti indicava la nascita di un grande personaggio mentre Saturno era un simbolo di vita, così come la presenza dell’Ariete nell’equinozio di primavera, che stava a indicare l’inizio della primavera.
 ”I Magi devono aver visto questa congiunzione a est, riconoscendo il simbolo di una nascita regale di Giudea”, rileva Matthews. I dati indicano inoltre che ”la nascita di Gesù non avvenne a dicembre – aggiunge Vito Polcaro, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica – ma prima, entro l’autunno, quando i pastori dormivano ancora all’aperto”. 

 Fonte: www.ansa.it

giovedì 15 dicembre 2016

Base segreta nazista rinvenuta nell’Artico russo


Di basi segrete naziste nell’Artico si parla (e favoleggia) da oltre 70 anni. 
 Si conoscono da fonti militari tedesche, ma finora quella sull’isola Terra di Alessandra non era mai stata identificata. 
 Nello scorso agosto una missione russa, grazie anche al riscaldamento globale – particolarmente intenso alle alte latitudini – che ha sciolto i ghiacci estivi, è riuscita a identificarla nella Terra di Francesco Giuseppe, un remotissimo arcipelago nell’Estremo nord russo a oltre 80 gradi Nord (Russian Arctic National Park). 
 La Terra di Francesco Giuseppe, così chiamata dagli esploratori austriaci che la scoprirono nel 1873, è composta da quasi 200 isole per una superficie totale di oltre 16 mila chilometri quadrati (pari a una regione italiana grande come il Lazio), a soli mille chilometri in linea d’aria dal Polo Nord.


La base faceva parte dell’operazione Schatzgräber (Cacciatore di tesori), una serie di avamposti realizzati dai nazisti nell’Artico nel 1942-1944 per le previsioni meteo.
 La base, aperta nel settembre 1943, è stata rinvenuta nell’isola Terra di Alessandra, la più occidentale dell’arcipelago. 
Sono stati trovati circa 500 reperti di vario tipo.










La vita nell’avamposto sulla Terra di Alessandra era durissima. Temperature rigide, poco da mangiare (una parte del cibo era finito in fondo al mare), isolamento totale. 
 I militari tedeschi per sopravvivere iniziarono a cacciare gli orsi polari. Solo che la carne degli orsi bianchi, come sanno bene gli eschimesi che non la mangiano, è sempre contaminata da parassiti. I soldati iniziarono ad ammalarsi gravemente. 

 Nel giugno 1944 dovettero chiedere soccorso alla base aerea tedesca di Banak, in Norvegia, per far arrivare un medico e portare indietro gli ammalati, secondo quando afferma lo storico militare tedesco Franz Selinger. 
 Arrivò un aereo da trasporto, un grande FW-200 Condor, che danneggiò una ruota in fase di atterraggio. 
Dalla Norvegia mandarono un secondo aereo che paracadutò la ruota di ricambio. 
La base venne abbandonata definitivamente nel luglio 1944.

 I ricercatori russi hanno rinvenuto molto materiale: libri, documenti, testi di meteorologia, manuali della Marina militare tedesca, munizioni, cartucce, tavole astronomiche, quaderni di registrazioni di dati meteo, riviste e anche una copia del libro «Tom Sawyer» di Mark Twain. 
Tutti gli oggetti rinvenuti saranno esposti in un museo ad Archangelsk, sulla terraferma nella Russia europea.

 Negli anni Ottanta una squadra di esperti sminatori tedeschi (forse della ex Ddr?) visitò le isole per rimuovere i campi minati. Ma solo nella scorsa estate è stata fatta una completa ricognizione e uno studio accurato della base mappandola con precisione. 

 Fonte: ilnavigatorecurioso.it

James Lackington, l'uomo che ha inventato le librerie


E se vi dicessimo che le librerie sono state inventate da un calzolaio? E tutto grazie a una visione illuminata, ad una mente inquieta, alla voglia di realizzare sogni.
 Parliamo di James Lackington morto nel lontano 1815, colui che viene definito come l’inventore delle librerie.

