mercoledì 9 settembre 2015
La meravigliosa “spiaggia di quarzo” di Is Arutas
Nel vederla per la prima volta si rimane senza parole per la sua bellezza e straordinaria particolarità.
Parliamo di Is Arutas, una tra le più belle spiagge della Sardegna, unica per per la sua spettacolare sabbia, costituita da chicchi di quarzo bianchi, verdi, gialli, rosa e neri ed un mare cristallino che assume colori tra il verde e l’azzurro intenso.
Conosciuta come “la spiaggia dei chicchi di riso” per via dei piccoli granelli di quarzo che la compongono, la spiaggia di Is Arutas è situata nel Comune di Cabras, poco lontano dalla città fenicio-punica di Tharros e nel territorio di Sinis.
La zona è molto frequentata dai surfisti, come quasi tutte le spiagge dell’area Sinis-Montiferru, e dagli appassionati di sub, grazie al fondale piuttosto ricco e vivo, profondo fin dalla riva, e all’acqua cristallina che assume i colori tra il verde intenso e l’azzurro. Camminare sui sassolini di quarzo produce una sensazione piacevolmente rinfrescante, dato che essi non si riscaldano nemmeno nelle ore di maggior calore.
L’origine della spiaggia non è ancora chiara ma si suppone che il basamento di granito che si trova sul fondale marino a largo di Is Arutas e che affiora nell’isola di Mal di Ventre sia stato elaborato a lungo dal moto ondoso, tanto che di esso, completamente digregato dall’azione del mare, sia rimasto solo il quarzo, mentre gli altri minerali che lo componevano (feldspati, miche ecc.) sono stati completamente distrutti in quanto più fragili del quarzo che è più resistente.
Le spiagge come quella di Is Aruttas vengono dette “mature” in quanto vi è, evidentemente, una lunga elaborazione del moto ondoso e quindi una “maturazione” dei granuli.
Se si pensa che esistono solo una cinquantina di spiagge fossili contro i milioni di spiagge che costeggiano le coste di tutto il mondo, vale davvero la pena di inserire una giornata alla spiaggia di quarzo in un tour della Sardegna Occidentale.
Per arrivare in spiaggia si percorrono piccoli ponticelli in legno con le doghe distanziate tra loro, in modo da far cadere in spiaggia la sabbia eventualmente attaccata al corpo, sono banditi gli zaini e le calzature chiuse come le scarpe da ginnastica e i mocassini. Sarebbe meglio camminare scalzi o, al massimo, con le ciabattine infradito in modo da preservare Is Arutas per farne un santuario simbolo dell’intera penisola del Sinis, ad ogni costo.
Un’ordinanza, invece, punisce i furti di sabbia al quarzo con un’ammenda sino ai 495 euro e segnalazione alla Magistratura.
Fonte: meteoweb.eu
Il lago Titicaca
Il nome Titicaca ha origini nel termine Intikjarka.
Inti significa Sole, Kjarka invece, vuol dire masso rupestre. Sarebbe corretto parlare di due laghi uniti, visto che questi due bacini sono uniti dallo stretto di Taquina.
A nord possiamo ammirare il lago Mayor, il quale ospita le isole del sole e della luna. A sud, abbiamo il Lago Minor, con tutti i suoi variopinti isolotti.
Nonostante l’acqua dolce, purissima e limpida, possiamo notare sulle rocce circostanti una striscia bianca formata da depositi calcarei e alghe. Questo ha fatto supporre che anticamente appartenesse al mare.
Gli Inca ritenevano che il lago Titicaca fosse un luogo sacro,
A soli 20 chilometri dalla riva meridionale, abbiamo Tiahuanaco. Fu un centro religioso degli Inca e le leggende narrano che questa città venne edificata in una notte soltanto dai mitologici giganti.
A Tiahuanaco fiorì l’architettura, l’arte, la ceramica, le sculture, i metalli preziosi. Qua vennero forgiati i metalli.
Si ritiene che la cultura della città fosse tra le più importanti per il popolo Andino. Sapevano già ottenere il bronzo dal rame. Secondo gli archeologi accademici fu fondata tale civiltà nel 1.500 a.C. Secondo altri studiosi, come Arthur Posnansky, la civiltà fu fondata nel 15.000 a.C. Ribattezzata come la città di Pietra, venne per qualche motivo sconosciuto abbandonata, anche se si suppone che la causa fu la potente alluvione
La prima cosa che fa supporre la possibilità che la mitica Atlantide sia sommersa proprio dal lato Titicaca, è l’età della civiltà. Combacia infatti con le notizie storiche tramandate dai greci. Anche le dimensioni del lago Titicaca potrebbero rispondere al quesito di perché Atlantide veniva considerato un continente e non una città.
