mercoledì 30 settembre 2015

Poesia di Jorge Luis Borges










Ci son momenti in cui si deve vivere la propria vita per capire se stessi.
Perché si cambia, il nostro mondo cambia, cambiano le cose senza che te ne accorgi, un mattino è come se ti svegliassi dopo i cento anni della Bella Addormentata.
E ti chiedi cos'è successo a te, nel frattempo: se tutto è cambiato così, dov'eri tu che non te ne accorgevi.
Chiedi, ma nessuno risponde.
Ci sono momenti in cui si deve vivere la vita attraverso la vita degli altri.
Altri che soffrono, altri che ti hanno aspettata a lungo, altri che dopo anni di silenzio finalmente parlano.
Altri che hanno bisogno di un compagno nell'attesa delle loro attese.
E altri per i quali il tempo che passa nell'aspettare è già un dono. Non sai bene se la vita è viaggio, se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno dopo giorno e non te ne accorgi se non guardando all'indietro.
Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami.

Jorge Luis Borges

La chiocciola più piccola del mondo


Nella cruna di un ago ce ne starebbero una decina, l'una accanto all'altra: la lumaca di terra più piccola del mondo è stata scoperta in un campione di suolo raccolto nella provincia di Guangxi, Cina meridionale.
 La chiocciola, il cui guscio raggiunge appena gli 0,86 mm di altezza, è stata chiamata dagli scopritori, un team di ricercatori giapponesi e ungheresi, Angustopila dominikae. 
Tra le sette specie di micro-chiocciole rinvenute nel terreno, questa è la più minuta: milioni di volte più piccola, in volume, del suo parente più ingombrante, la chiocciola africana gigante (30 cm di lunghezza). 
 Può darsi che le piccole dimensioni proteggano l'animale dagli artropodi delle latitudini tropicali: per proteggersi, altre chiocciole hanno evoluto sistemi di chiusura del guscio, questa invece preferisce il "basso profilo". 
Probabilmente rimane nascosta nelle minuscole fenditure della pietra arenaria, nutrendosi delle alghe associate all'umidità. 
 Il formato "tascabile" non sarebbe dovuto però a un adattamento all'ambiente favorito dall'evoluzione: i comuni antenati delle sette piccole specie di lumache, vissuti attorno a 60 milioni di anni fa, dovevano già essere altrettanto minuti.
 Difficile che esista, in natura, una chiocciola più piccola dell'Angustopila: le dimensioni di organi e cellule sono già ridotte al minimo. 

Fonte: focus.it

Il monastero Phuktal



Il monastero Phuktal o Phuktal Gompa è uno dei monasteri più isolati nella regione sud-orientale dello Zanskar, nel distretto di Ladakh di Jammu e Kashmir, nel nord dell’India. Il monastero è una costruzione unica di fango e legno costruita all’ingresso di una grotta naturale sulle rive di una gola laterale di un importante affluente del fiume Lungnak (Lingti – Tsarap).
Da lontano il monastero sembra quasi che sia un nido d’ape gigante. Phuktal Gompa fu fondato nei primi anni del 12° secolo da Gangsem Sherap Sampo, un discepolo di Gelug Tsongkhapa. Anche se il monastero fu costruito nel 12° secolo, il luogo era praticamente sconosciuto sino a che l’esploratore ungherese Alexander Cosmo de Koros non lo visitò, nel 1826-1827.



La progettazione e la posizione isolata ha un significato spirituale, perché gli antichi monaci che viaggiavano cercavano riparo e meditazione nelle grotte della zona.
Il monastero dispone di quattro sale di preghiera, una biblioteca, una serie di strutture dedicate alla didattica, una cucina e camere e alloggi per i circa 70 monaci che vi risiedono. Il soffitto è decorato con affreschi a soffitto e decorano la cappella popolata dai turisti. Il Phuktal Gompa è uno dei pochi monasteri buddisti del Ladakh che può essere raggiunto solo a piedi, trovandosi a circa 7 chilometri dalla città di Purne.