 Figlio di un calzolaio, già all’età di dieci anni aveva imparato il mestiere del padre, ma senza troppa convinzione di voler proseguire per tutta la vita. 
Da autodidatta aveva imparato a leggere e all’età di venticinque anni si era trasferito a Londra in cerca di fortuna. 
 Affascinato dal mondo dei libri, Lackington pensò a un modo per rendere la cultura più accessibile a tutti e non solo alla nobiltà ottocentesca.
 Non senza un pizzico di follia, nella calzoleria che nel frattempo era riuscito ad aprire, fece una sorta di biblioteca, dove chiunque poteva prendere in prestito, acquistare o consultare quelli che amava definire gli strumenti della felicità, ovvero i libri.
 Secondo la sua filosofia di vita, infatti, chiunque doveva avere la possibilità di leggere e fuggire con la fantasia.
 A sua insaputa, più che una biblioteca, aveva creato una libreria che in pochissimo tempo, aveva riscosso un grande successo. 

Grazie alla vendita dei libri Lackington, nel giro di qualche anno, nel 1794, aprì con un socio il Tempio delle Muse, la prima e la più grande libreria moderna con oltre 500mila volumi.
 Le vetrine coprivano circa 40 metri e la cassa al piano terra era disposta su un grande tavolo a forma di anello, vi erano quattro piani di sale in cui i clienti potevano consultare e leggere i libri: più si saliva, più i libri erano vecchi ed economici.
 La libreria vendeva 100mila libri all’anno, con un fatturato di circa 630mila euro di oggi. 

Il motto di Lackington era "Piccoli profitti fanno grandi cose". Nella sua libreria decise che non avrebbe dato libri a credito, come si faceva all'epoca. 
I clienti dovevano pagare subito e in contanti. 
Questo gli permise di comprare subito nuovi libri e di mettere il bastone tra le ruote ai concorrenti.
 La seconda innovazione fu la svendita dei libri vecchi.
 I librari compravano compravano grandi quantità di volumi vecchi ma poi ne distruggevano i tre quarti per far salire il prezzo delle copie rimaste.
 Lackington introdusse una strategia di vendita opposta: comprava grandi quantità di libri usati e poi li rivendeva a un prezzo molto economico.
 Puntava quindi a vendere un maggior numero di libri, piuttosto che venderne pochi a un prezzo molto alto. 
 I clienti poi non potevano contrattare sui prezzi. Il cartello indicava chiaramente: "Il prezzo più basso è indicato sulla copertina e non ci saranno sconti ulteriori su nessun libro".

 Il suo Tempio delle Muse era diventato un'attrazione turistica con scaffali pieni, gallerie come se ci si trovasse all’interno di una caverna.
 Per molti anni, fu il rifugio di letterati conosciuti ma nel 1841, la libreria fu distrutta da un incendio e mai più ricostruita. 
 E Lackington? 
Si ritirò in una casa in campagna con la moglie Nancy continuando a vivere secondo la sua filosofia: bastano i libri a fare la felicità. 

 Dominella Trunfio

mercoledì 14 dicembre 2016

Jules Verne aveva ragione: c’è acqua sotto al mantello terreste


Jules Verne andò oltre, immaginando un gigantesco oceano al centro della Terra. Ma le sue fantasie non sono inverosimili.
 Stando infatti a uno studio condotto dalla Northwestern University di Evanston, in Illinois, il mantello terrestre potrebbe contenere ingenti quantità di acqua, a circa mille chilometri dalla superficie del pianeta. 
«Così proviamo che esiste un serbatoio sconosciuto di acqua» dice Steve Jacobsen, a capo della ricerca, «che ci permette di rivedere tutti i concetti legati alla qualità e alla quantità dei liquidi distribuiti sul globo»; questo il risultato delle analisi condotte su un diamante risalito in superficie novanta milioni di anni fa.
 La pietra contiene ioni ossidrili, direttamente collegati all’acqua; (la dissociazione delle molecole d’acqua porta infatti alla formazione di ioni OH- e ioni H+). 
«Sappiamo molto di più della superficie di Marte, che non del cuore della Terra», ha detto recentemente Lewell Miyagi su Nature Geoscience. 
Ma ora le cose cambiano.
 Gli scienziati parlano infatti di diamanti super profondi, che avrebbero questa capacità di immagazzinare ioni OH-, sovvertendo le tesi geologiche fin qui valorizzate.
 Ci troviamo nella cosiddetta zona di transizione, dove sussistono altissime temperature e pressioni; il punto in cui il mantello cambia la sua composizione chimica e fisica.
 «I diamanti ad alta pressione rappresentano una sorta di finestra sul cuore del pianeta», racconta Graham Pearson dell’University of Alberta, di Edmonton.
 Il riferimento è anche a un minerale appena scoperto, la ringwoodite (simile all’olivina), tipico del mantello terrestre e capace di trattenere liquidi. 