A far riflettere è la lontananza di 20 km tra Tiahuanaco, secondo gli studiosi era una città portuale, dal lago Titicaca, che grazie alle alghe e i cavallucci marini ci indica la sua vecchia appartenenza al mare. Si suppone che a causa di sconvolgimenti terrificanti o il livello del lago si è abbassato i la terra d’intorno si è sollevata. Secondo i pescatori del lago Titicaca, nei periodi di siccità era possibile toccare i tetti dei palazzi sommersi sotto il lago.
Così nel 1967 una spedizione subacquea confermò la presenza di muraglie poderose sotto la melma. Sono state ritrovate strade lastricate, pavimentazioni, vasi di ceramica, strutture, tempio, è stato recuperato un idolo d’oro di 35 KG (600.000€).
Il gruppo di spedizionieri ha confermato un racconto orale, secondo il quale esisteva una grotta dove venivano fatti sacrifici umani, in particolare di bambini.
È stata trovata una grotta con ossa di fanciulli.
Sono stati ritrovati resti di una città costruita in pietre gigantesche, dal peso di 200-300 tonnellate, le cui cave più vicine erano di 60 km.
Inti significa Sole, Kjarka invece, vuol dire masso rupestre. Sarebbe corretto parlare di due laghi uniti, visto che questi due bacini sono uniti dallo stretto di Taquina.
A nord possiamo ammirare il lago Mayor, il quale ospita le isole del sole e della luna. A sud, abbiamo il Lago Minor, con tutti i suoi variopinti isolotti.
Nonostante l’acqua dolce, purissima e limpida, possiamo notare sulle rocce circostanti una striscia bianca formata da depositi calcarei e alghe. Questo ha fatto supporre che anticamente appartenesse al mare.
Gli Inca ritenevano che il lago Titicaca fosse un luogo sacro,
A soli 20 chilometri dalla riva meridionale, abbiamo Tiahuanaco. Fu un centro religioso degli Inca e le leggende narrano che questa città venne edificata in una notte soltanto dai mitologici giganti.
A Tiahuanaco fiorì l’architettura, l’arte, la ceramica, le sculture, i metalli preziosi. Qua vennero forgiati i metalli.
Si ritiene che la cultura della città fosse tra le più importanti per il popolo Andino. Sapevano già ottenere il bronzo dal rame. Secondo gli archeologi accademici fu fondata tale civiltà nel 1.500 a.C. Secondo altri studiosi, come Arthur Posnansky, la civiltà fu fondata nel 15.000 a.C. Ribattezzata come la città di Pietra, venne per qualche motivo sconosciuto abbandonata, anche se si suppone che la causa fu la potente alluvione
La prima cosa che fa supporre la possibilità che la mitica Atlantide sia sommersa proprio dal lato Titicaca, è l’età della civiltà. Combacia infatti con le notizie storiche tramandate dai greci. Anche le dimensioni del lago Titicaca potrebbero rispondere al quesito di perché Atlantide veniva considerato un continente e non una città.
A far riflettere è la lontananza di 20 km tra Tiahuanaco, secondo gli studiosi era una città portuale, dal lago Titicaca, che grazie alle alghe e i cavallucci marini ci indica la sua vecchia appartenenza al mare. Si suppone che a causa di sconvolgimenti terrificanti o il livello del lago si è abbassato i la terra d’intorno si è sollevata. Secondo i pescatori del lago Titicaca, nei periodi di siccità era possibile toccare i tetti dei palazzi sommersi sotto il lago.
Così nel 1967 una spedizione subacquea confermò la presenza di muraglie poderose sotto la melma. Sono state ritrovate strade lastricate, pavimentazioni, vasi di ceramica, strutture, tempio, è stato recuperato un idolo d’oro di 35 KG (600.000€).
Il gruppo di spedizionieri ha confermato un racconto orale, secondo il quale esisteva una grotta dove venivano fatti sacrifici umani, in particolare di bambini.
È stata trovata una grotta con ossa di fanciulli.