Struttura di Richat, l’Occhio del Sahara


Nel nord Africa situato a Ouadane nella Mauritania nel deserto del Sahara si trova la struttura circolare di Richat un fenomeno geologico che assomiglia a un vero e proprio “occhio” posizionato quasi al centro delle sabbie del Sahara, per questo motivo viene chiamato Occhio del Sahara o l’occhio d’Africa ed è visibile solo dallo spazio.
 Ci si potrebbe anche ritrovare in mezzo senza accorgersene.
 E’ una struttura circolare gigantesca di 50 chilometri di diametro e osservando dal cielo appare, posizionato in un mare dorato di sabbia, come un enorme occhio




Fu scoperta nel 1965 durante un volo spaziale americano e date le sue dimensioni e il suo particolare aspetto per molto tempo è stato un punto di riferimento degli astronauti.
 All’inizio si pensava fosse il cratere nato dall’impatto di un meteorite, ma questa teoria non riusciva a chiarire la sua forma la cui pendenza può raggiungere i 40 metri. 
Oggi si ritiene che la struttura possa essere il risultato dell’innalzamento geologico, venuto fuori dall’azione erosiva di acqua e vento. 
I tempi di erosione dei diversi tipi di roccia ha creato nei secoli vari anelli concentrici: le rocce che erano più resistenti ai processi di erosione hanno modellato le creste più alte che sono di colore blu e porpora, invece le rocce più fragili hanno creato le valli che sono di colore giallo.
 La parte nord della struttura è circondata da una parte scura che è un altopiano di roccia sedimentaria che si espande per circa 200 metri al di sopra delle vicine sabbie del deserto, raggiungendo così i 485 metri sul livello del mare nel bordo più esterno. 
La parte meridionale invece è occupato dalla sabbia.
 A nord ovest della struttura di Richat si vede il monte Kédia d’Idjil, la cima più alta della Mauritania e il principale elemento che lo compone e che gli conferisce un colore bluastro è la magnetite, che è un minerale ferroso con proprietà magnetiche, rendendo la montagna un grande magnete naturale, in grado di creare interferenze alle bussole nelle aree vicine. 

Si ritiene che si tratti di una cupola vulcanica che è precipitata su se stessa nel corso di milioni di anni e nel corso delle erosioni subite. Le varie ipotesi sulla sua origine non sono ancora state dimostrate e confermate quindi al momento rimane un rebus da risolvere. 

 Fonte: maiuri.net

India, gli antichi pozzi a gradini che stanno scomparendo


Da semplici barili per raccogliere l'acqua piovana alla costruzione di veri e propri acquedotti, nel corso dei secoli gli uomini si sono dovuti ingegnare per raccogliere e poter utilizzare una delle fonti più preziose del Pianeta: l'acqua. 

 Esempi affascinanti di come si possa unire alla funzionalità, un'estetica mozzafiato sono gli stepwell indiani, ovvero pozzi sotterranei a gradini, nascosti dal trambusto turistico delle città del paese asiatico. 
La maggior parte di questi pozzi si trova, infatti, in regioni dell'India nord occidentale come Gujarat e Rajasthan, luoghi che per metà dell'anno sono caldi e secchi, mentre per i rimanenti mesi hanno un clima monsonico, accompagnato da cicloni e tifoni.


I primi pozzi furono costruiti tra il secondo e il quarto secolo dopo Cristo, l'idea dalla quale partì la popolazione indiana fu quella di creare da un lato, una struttura che potesse mantenere costante il rifornimento di acqua nei lunghi mesi di siccità dall'altro, un luogo da utilizzare per altre attività.
 E' per questo che con il passare del tempo, i pozzi a gradini sono diventati capolavori architettonici per i turisti e luoghi di socializzazione per gli abitanti delle zone circostanti. Insomma una sorta di agorà in cui rifugiarsi per meditare o per pregare gli Dei protettori, per ristorarsi o abbeverare il proprio bestiame.










Con l'ammodernamento delle infrastrutture i pozzi sono stati abbandonati o addirittura distrutti. 
Ultimamente però a causa delle crisi idriche, alcuni di questi monumenti a cielo aperto sono tornati ad assolvere alla loro funzione originaria ma per la maggior parte, il rischio rimane quello che i pozzi siano l'ennesima vittima dell'industrializzazione.

 Dominella Trunfio

Omelette dietetiche



Gli ingredienti possono essere a piacimento

L'energia pulita

Ci sarebbe quindi il modo di usufruire di energia pulita che non inquina acqua, aria, cibo.
Salvare il nostro pianeta ci viene fornito dalla stessa Terra. Purtroppo questa è abitata dai (signori del petrolio e altri trafficoni) che hanno come unico scopo arricchirsi a discapito di vite umane e natura.
A noi non rimane altro che soccombere.



L'energia geotermica costituisce oggi meno dell'1% della produzione mondiale di energia. Tuttavia, uno studio condotto dal Massachusetts Institute of Technology afferma che la potenziale energia geotermica contenuta sul nostro pianeta si aggira attorno ai 12.600.000 ZJ e che con le attuali tecnologie sarebbe possibile utilizzarne "solo" 2000 ZJ.
Tuttavia, poiché il consumo mondiale di energia ammonta a un totale di 0,5 ZJ all'anno, con il solo geotermico, secondo lo studio del MIT, si potrebbe soddisfare il fabbisogno energico planetario con sola energia pulita per i prossimi 4000 anni rendendo quindi inutile qualsiasi altra fonte non rinnovabile attualmente utilizzata. Le sorgenti calde sono state utilizzate per la balneazione almeno fin dal Paleolitico.
Il centro termale più antico conosciuto è una piscina in pietra in Cina sulla montagna Lisan costruita durante la dinastia Qin nel III secolo a.C.