 Fonte rivistanatura.com

La luce fa "parlare" l'antichissimo amuleto di Mehrgarh


Il passato è la chiave per il presente”. 

 Questa massima scientifica in genere significa che le leggi della natura nel mondo antico operano ancora esattamente oggi. Lo stesso vale per le tecnologie e un amuleto di 6 mila anni fa, che assomiglia ad una ruota arrugginita, che sta fornendo ai ricercatori una storia piuttosto curiosa che abbraccia millenni.

 Scoperto dagli archeologi a Mehrgarh in Pakistan, questo amuleto è stato consegnato ad un team di fisici che hanno deciso di dare uno sguardo più da vicino alla strana corrosione che copre la superficie verde malaticcio del monile notando che emette varie frequenze della radiazione elettromagnetica dovuto ad un effetto di ossidazione del rame. 
 A indicarlo è lo studio condotto presso il sincrotrone Soleil dagli esperti del Centro nazionale delle ricerche francese (Cnrs), che pubblicano i risultati su Nature Communications. 
 Per visualizzare la microstruttura dell’amuleto con una risoluzione superiore a quella dei tradizionali microscopi, i ricercatori hanno sfruttato la tecnica della luminescenza.
 Dall’analisi è emerso che l’amuleto sarebbe nato come un pezzo unico di rame. 
 Il metallo fuso sarebbe stato versato in uno stampo di argilla creato intorno ad un modellino di cera con la forma dell’amuleto. 

L’amuleto sarebbe dunque uno degli oggetti metallici più antichi mai realizzati con la tecnica di fusione a cera persa.
 La natura deforme dell’amuleto e questi strani picchi unici, suggeriscono che il metodo utilizzato per realizzare l’amuleto era un processo noto come fusione a cera persa, una vera rivoluzione per la metallurgia antica. 


Tratto da: www.ilnavigatorecurioso.it

La leggenda messicana della stella di Natale


Sapevate che la stella di Natale è una pianta originaria del Messico? Siamo abituati a prenderci cura di piccole stelle di Natale da coltivare in vaso, ma nel suo habitat naturale questa pianta ornamentale può raggiungere i 4 metri di altezza. 
 Non mancano le leggende dedicate alla stella di Natale che nel corso del tempo è diventata uno dei simboli più conosciuti di questa festività e uno dei regali più diffusi per l’occasione. 
 Tra le storie più famose dedicate a questa pianta troviamo la leggenda messicana della stella di Natale. 
Secondo la leggenda messicana, la stella di Natale è una pianta speciale, in grado di conquistare il cuore delle persone.

 La leggenda racconta che in un piccolo villaggio messicano viveva una bambina povera che non aveva nessun dono da offrire a Gesù per il giorno di Natale. 
Tutti gli abitanti si stavano recando alla chiesetta del villaggio con i loro doni ma la bambina non avendo nulla da portare con sé decise di rimanere a casa.


La bambina era molto triste, non sapeva davvero come fare per trovare un dono da portare a Gesù. Allora le apparve un Angelo che le disse di raccogliere delle frasche dai bordi delle strade per portarle in chiesa. 
L’Angelo le assicurò che il suo dono sarebbe stato il più bello di tutti perché era accompagnato dal sentimento più importante, cioè dall’amore.