Sono stati ritrovati resti di una città costruita in pietre gigantesche, dal peso di 200-300 tonnellate, le cui cave più vicine erano di 60 km.
Lo spettacolare abbraccio tra il Rio Negro e il Rio delle Amazzoni
Nero e blu.
Un accostamento di colori che di solito viene associato a qualcosa di umano, all'inquinamento, allo sversamento di petrolio in mare. Ma questa volta è stata la Natura a usare queste tonalità dalla sua immensa tavolozza. Una lunga linea dove si incontrano il blu del Rio delle Amazzoni e il nero/marrone del RioNegro.
Uno spettacolo naturale che si può ammirare a circa 10 chilometri dalla città di Manaus nel nord del Brasile.
Il fiume Rio Negro nero, che scorre attraverso la città, incontra la sabbia colorata del Rio delle Amazzoni, ma non si unisce subito a lei.
Le due acque scorrono invece fianco a fianco per circa 6 km, un fenomeno noto come “incontro delle acque” o “Encontro das Águas” in portoghese.
Il Rio Negro è il più grande affluente del Rio delle Amazzoni e il più grande fiume del mondo caratterizzato dalle acque nere.
Il nome "Rio Negro" significa infatti "fiume nero".
Il colore deriva dalla presenza di materia vegetale in decomposizione, disciolta nelle acqua e trasportata dal Rio attraverso la foresta pluviale e le paludi.
A causa delle loro diverse componenti, entrambi i fiumi hanno acqua caratterizzata da diversa densità, velocità e temperatura.
Per questo difficilmente si mescolano.
Le più fredde, più dense e più veloci acque del Rio delle Amazzoni e le calde acque lente del Rio Negro formano un confine netto.
Una battaglia che si conclude 6 chilometri a valle, quando i vortici turbolenti guidati dal Rio delle Amazzoni mescolano i due corsi d'acqua.
Uno spettacolo che non si verifica solo a Manaus ma in altre zone dell'Amazzonia e in altre parti del pianeta, ma solo qui assume queste caratteristiche così evidenti.
Fonte: greenme.it
Palmira, la sposa del deserto
La città si trova in una oasi a 240 km a nord-est di Damasco sul fiume Eufrate.
È stato per lungo tempo un vitale centro carovaniero, tanto da essere soprannominata la Sposa del deserto, per i viaggiatori ed i mercanti che attraversavano il deserto siriaco per collegare l'Occidente (Roma e le principali città dell'impero) con l'Oriente (la Mesopotamia, la Persia, fino all'India e alla Cina), che ebbe un notevole sviluppo tra il I ed III secolo d.C.
Il nome greco della città, Palmyra (Παλμύρα), è la fedele traduzione dall'originale aramaico, Tadmor, che significa 'palma'. Comunque, anche se la fonte sulfurea che alimentava l'oasi di Palmira sembra esaurita, oggi Tadmor, con un sistema di irrigazione del terreno, riesce a mantenere viva una fiorente oasi che permette ai 45.000 abitanti di vivere non solo di turismo ma anche di agricoltura.
La città, nota col nome di Tadmor nel II millennio a.C., è menzionata per la prima volta in documenti provenienti dagli archivi assiri di Kanech, in Cappadocia, nel XIX secolo a.C., e poi è citata più volte negli archivi di Mari, nel XVIII secolo a.C. Poi viene citata ancora negli archivi assiri, nell'XI secolo a.C., come Tadmor del deserto.
A quel tempo era solo una città commerciale nella estesa rete che univa la Mesopotamia e la Siria settentrionale. Tadmor è citata anche nella Bibbia (Secondo libro delle Cronache 8.4) come una città del deserto fortificata da Salomone.
La città di Tamar è menzionata nel Primo libro dei Re (9.18), anch'essa fondata e fortificata da Salomone.
Dopo queste citazioni su Palmira cala il silenzio per circa un millennio, e solo nel I secolo a.C. la città viene citata col nuovo nome, che le è stato dato durante il regno dei Seleucidi (IV - I secolo a.C.)
Quando i Seleucidi presero il controllo della Siria nel 323 a.C. la città fu abbandonata a se stessa e divenne indipendente.
Palmira fiorì come città carovaniera durante il I secolo a.C., come ci testimonia lo storico giudeo Flavio Giuseppe, nel secolo successivo, sviluppando un proprio dialetto semitico e un proprio alfabeto.