Nel primo secolo d.C., i Romani conquistarono Aquae Sulis, ora Bath, nel Somerset in Inghilterra e utilizzarono le sue sorgenti calde per alimentare i bagni pubblici e il riscaldamento a pavimento. I costi di ammissione per questi bagni rappresentano probabilmente il primo utilizzo commerciale dell'energia geotermica.
Il sistema più antico di riscaldamento geotermico per un quartiere è stato installato a Chaudes-Aigues, Francia ed è divenuto operativo nel XIV secolo. Nel 1892, il primo sistema di teleriscaldamento statunitense a Boise, Idaho fu alimentato direttamente da energia geotermica ed è stato copiato a Klamath Falls, Oregon nel 1900.
Un profondo pozzo geotermico è stato usato per riscaldare le serre in Boise nel 1926 e geyser sono stati utilizzati per riscaldare le serre in Islanda e in Toscana circa nello stesso periodo.
Charlie Lieb sviluppò il primo scambiatore di calore in fondo ad un pozzo nel 1930 per riscaldare la propria casa. Il vapore e l'acqua calda dal geyser iniziarono ad essere utilizzati per il riscaldamento domestico in Islanda a partire dal 1943.



Capacità elettrica geotermica mondiale. La linea rossa superiore è la capacità installata, la linea verde inferiore misura la produzione. Nel XX secolo, la domanda di energia elettrica ha portato a considerare la geotermia come fonte di generazione Il principe Piero Ginori Conti sperimentò il primo generatore geotermico il 4 luglio 1904, presso lo stesso campo di Larderello dove era iniziata l'estrazione degli acidi da geotermia. Questo esperimento portò all'accensione di quattro lampadine.
Più tardi, nel 1911, in quel posto il primo impianto geotermico commerciale del mondo è stato costruito. Fino al 1958 questo è stato il primo impianto di produzione industriale al mondo di energia elettrica geotermica, fino a quando la Nuova Zelanda ne costruì uno nel 1958. Nel 2012 essa ha prodotto circa 594 megawatt.
Lord Kelvin inventò la pompa di calore nel 1852 e Heinrich Zoelly brevettò, nel 1912, l'idea di usarla per estrarre calore dalla terra. Ma ciò non è stato realizzato fino alla fine del 1940 quando la pompa di calore geotermica è stata prodotta con successo.
La prima era probabilmente di 2,2 kW sistema di scambio diretto fatto in casa di Robert C. Webber, ma le fonti non concordano timeline esatta della sua invenzione. J. Donald Kroeker progettò la prima pompa di calore geotermica commerciale per riscaldare l'edificio del Commonwealth (Portland, Oregon).
Il professor Carl Nielsen, dell'Ohio State University, ha realizzato la prima versione ad anello aperto residenziale nella sua casa nel 1948.
La tecnologia è diventato popolare in Svezia, a seguito della crisi petrolifera del 1973, ed è cresciuta lentamente in tutto il mondo da allora. Lo sviluppo del tubo di polibutilene, avvenuto nel 1979, aumentò notevolmente la redditività della pompa di calore.
Nel 1960, la Pacific Gas and Electric mise in funzione la prima centrale geotermica elettrica di successo negli Stati Uniti, presso The Geysers in California. La turbina originale è durata per più di 30 anni e ha prodotto 11 MW di potenza netta.
Dal punto di vista della generazione di energia elettrica, la geotermia consente di trarre dalle forze naturali una grande quantità di energia rinnovabile e pulita. Queste centrali inoltre non comportano un danno all'ambiente, poiché considerate non inquinanti.
Un ulteriore vantaggio è il possibile riciclaggio degli scarti, favorendo il risparmio. La trivellazione è il costo maggiore; nel 2005 l'energia geotermica costava fra i 50 e i 150 euro per MWh, ma pare che tale costo sia sceso a 50-100 euro per MWh nel 2010 e si prevede che scenderà a 40-80 euro per MWh nel 2020.
Anche per quanto riguarda la generazione di energia termica la geotermia (a bassa entalpia) presenta numerosi vantaggi: economia, ambiente, sicurezza, disponibilità e architettura. La geotermia è la fortuna energetica dell'Islanda, dove l'85% delle case è riscaldato con questa fonte energetica.
La grande isola del nord Atlantico basa l'intera sua esistenza sul naturale equilibrio tra la presenza di acqua calda in profondità e l'atmosfera esterna sotto zero.