La bambina allora seguì le istruzioni dell’Angelo, raccolse le frasche e le portò con sé in chiesa per offrirle come dono.
 Ne depose un mazzo vicino all’altare e cominciò a pregare. 
Le frasche si trasformarono in una pianta dai meravigliosi fiori rossi e fu così che secondo la leggenda nacque la stella di Natale così come la conosciamo oggi.


Da quel giorno le stelle di Natale in Messico vennero chiamate "Flores de la Noce Buena", cioè fiori della Notte Santa. 

Al di là della leggenda sappiamo che storicamente nel 1825 Joël Poinsett, ambasciatore americano in Messico, portò in America dei semi della stella di Natale e così fece conoscere questa meravigliosa pianta in tutto il mondo. 

 Marta Albè

martedì 13 dicembre 2016

Scoperta una tribù incontattata in Amazzonia: sono i Moxihatetema


Esistono ancora persone che non hanno contatti con la società come la intendiamo noi? Quella fatta di elettricità, automobili, lavoro, televisione e smartphone per intenderci. 
La risposta è sì e potrebbero essere più di quante pensiamo. 

Proprio qualche tempo fa, in Amazzonia, tra il Venezuela e il Brasile, è stata avvistata una tribù, quella dei Moxihatetema appartenenti al più ampio gruppo etnico degli Yanomamö che contano, in totale, 22.000 persone in Brasile e 12.000 in Venezuela. Le immagini confermano che la popolazione esiste ancora, era infatti un anno circa che non si avevano tracce dei Moxihatetema e il gruppo sembrerebbe aver raggiunto le 100 persone. 
La loro sopravvivenza purtroppo è a rischio perché, per quanto siano protetti dal governo, si trovano comunque ad avere a che fare con i minatori illegali di oro, circa 5.000, che portano malattie, come la malaria, alle quali gli indigeni difficilmente sopravvivono.




E non è tutto. I minatori inquinano anche il cibo e l’acqua degli Yanomamö con il mercurio, il che rende la loro vita ancor più complicata. 

 A questo proposito lo sciamano e attivista Yanomamö Davi Kopenawa ha dichiarato “Il luogo in cui gli indiani incontattati vivono, pescano, cacciano e coltivano deve essere protetto. 
Tutto il mondo deve sapere che loro si trovano nella foresta e che le autorità devono rispettare il loro diritto di vivere lì”.
 Per questo le immagini scattate sono importanti. Non si tratta di violare la loro privacy, ma di raccontare una realtà distante dalla nostra, ma non per questo meno importante.

 Chi sono le tribù incontattate?
 Si tratta di popoli indigeni che non hanno contatti con la società “dominante” e sono distribuite in Asia, America settentrionale e meridionale e Oceania.
 Di loro si occupa Survival International dove sono disponibili le immagini e le informazioni riguardanti le circa 100 tribù mai contattate. 

 Fonte: scienze.fanpage.it

 [Foto di Guilherme Gnipper Trevisan/Hutukara]

lunedì 12 dicembre 2016

È il vino sardo quello più antico del mondo: trovate prove di una specie di Cannonau di quasi 3000 anni fa!


Qualcuno sosteneva che il vino lo avessero fatto conoscere ai nostri avi i colonizzatori fenici, mentre i francesi erano certi di essere stati i primi produrlo e a berlo. 
Ma adesso gli studiosi sardi ribaltano tutte le convinzioni: «Sì, è vero, in Francia è custodito un altro torchio di grande importanza storica – spiega Martino Orrù, ricercatore del Dipartimento “Scienze della vita e dell’ambiente” dell’ateneo cagliaritano – Ma quel reperto risale al V secolo avanti Cristo, mentre quello venuto alla luce nelle campagne di Monastir risale al IX secolo: i nostri studi, dunque, si sono basati sul ritrovamento in assoluto più antico nel bacino del Mediterraneo».


Il torchio che riscrive la storia affascinante dell’enologia è stato ritrovato nella zona di Monte Zara, non lontano dal centro abitato di Monastir, una cittadina pochi chilometri da Cagliari. 
Si trovava all’interno di una specie di capanna che gli archeologi hanno da subito considerato un laboratorio, dove insieme al vino si produceva l’olio e si realizzavano i mattoni in terra cruda. 