Anche se la Siria era divenuta provincia romana nel 64 a.C., pare che Palmira abbia mantenuto una certa autonomia e la città era tanto ricca che, nel 41 a.C., Marco Antonio cercò di occuparla per saccheggiarla, ma fallì nel tentativo.
In seguito Palmira fu annessa ufficialmente alla provincia romana di Siria, verso il 19 d.C.
Poco dopo la morte del governatore (re dei re), sua moglie Zenobia prese il potere, in nome del figlio minorenne, Vaballato, col sogno e l'ambizione di creare un impero d'Oriente da affiancare all'impero di Roma.
All'inizio del 272, Aureliano riconquistò l'Egitto, poi la Bitinia e la Cappadocia, poi dopo aver avuto ragione della cavalleria pesante palmirena ad Antiochia, sconfisse l'esercito palmireno, comandato dal generale Zabdas e dalla stessa Zenobia ad Emesa.
Mentre Palmira era sotto assedio, la regina e il Consiglio cittadino pensarono di inviare un'ambasceria, guidata da Zenobia in persona, presso il re persiano Sapore I (ignorando che questi fosse deceduto in quei frangenti), con lo scopo di ricevere rinforzi e salvare così il Regno di Palmira.
Zenobia decise allora di salire sul più veloce dei suoi dromedari, assieme al figlioletto, e di tentare di raggiungere il regno dei Sassanidi ma, a sessanta miglia da Palmira, venne raggiunta e catturata dall'Imperatore poco prima che attraversasse l'Eufrate. Con la loro regina catturata e gran parte dell'esercito annientato e stremato, il generale Zabdas consegnò la città ai romani sul finire del 272; il Regno di Palmira era stato sottomesso, senza che l'oasi e la città avessero subito alcuna violenza.
Le province orientali riconobbero di nuovo l'autorità di Aureliano. Successivamente la regina ed i suoi fedelissimi raggiunsero in catene Emesa per essere processati.
La regina, timorosa per la sua vita (l'esercito romano aveva infatti esplicitamente chiesto che fosse giustiziata), fece ricadere la colpa della sua ribellione ai suoi consiglieri, che con i loro consigli avevano influenzato le sue decisioni, essendo ella una femmina (sesso debole) e dunque facilmente influenzabile.
Ne fece le spese il filosofo Longino, primo consigliere di Zenobia, reo di aver scritto la lettera con cui la regina aveva rifiutato la resa, e punito con la morte.
Assieme al filosofo Cassio Longino, molti altri funzionari di Zenobia come il sofista Callinico e lo stesso generale Zabdas furono condannati a morte, ma la stessa ebbe invece salva la vita. Zenobia e Vaballato, i due sconfitti, furono inviati a Roma ma, secondo quanto testimoniato dallo storico bizantino Zosimo, il figlio morì durante il viaggio.
La regina, però, venne mostrata in ogni città che Aureliano raggiunse per tornare in Occidente.
Palmira, che non aveva sofferto danni in occasione della resa, l'anno dopo (273), a seguito di una ribellione, fu saccheggiata, i suoi tesori furono portati via e le mura furono abbattute; la città, abbandonata, tornò a essere un piccolo villaggio e divenne una base militare per le legioni romane.
Benché la storia di Palmira fosse nota, il sito e l'oasi vennero visitate solo nel 1751 da una comitiva di disegnatori (tra cui l'italiano, Giovanni Battista Borra), capeggiati da due inglesi, Robert Wood e James Dawkins, che nel 1753, pubblicarono in inglese e francese Les Ruines de Palmyra, autrement dite Tadmor au dèsert, che crearono enorme interesse per il sito e l'oasi.
Solo però verso la fine del XIX secolo vennero iniziate ricerche di carattere scientifico, e si cominciarono a copiare e a decifrare le iscrizioni; infine, dopo l'instaurazione del mandato francese sulla Siria, vennero iniziati gli scavi per portare alla luce i vari reperti. Scavi che sono continuati negli anni, ma interrotti dalla guerra nel 2015.
È stato per lungo tempo un vitale centro carovaniero, tanto da essere soprannominata la Sposa del deserto, per i viaggiatori ed i mercanti che attraversavano il deserto siriaco per collegare l'Occidente (Roma e le principali città dell'impero) con l'Oriente (la Mesopotamia, la Persia, fino all'India e alla Cina), che ebbe un notevole sviluppo tra il I ed III secolo d.C.
