giovedì 19 novembre 2015
Il DNA perduto dei popoli delle Ande
Un gruppo di ricercatori ha sequenziato il DNA di un bambino sacrificato durante un rituale Inca circa 500 anni fa.
I risultati delle analisi dimostrerebbero che, prima dell'arrivo degli spagnoli in Sudamerica, le popolazioni del territorio delle Ande possedevano dei tratti genetici caratteristici, andati perduti in seguito alla colonizzazione.
Il team internazionale guidato dal genetista Antonio Salas, dell'Università di Santiago di Compostela (Spagna), ha preso in esame una mummia rinvenuta nel 1985 sull'Aconcagua, la montagna più alta della cordigliera della Ande.
Apparteneva a un giovanissimo individuo di 8 anni scelto come vittima sacrificale per il cosiddetto Capacocha, una pratica rituale che scandiva gli avvenimenti cruciali per il popolo Inca.
Attraverso le moderne tecniche di biologia molecore, gli scienziati hanno prelevato tessuti di polmone riuscendo a isolare e sequenziale l'intero DNA contenuto nei mitocondri, gli organelli cellulari addetti alla produzione di energia.
Alcune sequenze caratteristiche identificavano una popolazione genetica denominata c1b, originatasi in Mesoamerica e Sudamerica circa 18mila anni fa; tuttavia la contemporanea presenza di altri frammenti atipici ha suggerito che il bambino appartenesse a un sottogruppo finora sconosciuto, ribattezzato c1bi.
Per avvalorare l'ipotesi, Salas e colleghi sono andati a caccia di questi codici rari in un ampio database genetico, scovando solo quattro corrispondenze: tre soggetti moderni provenienti da Perù e Bolivia e un individuo della civiltà preincaica degli Huari, che ha prosperato sulle Ande tra il 500 e il 1000 d. C.
L'affinità tra la mummia dell'Aconcagua e il campione Huari fa supporre che la variabile c1bi fosse un tempo molto comune tra le popolazioni andine, ma che sia stata quasi completamente cancellata dalla colonizzazione europea.
La causa è da ricercare verosimilmente nelle malattie importate dai conquistatori spagnoli: «Fino al 90% degli indigeni sudamericani morì molto rapidamente», spiega Salas, «determinando la perdita di una grossa fetta di diversità genetica».
Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports.
Fonte: focus.it
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