lunedì 18 maggio 2015

Le piramidi nubiane in Sudan: patrimonio dell’umanità semi-abbandonato


Un deserto del Sudan orientale custodisce un meraviglioso patrimonio archeologico, purtroppo quasi abbandonato.
 In quella che una volta era l’antica Nubia, lungo le rive del Nilo, più di 200 piramidi testimoniano il grado di civiltà dei regni Kush, che prosperarono tra il 2600 a.C. e il 300 d.C.
 I regni vissero diverse fasi, e tre furono le sue capitali: Kerma, Napata e Meroë. 
Fortemente influenzati dal vicino Egitto, sia culturalmente sia politicamente, i Kush arrivarono a conquistarlo, unificandolo al loro regno, quando la capitale era Napata.
 Lo governarono, dando vita alla XXV dinastia, i faraoni neri, fino al 658 a.C., quando furono invasi dagli Assiri. 

La Nubia tornò ad essere un regno indipendente, che portò la sua capitale a Meroë, dove le piramidi sono più numerose.


Molto differenti da quelle egiziane, le piramidi nubiane sono più piccole e dalle proporzioni diverse, con struttura a gradoni e una forte inclinazione. 
Furono costruite però per lo stesso scopo: erano le tombe di re e regine, mummificati e sepolti con i loro gioielli e molti altri oggetti. Le tombe furono saccheggiate già in tempi antichi, ma quello che è stato ritrovato testimonia che i Kush commerciavano sia con l’Egitto sia con il mondo ellenistico.


Il sito archeologico di Meroë è stato dichiarato nel 2011 patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, e rappresenta una delle maggiori attrazioni turistiche del Sudan, ma il paese, in seguito alla guerra del Darfur e alle conseguenti sanzioni economiche di alcuni paesi occidentali, non ha quasi più alcun afflusso di visitatori. 
Secondo alcuni rapporti, attualmente il Sudan accoglie meno di 15.000 turisti ogni anno, rispetto ai 150.000 del periodo precedente al conflitto.










Fonte: vanillamagazine.it

Il Diamante Hope: la gemma maledetta più famosa della storia


Spesso descritto come il più famoso diamante nel mondo, la bellezza del diamante Hope (o anche Blu di Francia) è paragonabile solo alla sua fama di essere portatore di morte e sfortuna. 

Nel corso della sua lunga storia molti dei possessori sono caduti vittima della “maledizione” che segue il diamante, morendo per mano altrui, di malattia o suicidi, non contando tutti quelli che il diamante ha rovinato economicamente nel corso dei secoli. 
Anche se in molti ritengono si tratti solo di superstizione, il numero di persone che hanno conosciuto la loro fine subito dopo esser entrati in possesso del diamante lascia spazio a pochi dubbi.


Il diamante si formò circa 1,1 miliardi di anni fa nelle profondità della terra. 
Secondo una leggenda, la sua prima vittima fu un sacerdote indù che nel 1515 lo rubò dal suo tempio, finendo catturato e torturato, fino alla morte. 
Un’altra leggenda vuole che il mercante francese di nome Jean-Baptiste Tavernier lo disincastonò dall’occhio della statua Rama-Sitra, la quale maledisse la pietra, e che lo vendette per una somma di denaro sufficiente per l’acquisto di una tenuta in cui trascorrere la pensione.
 I piani del diamante erano ben diversi, e il figlio di Tavernier si giocò tutta la fortuna di famiglia, con il padre che morì in Russia tentando di tornare sulla via dell’India.


Luigi XIV e Luigi XV furono i successivi proprietari della pietra e, sebbene morirono in età normale per l’epoca (74 e 67 anni), attraversarono atroci sofferenze, l’uno per una cancrena al piede e l’altro per vaiolo, che portò il suo corpo a decomporsi mentre questi era ancora in vita.

 Il diamante venne donato alla Principessa Maria Luisa, che lo indossò regolarmente prima della morte, che avvenne in modo violento durante le stragi del 1792, quando fu violentata e picchiata a morte per le strade.


Luigi XVI e sua moglie Maria Antonietta furono i successivi proprietari, ed entrambi furono ghigliottinati durante la la Rivoluzione Francese nel 1793.


Anche se non fu mai provato, si dice che Caterina la Grande di Russia entrò in possesso della pietra appena prima di morire per apoplessia nel 1796. 