martedì 29 settembre 2015

SIRENE - Tra mito e realtà



I primi racconti noti sulle sirene sono apparsi in Assiria, c. 1000 aC. La dea Atargatis (comunemente conosciuta ai greci con in nome Derketo) Tuttavia le prime rappresentazioni di Atargatis la dipingono come un pesce dotato di testa umana e braccia. Luciano di Samosata in De Dea Siria descrive Derketo: « È donna per metà della sua lunghezza; ma l'altra metà, dalle cosce ai piedi, si dilunga in una coda di pesce » (Luciano di Samosata, De Dea Syria Parte 2, Capitolo 14)



Alcuni si sono chiesti se dietro le leggende sulle sirene possa nascondersi un nocciolo di verità. Potrebbero esistere realmente degli umanoidi acquatici intelligenti, parenti lontani dell’uomo, che hanno sviluppato il loro percorso evolutivo adattandosi a vivere nelle profondità dell’oceano e che hanno sviluppato una società complessa nella quale vivono nascosti per paura dei loro parenti umani?
Sono numerosi gli scienziati che hanno avanzato interessanti teorie sull’esistenza, nel passato evolutivo dell’uomo, della “scimmia acquatica, e cioè di una antenato acquatico in comune tra gli ominidi e le scimmie.
E sarebbero numerose anche le testimonianze di coloro che affermano di aver visto degli “umanoidi acquatici” tutt’ora viventi. Secondo i teorici della cospirazione, il Governo Americano (nella fattispecie proprio del NOAA) sarebbe a conoscenza di queste creature e addirittura starebbe inscenando un clamoroso cover-up (che giustificherebbe anche il comunicato del NOAA) per nascondere il fatto di essere in possesso del corpo di una sirena. Prova di questo fatto, sarebbe il famoso suono oceanico “bloop” registrato nel profondo dell’Oceano Pacifico dal NOAA alla fine degli anni ’90. Teorie? Fantasie?
Gli ingredienti per incuriosire il Navigatore ci sono tutti. “C’era una volta una sirenetta che viveva in un meraviglioso mondo sottomarino. si tratta di una storia raccontata in tutto il mondo, la storia di una creatura leggendaria e che è menzionata nelle mitologie di quasi ogni cultura umana. La gente di tutti i continenti raccontano di aver avuto contatti con questi esseri metà uomo e metà pesce, descrivendo tutti lo stesso animale mitico. Alcuni si sono chiesti se dietro queste leggende possa nascondersi un nocciolo di verità. Potrebbero esistere realmente degli umanoidi acquatici intelligenti, parenti lontani dell’uomo, che hanno sviluppato il loro percorso evolutivo adattandosi a vivere nelle profondità dell’oceano e che hanno sviluppato una società complessa nella quale vivono nascosti per paura dei loro parenti umani? E’ quello che si sono chiesti gli autori di un documentario girato per l’emittente tv Animal Planet: “Sirene, il corpo trovato”. Il docu-fiction valuta una possibilità basata su una teoria scientifica radicale – la teoria della “scimmia acquatica” – la quale sostiene che gli esseri umani abbiano attraversato una fase anfibia nel loro percorso evolutivo. Ad un tratto, le grandi inondazioni costiere di milioni di anni fa costrinsero un gruppo dei nostri progenitori a spingersi verso l’interno, adattandosi definitivamente alla terra ferma dando vita alla specie dei primati arboricoli, mentre un altro gruppo, forse spinti dalla necessità di trovare cibo, cominciarono a spingersi sempre più in profondità nel mare, adattandosi alla vita acquatica. Dopo questo adattamento, un gruppo di primati sarebbe ritornato sulla terra ferma conservando alcune delle caratteristiche sviluppate nell’ambiente marino, mentre un altro gruppo si sarebbe adattato definitivamente all’ambiente marino. Quindi, mentre noi ci siamo evoluti in esseri umani terrestri, i nostri parenti acquatici si sarebbero evoluti in esseri umani anfibi, stranamente simili alla leggendaria sirena.
Alcuni autori sostengono la versione contraria della teoria e cioè che il progenitore in comune fosse completamente acquatico e che alcuni gruppi, spinti dalla necessità di trovare cibo, si spinsero sulla terra ferma fino ad adattarsi completamente a respirare ossigeno allo stato gassoso. In ogni caso, la sostanza non cambia. Come prova a sostegno della teoria, gli autori del documentario sottolineano le notevoli differenze riscontrabili tra l’uomo e gli altri primati. Anzi, alcune caratteristiche lo rendono molto più simile ai mammiferi marini che non ai primati terrestri.