Il nome greco della città, Palmyra (Παλμύρα), è la fedele traduzione dall'originale aramaico, Tadmor, che significa 'palma'. Comunque, anche se la fonte sulfurea che alimentava l'oasi di Palmira sembra esaurita, oggi Tadmor, con un sistema di irrigazione del terreno, riesce a mantenere viva una fiorente oasi che permette ai 45.000 abitanti di vivere non solo di turismo ma anche di agricoltura.
La città, nota col nome di Tadmor nel II millennio a.C., è menzionata per la prima volta in documenti provenienti dagli archivi assiri di Kanech, in Cappadocia, nel XIX secolo a.C., e poi è citata più volte negli archivi di Mari, nel XVIII secolo a.C. Poi viene citata ancora negli archivi assiri, nell'XI secolo a.C., come Tadmor del deserto.
A quel tempo era solo una città commerciale nella estesa rete che univa la Mesopotamia e la Siria settentrionale. Tadmor è citata anche nella Bibbia (Secondo libro delle Cronache 8.4) come una città del deserto fortificata da Salomone.
La città di Tamar è menzionata nel Primo libro dei Re (9.18), anch'essa fondata e fortificata da Salomone.
Dopo queste citazioni su Palmira cala il silenzio per circa un millennio, e solo nel I secolo a.C. la città viene citata col nuovo nome, che le è stato dato durante il regno dei Seleucidi (IV - I secolo a.C.)
Quando i Seleucidi presero il controllo della Siria nel 323 a.C. la città fu abbandonata a se stessa e divenne indipendente.
Palmira fiorì come città carovaniera durante il I secolo a.C., come ci testimonia lo storico giudeo Flavio Giuseppe, nel secolo successivo, sviluppando un proprio dialetto semitico e un proprio alfabeto.
Anche se la Siria era divenuta provincia romana nel 64 a.C., pare che Palmira abbia mantenuto una certa autonomia e la città era tanto ricca che, nel 41 a.C., Marco Antonio cercò di occuparla per saccheggiarla, ma fallì nel tentativo.
In seguito Palmira fu annessa ufficialmente alla provincia romana di Siria, verso il 19 d.C.
Poco dopo la morte del governatore (re dei re), sua moglie Zenobia prese il potere, in nome del figlio minorenne, Vaballato, col sogno e l'ambizione di creare un impero d'Oriente da affiancare all'impero di Roma.
All'inizio del 272, Aureliano riconquistò l'Egitto, poi la Bitinia e la Cappadocia, poi dopo aver avuto ragione della cavalleria pesante palmirena ad Antiochia, sconfisse l'esercito palmireno, comandato dal generale Zabdas e dalla stessa Zenobia ad Emesa.
Mentre Palmira era sotto assedio, la regina e il Consiglio cittadino pensarono di inviare un'ambasceria, guidata da Zenobia in persona, presso il re persiano Sapore I (ignorando che questi fosse deceduto in quei frangenti), con lo scopo di ricevere rinforzi e salvare così il Regno di Palmira.
Zenobia decise allora di salire sul più veloce dei suoi dromedari, assieme al figlioletto, e di tentare di raggiungere il regno dei Sassanidi ma, a sessanta miglia da Palmira, venne raggiunta e catturata dall'Imperatore poco prima che attraversasse l'Eufrate. Con la loro regina catturata e gran parte dell'esercito annientato e stremato, il generale Zabdas consegnò la città ai romani sul finire del 272; il Regno di Palmira era stato sottomesso, senza che l'oasi e la città avessero subito alcuna violenza.
Le province orientali riconobbero di nuovo l'autorità di Aureliano. Successivamente la regina ed i suoi fedelissimi raggiunsero in catene Emesa per essere processati.
La regina, timorosa per la sua vita (l'esercito romano aveva infatti esplicitamente chiesto che fosse giustiziata), fece ricadere la colpa della sua ribellione ai suoi consiglieri, che con i loro consigli avevano influenzato le sue decisioni, essendo ella una femmina (sesso debole) e dunque facilmente influenzabile.
Ne fece le spese il filosofo Longino, primo consigliere di Zenobia, reo di aver scritto la lettera con cui la regina aveva rifiutato la resa, e punito con la morte.