«Abbiamo esaminato tutti i frammenti ritrovati all’interno della vasca del torchio – ha spiegato il professor Pierluigi Caboni del Centro di conservazione della biodiversità dell’Università di Cagliari – E così possiamo fissare con assoluta certezza un tassello importante per individuare le prime produzioni vinarie». «Ancora non siamo in grado di dire con precisione che tipo di vino producessero – aggiunge il professore di botanica Gianluigi Bacchetta – Ma le sostanze analizzate ci spiegano l’uso che si faceva di quel torchio. Quelle ritrovate sono tracce di vitigni autoctoni e in particolare a bacca rossa».

 Sulla tradizione contadina e alimentare dei nuragici, gli studi degli ultimi anni hanno già svelato altre notizie molto affascinanti. 
In una diversa zona della Sardegna, nelle campagne di Cabras, gli archeologi hanno ritrovato più di 15 mila semi ancora in perfetto stato di conservazione. 
Erano ancora all’interno di quelli che si possono considerare dei frigoriferi naturali: profondi pozzetti scavati nella roccia. 
Da qui si è scoperto che i nuragici curavano la vite, coltivavano il melone e raccoglievano noci, nocciole e fichi.
 E al termine delle continue battaglie brindavano (o magari si sbronzavano) con il vino rosso. 

 Fonte: www.lastampa.it

Sutton Hoo, il bitume conferma i legami tra Medio Oriente e Anglosassoni


L’eccezionale scoperta di resti di bitume sulla carena di una nave funeraria rinvenuta nel cimitero di Sutton Hoo – sito archeologico nel Sud della Gran Bretagna – potrebbe aggiungere un tassello importante per la ricostruzione della storia dell’alto medioevo anglosassone. 
Secondo i ricercatori, infatti, il materiale utilizzato proverrebbe dalla regione del Mar Morto e i britannici potrebbero averlo portato da quella che è l’attuale Siria.
 «Si tratta di una scoperta eccezionale e del tutto inaspettata – ha dichiarato la ricercatrice Pauline Burger –. L’uso di questa sostanza è estremamente rara nell’antica Britannia e arriva con tutta probabilità dal Medio Oriente». 
Le tracce di bitume, utilizzato per rendere stagna la carena della nave, mostrano il collegamento tra i popoli germanici e il Medio Oriente preislamico. 
Secondo i ricercatori dell’Università di Aberdeen il ritrovamento è anche un’ulteriore conferma di come la rotta commerciale degli Anglosassoni fosse ampia, tanto da spingersi fin nel cuore del Mediterraneo. 

Il sito archeologico di Sutton Hoo, la cui scoperta risale agli anni Trenta del secolo scorso, ospita due cimiteri anglosassoni del VI e VII secolo. È considerato uno dei più importanti dell’intero Regno Unito perché fa luce su un periodo della storia britannica avvolto del mito e del quale si hanno scarse notizie storiche. 
All’interno dell’area sono stati trovati manufatti in oro e argento, ma anche armature cerimoniali e persino una nave funeraria straordinariamente ben conservata.

 Fonte rivistanatura.com

mercoledì 7 dicembre 2016


Sono le donne difficili quelle che hanno più amore da dare, ma non lo danno a chiunque. Quelle che parlano quando hanno qualcosa da dire. Quelle che hanno imparato a proteggersi e a proteggere. Quelle che non si accontentano più. 
Sono le donne difficili, quelle che sanno distinguere i sorrisi della gente, quelli buoni da quelli no. Quelle che ti studiano bene, prima di aprirti il cuore. Quelle che… non si stancano mai di cercare qualcuno che valga la pena. 
 Sono le donne difficili, quelle che sanno sentire il dolore degli altri. Quelle con l’anima vicina alla pelle. Quelle che vedono con mille occhi nascosti. Quelle che sognano a colori. 
Sono le donne difficili che sanno riconoscersi tra loro. Sono quelle che, quando la vita non ha alcun sapore, danno sapore alla vita. 

 Alma Gjini.