Questi i segni distintivi fondamentali: la perdita del pelo cutaneo (i peli creano resistenza in acqua); la capacità istintiva a nuotare (i bambini appena nati già sono in grado di nuotare); il grasso sottocutaneo (per l’isolamento dall’acqua fredda); il controllo del respiro (alcuni umani sono in grado di trattenere il respiro fino a 20 minuti, più ogni altro animale terrestre); un cervello molto sviluppato, grazie ad una dieta ricca di frutti di mare; La storia della teoria della “scimmia acquatica” Nel corso del tempo, diversi autori si sono dedicati alla teoria della scimmia acquatica. In un libro del 1942, il biologo tedesco Max Westenhofer ipotizzò che i primissimi stadi dell’evoluzione umana fossero avvenuti in prossimità dell’acqua. Così egli scrive: “Postulare un modo di vita acquatico in una fase precoce dell’evoluzione umana è un’ipotesi sostenibile, per la quale si possono produrre ulteriori indagini e elementi di prova”. Ma il vero padre della teoria è il biologo marino Alister Hardy che, già nel 1930, aveva ipotizzato che gli esseri umani possano aver avuto antenati acquatici. Ma solo nel 1960 decise di divulgare la sua teoria. L’occasione fu un discorso tenuto al British Sub-Aqua Club di Brighton il 5 marzo del 1960. La tesi di Hardy si basa sulla convinzione che un gruppo di queste scimmie primitive, costrette dalla concorrenza con i loro simili e dalla scarsità di cibo, si sia spinta fino alle sponde del mare per andare a caccia di crostacei, molluschi, ricci di mare, ecc., nelle acque poco profonde al largo della costa. 
Il biologo suppone che queste proto-scimmie acquatiche, spinte dalla necessità di rimanere sott’acqua per diverso tempo – proprio come è capitato per molti altri gruppi di mammiferi – si siano adattate all’ambiente acquatico fino a rimanere in acqua per periodi relativamente lunghi, se non in maniera definitiva. Hardy esplicitò definitivamente le sue idee in un articolo apparso su New Scientist il 17 marco 1960.
Dopo la pubblicazione dell’articolo, la teoria godette di un certo interesse per diverso tempo, ma fu progressivamente ignorata dalla comunità scientifica.
Nel 1987, si tenne un simposio scientifico a Valkenburg, Olanda, per discutere la validità della teoria della Scimmia Acquatica. Dagli atti del convegno – pubblicati nel 1991 con il titolo “Aquatic Ape: Fact or fiction?” (Scimmia acquatica: realtà o finzione?) – emerge che gli scienziati non se la sentirono di sostenere l’idea che gli antenati dell’uomo fossero acquatici, ma che ci sarebbero alcune prove che avessero sviluppato l’abilità natatoria per alimentarsi nei fiumi e nei laghi, con il risultato che l’homo sapiens moderno può godere di brevi periodi di tempo in apnea.
Questa è solo una delle versioni “deboli” della teoria, utilizzata dai ricercatori per spiegare alcune caratteristiche umane che sono ancora avvolte nel mistero, quali la perdita del pelo cutaneo, la capacità di apnea, il grasso sottocutaneo e la capacità istintiva a nuotare dei neonati.
Sebbene l’ipotesi della Scimmia Acquatica spieghi abbastanza bene il sorgere di queste caratteristiche, la maggior parte dei paleoantropologi tende a rifiutare la teoria, non accettandola tra le principali spiegazioni dell’evoluzione umana. Una lettura estrema della teoria di Hardy ha portato alcuni ricercatori indipendenti ha ipotizzare l’esistenza attuale, di umanoidi acquatici intelligenti che vivono in società complesse nel fondo dell’oceano.
L’esistenza di queste timide creature sarebbe all’origine delle leggende sulle sirene, decantate anche da Omero nella sua Odissea. Ma è possibile ipotizzare l’esistenza di questi Umanoidi Acquatici? Potrebbero esserci delle prove? Antiche testimonianze La storia delle sirene non è recente come si pensa.
In verità, alcune pitture rupestri ci fanno pensare che la consapevolezza umana delle sirene sia molto più antica. In una grotta di arenaria in Egitto esistono le rappresentazioni più antiche delle sirene. Sulle pareti della caverna sono rappresentate creature umane con la coda, equipaggiate con lance e reti.