Assieme al filosofo Cassio Longino, molti altri funzionari di Zenobia come il sofista Callinico e lo stesso generale Zabdas furono condannati a morte, ma la stessa ebbe invece salva la vita. Zenobia e Vaballato, i due sconfitti, furono inviati a Roma ma, secondo quanto testimoniato dallo storico bizantino Zosimo, il figlio morì durante il viaggio.
La regina, però, venne mostrata in ogni città che Aureliano raggiunse per tornare in Occidente.
Palmira, che non aveva sofferto danni in occasione della resa, l'anno dopo (273), a seguito di una ribellione, fu saccheggiata, i suoi tesori furono portati via e le mura furono abbattute; la città, abbandonata, tornò a essere un piccolo villaggio e divenne una base militare per le legioni romane.
Benché la storia di Palmira fosse nota, il sito e l'oasi vennero visitate solo nel 1751 da una comitiva di disegnatori (tra cui l'italiano, Giovanni Battista Borra), capeggiati da due inglesi, Robert Wood e James Dawkins, che nel 1753, pubblicarono in inglese e francese Les Ruines de Palmyra, autrement dite Tadmor au dèsert, che crearono enorme interesse per il sito e l'oasi.
Solo però verso la fine del XIX secolo vennero iniziate ricerche di carattere scientifico, e si cominciarono a copiare e a decifrare le iscrizioni; infine, dopo l'instaurazione del mandato francese sulla Siria, vennero iniziati gli scavi per portare alla luce i vari reperti. Scavi che sono continuati negli anni, ma interrotti dalla guerra nel 2015.
I segreti matematici della Cappella Sistina
I matematici la chiamano sezione aurea. O, più poeticamente, proporzione divina.
È una grandezza che rappresenta il rapporto tra due lunghezze diverse, tali che la lunghezza più grande divisa per quella più piccola sia uguale alla lunghezza totale divisa per la lunghezza più grande.
Stando ai risultati di una ricerca appena pubblicati su Clinical Anatomy, anche il grande Michelangelo Buonarroti ne era a conoscenza.
Gli autori dello studio, della Universidade Federal da Saude de Porto Alegre e altri atenei brasiliani, coordinati da Deivis De Campos, hanno infatti mostrato che “Michelangelo compose la Creazione di Adamo servendosi del rapporto aureo”. È questo, secondo gli autori, il segreto della portentosa armonia tra le parti che rende così bilanciato ed equilibrato l’affresco.
In realtà, la sezione aurea era già conosciuta e utilizzata da tempo nel campo dell’arte e dell’architettura: la piramide di Cheope, per esempio, ha un rapporto tra il semilato e l’altezza pari proprio a 1,6229, molto vicino al valore della sezione aurea (che vale approssimativamente 1,618), anche se non è chiaro se i suoi costruttori ne fossero consapevoli.
Per tornare a Michelangelo, gli autori della ricerca suppongono che “la bellezza e l’armonia riconosciute in tutti i lavori dell’artista potrebbero non essere basate solo nella sua conoscenza delle proporzioni anatomiche umane, ma anche al fatto che Michelangelo sapesse che le strutture anatomiche conformi alla sezione aurea hanno più efficienza strutturale”.
Per scoprirlo, gli scienziati hanno usato un software che ha analizzato l’affresco, misurando le distanze tra gli elementi e calcolando le proporzioni relative tra i particolari anatomici.
Uno dei punti presi in esame, per esempio, è a metà tra il dito di Dio e quello di Adamo, che divide idealmente l’affresco in due parti il cui rapporto è pari alla sezione aurea.
Ovvero, in altre parole: Dio sta ad Adamo come Dio più Adamo stanno a Dio.
Allo stesso modo, gli autori hanno scoperto che l’intera creazione di Adamo divide la volta della Cappella Sistina in due parti che le cui proporzioni sono pari al rapporto aureo.
Un po’ troppo, forse, per una semplice coincidenza.
Fonte: http://www.wired.it
La tribù dell'Amazzonia che vive senza tempo
Per quanto la suddivisione e l’organizzazione del tempo possano variare da una cultura all’altra – e basarsi, per esempio, su diversi calendari – la relazione tra tempo e spazio è, secondo gli antropologi, un fatto pressoché costante e trasversale.