 Il gioiello trovò la sua strada per la Gran Bretagna, dove nel 1830 Henry Thomas Hope, un lord inglese, diede il nome alla pietra e la fece tagliare all’attuale dimensione di 45,5 carati. 
Egli pagò il diamante Hope 30.000 pound, una cifra gigantesca per l’epoca, ma finì per separarsi dalla moglie, e quest’ultima cadde in disgrazia.
 Affrettatosi a liberarsi della pietra, la vendette al principe russo Kanitowskij, il quale fu trucidato dai rivoluzionari russi e uccise, prima di morire, la ballerina cui aveva donato il diamante. 

Simon Matharides fu il mercante greco che acquistò la pietra sulla carta, e finì in un burrone addirittura prima di vedersela consegnata fra le mani. 

Il Sultano Abdul Hamid acquistò il Blu di Francia per $ 400,000, ma venne deposto dalla rivoluzione turca un anno dopo e impazzì, finendo i suoi giorni in miseria.


Nel 1910 Pierre Cartier, l’ultimo francese possessore del diamante, acquistò la pietra dal successore del sultano, e la vendette a Edward Beale McLean, il proprietario del Washington Post.
 La pietra si accanì contro la famiglia americana, che assistette alla morte della madre del proprietario, del figlio di dieci anni investito da un’auto, della figlia suicida e di due cameriere, finendo per far separare anche i coniugi.
 L’uomo divenne un alcolista e finì in miseria, mentre la moglie, che volle conservare il gioiello stregata dalla sua bellezza, morì di polmonite a 60 anni.


L’ultimo proprietario privato che fu possessore del gioiello fu Harry Winston, che donò la pietra allo Smithsonian nel 1958, dove è a tutt’oggi custodita.


In totale, le morti connesse al diamante sono circa 20, se non si considerano altri personaggi coinvolti in supposizioni e leggende, una cifra senz’altro degna di tutto rispetto per un serial killer da oltre un miliardo di anni. 

E’ davvero possibile che questo diamante sia stato maledetto dalla statua da cui fu rubato o si tratta soltanto di una leggenda? 

 Fonte: vanillamagazine.it

Sacro Cenote Blu: il “pozzo dei sacrifici” nel cuore della giungla dello Yucatan


Milioni di anni fa, tale penisola era coperta dall’oceano.
 Durante l’ultima era glaciale però, il livello delle acque si è abbassato e tutti i reefs e la normale vita marina si son trasformati in fossili.
 La pioggia, filtrando lentamente, ha scavato giganteschi sistemi sotterranei, caverne e tunnel.
 Le precipitazioni, poi, hanno trasportato minerali fino nel profondo della terra, formando stalattiti e stalagmiti che, con i millenni, si sono sviluppate in incredibili formazioni rocciose. 

La parola cenote deriva dal termine maya “D’zonol” che significa, nell’antica lingua, cavità sotterranea che contiene permanentemente acqua. 
I cenote erano considerati dai Maya come l’entrata di un mondo mitico e spirituale, oltre ad essere l’unica fonte di acqua dolce nel mezzo della giungla.


Essi possono avere qualsiasi forma e dimensione, si possono presentare come lagune o come un piccolo buco sulla terra. L’acqua che entra al loro interno si chiama “spring side” mentre quella uscente si chiama “sifon”. 

Le civiltà Maya precolombiane sacrificavano oggetti ed esseri umani all’interno del cenote, adibito come luogo di culto di Chaac, il dio Maya della pioggia e durante l’equinozio qui si tenevano numerose cerimonie religiose. 

Situato nel nord della penisola dello Yucatan, appena 10 minuti a nord del complesso archeologico Chichen Itza, dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità ed inserito tra le Sette meraviglie del Mondo, vi è un magnifico cenote; un “pozzo dei sacrifici” spettacolare, con un diametro di 60 metri, una profondità di 39 metri e un’altezza di 26,5 metri.


Conosciuto per la sua imponenza e grandiosità, caratteristiche che lo rendono il luogo ideale per la competizione di tuffi da grande altezze, il Cenote Ik Kil (Azul Sagrado o Sacro Cenote Blu), questo il suo nome, con le sue acque limpidissime, incontaminate ed i suoi giochi di luci ed ombre, regala scenari unici, soprattutto se osservato dall’alto.
 E’ circondato da piccole cascate in una lussureggiante giungla di alberi e piante esotiche, popolate da centinaia di uccelli selvatici (tucani, pappagalli, tordi ecc). 
Aperto al pubblico tutto l’anno, esso costituisce la più importante attrazione naturale del Parco eco-archeologico di Ik Kil ed è possibile tuffarsi nelle sue acque dolci, nuotando tra piccoli pesci gatto scuri ed effettuando immersioni nell’acqua fresca.
 L’élite di tuffatori da grandi altezze non vede l’ora di ritornare in questo incantevole paesaggio nel cuore della giungla dello Yucatán.




Fonte: meteoweb.eu