Anche in epoca recente le testimonianze da parte dei pescatori sono state numerose. In molti casi, si racconta del recupero di grossi animali acquatici completamente infilzati con lancie e coltelli di origine sconosciuta. In alcune testimonianze di inizio secolo è possibile vedere lo stupore e lo sconcerto dei marinai.



Uno strano suono dal fondo dell’Oceano Nell’estate del 1997, il NOAA, con l’ausilio di un idrofono equatoriale, registrò più volte un suono misterioso proveniente dagli abissi dell’Oceano Pacifico. Il suono aumentava rapidamente in frequenza per circa un minuto, ed era di ampiezza sufficiente per essere ascoltato dai sensori ad una distanza di oltra 5.000 chilometri.
L’origine del suono – battezzato “The Bloop” – è, come ammette il NOAA – di origine sconosciuta. Secondo alcuni, questo suono potrebbe essere la prova dell’esistenza di una specie sottomarina sconosciuta. Il team di Paul Robertson, un ex dipendente del NOAA, nel 2007 stava indagando sugli inspiegabili spiaggiamenti di massa delle balene.
Nell’esaminare i campioni di tessuto dei corpi di alcune balene, i ricercatori si resero conto che i mammiferi erano stati danneggiati da sonar particolarmente potenti, utilizzati in diverse parti del mondo in occasione di esercitazioni navali. L’inquinamento acustico marino è un fenomeno che in questi ultimi anni ha avuto un grande incremento.
La nuova tecnologia Sonar utilizzata sia per la mappatura del fondo dell’oceano che per l’individuazione di bersagli sottomarini, emette vibrazioni sonore percettibili fino a centinaia di chilometri di distanza. Quando una specie più sensibile, come le balene o i delfini, si trovi in prossimità dell’emissione del rumore subisce un vero e proprio trauma che la spinge ad una fuga precipitosa, fatale quando è diretta verso la superficie del mare.
Secondo uno studio l’impatto di media frequenza di un sonar militare sull’udito di una balena è equivalente a quello di un motore di jet al decollo sull’udito di un essere umano che si trovi a tre metri di distanza. La conclusione cui giunsero gli scienziati marini è che le onde sonore emesse dai sonar erano talmente potenti da spaventare quegli animali dotati di un udito così sensibile.
Nel tentativo di sfuggire alla raffica di onde sonore, i mammiferi si erano spinti in acque troppo basse per sostenere le loro dimensioni enormi, finendo per arenarsi. Per cercare di dimostrare questa teoria, Robertson e il suo team si servirono delle registrazioni di un idrofono di profondità. Fu proprio in quelle registrazioni che ascoltarono la prima volta il “bloop”. Utilizzando un software audio, i ricercatori riuscirono ad isolare il suono di una creatura sconosciuta mescolata con i suoni delle balene e dei delfini. Dopo più accurate analisi, i ricercatori ebbero l’impressione che queste creature sconosciute comunicassero con i mammiferi, forse con l’intento di salvarli dal rumore del sonar.
Qualche settimana dopo, ci fu un altro spiaggiamento di massa in Sud Africa. Anche in quella zona i ricercatori registrarono suoni simili sui proprio dispositivi. Robertson e il suo team si recarono sul posto per investigare. Sulla spiaggia furono i resti di una creature sconosciuta all’interno dello stomaco di un enorme squalo bianco.
Mentre esaminavano lo squalo, i ricercatori notarono una sorta di pugnale infilzato nel lato della bocca dello squalo.