Frasi come “si avvicina l’estate”, o “non vedo l’ora che arrivi il tuo matrimonio”, che legano la comparsa di un evento a un’idea di movimento e di collocazione spaziale, sono pressoché universali. Ma c’è qualcuno che fa eccezione.
Gli Amondawa, una popolazione che vive in una remota foresta dello stato brasiliano di Rondônia, venuta per la prima volta a contatto con l’esterno nel 1986, sembra non possedere una nozione astratta di tempo.
Come molte tribù amazzoniche, gli Amondawa ricorrono, per le loro attività quotidiane (caccia, pesca e piccola agricoltura locale) a un numero molto ristretto di vocaboli che comprende appena 4 numeri.
Orologi e calendari sono strumenti sconosciuti, e la giornata è scandita dalla posizione del Sole nel cielo.
Non ci sono termini che indichino mesi o anni e i periodi di tempo più lunghi sono indicati come suddivisioni delle stagioni secche o piovose.
Nessuno celebra i compleanni: la transizione da un momento all’altro della vita è indicata da un cambio di nome e l’età corrisponde a un diverso status sociale all’interno della comunità. In questo contesto, il concetto di tempo come entità astratta non esiste.
Invitati a tradurre la parola portoghese tempo, gli Amondawa rispondono kuara, Sole.
In uno studio sul sistema linguistico degli Amondawa pubblicato nel 2011, ricercatori delle Università di Portsmouth (Gran Bretagna) e Rondônia (Brasile) hanno provato a insegnare a questa popolazione espressioni come “è in arrivo la stagione secca”, che applichino il concetto di moto a un evento temporale.
Non ci sono riusciti, e non per un problema cognitivo: gli Amondawa utilizzano infatti senza problemi questo tipo di costrutto in Portoghese, la loro seconda lingua. E applicano correttamente il concetto di movimento al moto apparente del Sole. Ma non riescono a mappare un evento nel tempo: il concetto che un fatto sia passato da tempo, o debba ancora arrivare, viene semplicemente rifiutato.
L’ipotesi dei ricercatori è che la mancanza di calendari e un sistema numerico così ristretto abbiano determinato l’assenza di un concetto astratto di tempo, tale da poter abbracciare e incorniciare altri eventi.
Per gli Amondawa il tempo esiste in relazione all’avvicendarsi degli eventi naturali, ma non di per se stesso: non è pertanto suddivisibile e afferrabile con un appunto sull’agenda, né immaginabile su una ipotetica linea disposta nello spazio.
Il tempo si fonde con gli eventi stessi e non è, come per noi, una sovracategoria mentale, da applicare a ciò che ci succede.
Ripercorrendo la storia della civiltà umana, si nota che le piccole società rurali, organizzate intorno agli incontri faccia a faccia, siano sempre riuscite a funzionare senza l’ausilio di calendari e orologi. Un’invenzione culturale che la società moderna ha ereditato dagli antichi babilonesi, e a cui ha applicato una serie di regole sempre più rigide.
Delle quali, ormai, non riusciamo più a fare a meno.
Fonte: focus.it
Il peperoncino Naga Morich
Il Naga Morich conosciuta anche come la "Dorset Naga Pepper" è un peperoncino originaria del Nord Est dell'India , e Sylhet regione del Bangladesh .
Conosciuta come la sorella peperoncino al Bhut Jolokia , o Ghost Chilli. Il Naga Morich ha molte somiglianze con la sorella, ma è geneticamente diverso. E 'anche uno dei più caldi conosciuti peperoncino. E' scientificamente certificato da una scala che misura la piccantezza del peperoncino, la cosiddetta Scala di Scoville, che assegna al Naga Morich la palma di peperoncino più piccante del mondo.
Alle quattro varietà di peperoncino acquistate allo stand e in ordine crescente, la scala assegna al peperoncino di Cayenna (i due peperoncini stretti e lunghi nella foto sopra) dalle 10.000 alle 50.000 unità di Scoville (SHU), al Fatalii (quello giallo) 250.000-300.000 SHU, all’Habanero Chocolate (quello di colore marrone) 200.000-400.000 SHU e al Naga Morich, udite udite, dalle 855.000 alle 1.041.427 unità di Scoville, valore quest’ultimo che lo ha fatto entrare nel Guinness dei Primati come il più piccante al mondo. Come paragone basta ricordare che lo spray al peperoncino usato per l’autodifesa oscilla tra 1.150.000 e 2.000.000 di SHU…