Come aveva fatto ad arrivare quel pugnale lì? Una volta tirate fuori tutte le parte dallo stomaco dello squalo, cominciarono a studiare attentamente i resti per capire di cosa di trattasse. All’interno trovarono la testa della creatura, una mano quasi completa, un longo osso tipo coda-pinna. Inoltre, i ricercatori trovarono anche uno strano strumento con un buco. In un primo momento non compresero cosa fosse, ma poi si ricordarono del pugnale nella bocca dello squalo.
L’oggetto sembrava essere un perfetto astuccio per il coltello ricavato da una cosa o una spina dorsale di qualche grosso pesce. Ma chi aveva potuto produrre un oggetto simile? Alcuni dei ricercatori si convinsero di trovarsi di fronte ad una sorta di “ominide acquatico intelligente”, una sirena! Ora avevano senso tutte le misteriose lance e coltelli trovati nei corpi di numerosi pesce nell’oceano. Qualche giorno dopo, mentre il team stava per tornare negli Stati Uniti, i militari americani confiscarono i resti della creatura e i risultati della ricerca. Pare che il governo stesse studiano il fenomeno da molto tempo e che avesse utilizzato Robertson e la sua squadra per ottenere le informazioni che cercava. L’unica cosa che lasciarono fu la registrazione del famoso “bloop”. Gli scienziati rimasero sconvolti dal fatto che avevano sequestrato tutti i risultati ottenuti con anni di duro lavoro, ma le registrazioni erano il vero tesoro da conservare.
Grazie ad esse, avevano capito che le sirene erano in grado ci comunicare con i delfini e le balene. Questa è la prima e l’unica volta che si possiede la testimonianza di una comunicazione interspecie. Come alcuni sanno, in alcuni paesi, i delfini aiutano i pescatori umani a catturare i pesci, in cambio di una lauta porzione di bottino! Dove hanno imparato i delfini a fare questo? In conclusione In una intervista recente, Robertson ha dichiarato di non sapere se le sirene esistono o no, a differenza di uno dei suoi colleghi il quale pensa che esistano e che bisogna solo trovarle. Secondo Robertson, se le sirene esistono e sono sopravvissute così a lungo è perché sanno nascondersi.
L’unica cosa di cui è convinto il ricercatore è quella di non voler contribuire mai più alla ricerca delle sirene: “Non credo che gli essere umani sarebbero in grado di coesistere con le sirene senza sterminarle”.
Il ricercatore sta ancora cercando di ottenere il bando dello sviluppo e della sperimentazione di armi Sonar per salvare balene, delfini e sirene. Personalmente non ho mai creduto nelle sirene, eppure questo documentario mi fa capire che le profondità dell’oceano sono veramente la frontiera dell’esplorazione umana. Come spesso si dice, conosciamo meglio la superficie della Luna, che non le profondità del mare. Che si tratti o no di sirene, bisogna prendere atto che nel fondo dell’oceano ci sono specie sconosciute e misteriose che ancora non conosciamo e che speriamo di non incontrare per non sterminarle (per dirla con Robertson).

Dagon, il dio sumero dell'abbondanza e della fertilità


Mami Wata è una sirena con poteri magici, venerata in molti paesi africani, nei Carabi, in Brasile e anche in Europa.

La leggendaria sfera di Archimede torna a vivere


Un modello meccanico dell'Universo - un planetario tridimensionale la cui invenzione è attribuita ad Archimede di Siracusa - è stato ricostruito dopo più di due millenni, ed è ora visibile al pubblico. 

 Michael Wright, matematico ed ex curatore del Museo delle Scienze di Londra, ha riprodotto la celebre "sfera di Archimede", un globo metallico che rappresenta il cielo notturno con il movimento apparente del Sole e il moto della Luna e dei cinque pianeti noti nel III Secolo a.C:: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. 

Dal 27 settembre, l'oggetto è esposto presso il Museo di Arte Antica di Basilea (Svizzera), come parte di una mostra sul relitto di Antikythera. 

 Tra le antiche testimonianze di modelli meccanici della sfera celeste, spesso attribuiti al matematico e inventore siracusano, la più attendibile è quella lasciata da Marco Tullio Cicerone nel I secolo a.C.. 
Nel De re publica, l'oratore descrive - per bocca di uno dei suoi personaggi, Philus - l'assedio del console romano Marco Claudio Marcello alla città di Siracusa.
 Durante l'attacco, avvenuto nel 212 a.C., Archimede fu ucciso. Mentre le truppe romane saccheggiavano la città, Marcello prese per sé solo un tesoro: la sfera di Archimede. 
Descrivendo il marchingegno, Cicerone fa concludere a Philus che Archimede doveva essere dotato di un ingegno superiore per essere riuscito a riprodurre, con un'unica rotazione, i moti tanto diversi dei vari corpi celesti.

 A lungo gli storici hanno ritenuto la descrizione di Cicerone esagerata o artefatta. Ma il ritrovamento, nel 1902, del meccanismo di Antikythera - un complesso calcolatore astronomico in bronzo di fabbricazione greca, utilizzato per determinare la posizione delle stelle e dei pianeti oltre 2000 anni fa - ha riacceso interesse per la sfera di Archimede, dimostrando come, anche in antichità, fosse possibile realizzare complessi ingranaggi a scopo scientifico.


Osservando il reperto di Antikythera, costituito da una trentina di ingranaggi in bronzo custoditi all'interno di una scatola di legno (quello che in molti hanno paragonato a un moderno computer) gli scienziati si erano convinti che Cicerone stesse alludendo a un dispositivo simile a quello greco. 
Ma Wright non la pensa così: Cicerone - fa notare - parla di sphaera. Il meccanismo di Antikythera non è una sfera: è più simile a una scatola per scarpe. 
 Anche le descrizioni delle rivoluzioni lunari sul planetario riportate da Cicerone fanno pensare a un meccanismo tridimensionale e tutt'altro che "piatto". 
Il modello ottenuto da Wright somiglia così a una visione "a volo d'uccello" del cosmo, in cui la sfera rappresenta la volta celeste, sulla quale sono raffigurati i simboli delle costellazioni.


La sfera si trova in una scatola di legno che nasconde la porzione di volta celeste situata, in un dato momento, sotto l'orizzonte. 
In pratica, è una specie di planetario visto da fuori: 
«Immaginate la Terra come una piccola biglia al suo centro» dice Wright. Con pianeti e costellazioni che "si muovono" attorno ad essa. Ventiquattro ingranaggi interni guidano puntatori curvi di rame da muovere a mano (che rappresentano il moto dei corpi celesti) sulla sfera. Quelli di Sole e Luna si muovono a scatti, a velocità costante, quelli dei pianeti sono più liberi e si spostano a diversa velocità rispetto alle stelle fisse, come avviene nel cielo reale. 

 Non sappiamo se Archimede abbia effettivamente costruito un simile strumento, ma il lavoro di Wright vuole dimostrare che aveva tutte le carte in regola - tecniche e teoriche - per metterlo a punto.
 Il ritrovamento a Olbia, nel 2006, di una ruota dentata compatibile con un ingranaggio del planetario sferico di Archimede avvalorerebbe questa ipotesi. 

 Fonte: focus.it

La straordinaria bellezza di Lecce sotterranea: il fiume Idume scorre limpido sotto la città


Sotto il bellissimo centro storico di Lecce, scorre uno degli spettacoli naturali più belli del Salento.
 E’ il fiume Idume, che insieme alle acque della sorgente dell‘Acquatina, attraversa per 7 km la città ed ha una portata di acqua di circa 1000 litri al secondo. 
Questo fiume è famoso in tutto il mondo e da sempre. 
I primi a parlarne furono i Romani, pare infatti che già Plinio ne parlasse nelle sue opere anche se non è certo che si riferisse proprio a questo fiume.
 I primi riferimenti certi sono databili al Seicento, quando Ascanio Grandi lo citò nel suo poema. 
 Nel Settecento, Lorenzo Giustiniani parlò di un fiume che scorreva tra Lecce e Brindisi, mentre nell’Ottocento, l’Istituto Topografico Militare parla della presenza di due bocche: la Sagnia, il cui letto presentava enormi cavità naturali, rivolta a Torre Chianca e la Bocca di Fiume, attualmente scomparsa, rivolta a Torre Rinalda. Camminando per le vie di Lecce è possibile udire lo scroscio dell’acqua vicino i tombini. 
 Tra le tappe della città, la più importante è quella Palazzo Adorno, costruito proprio sopra il fiume. 
Nei sotterranei è possibile osservare una falda acquifera, formatesi proprio grazie alle acque dolci del fiume Idume e alla presenza di uno strato di rocce permeabili situate su delle rocce impermeabili, che impediscono all’acqua di filtrare, costituendo il letto della falda.


Molte famiglie, utilizzavano lavarsi in piscine costruite artificialmente, mentre la famiglia Adorni ebbe la possibilità di utilizzare come piscina, le acque cristalline del fiume. 
E’ stata attestata la possibilità che alcuni abitanti ebrei utilizzassero il fiume per purificarsi e svolgere i propri riti sacri.
 Il passaggio di questi è testimoniato dalla presenza di alcune iscrizioni sui muri dei sotterranei.
 Sono presenti delle cisterne in cui venivano inserite delle derrate alimentari da mantenere fresche. 

Fuori dalla città, le acque della falda profonda si incontrano con quelle della falda superficiale, risalendo attraverso delle cavità naturali formano delle polle che alimentano il bacino Idume(inizialmente luogo ideale in cui trovare cefali e anguille, moltissimi tipi di uccelli, animali e tipologie di alghe). 
Ad oggi, dopo vari progetti di bonifica, il bacino si è trasformato in una distesa di canneti e fitta vegetazione, nelle cui acque è possibile trovare il narciso nostrale e la rara salicornia strobilacea. 

Palazzo Adorni, attualmente è sede della Provincia e chi volesse vedere il fenomeno naturale può chiederlo al custode del palazzo.

 

Fonte : meteoweb.eu

L’uomo che comprò Stonehenge e poi la rese all’Inghilterra


Ai piedi della piana di Salisbury, Stonehenge è patrimonio dell’Unesco dal 1986 e attrae ogni anno circa un milione di visitatori. E’ quindi strano pensare che uno dei più significativi monumenti dell’Inghilterra fu una volta comprato da un avvocato per farne regalo alla moglie.

 Cento anni orsono, il 21 settembre 1915, l’avvocato Cecil Chubb pagò 6600 sterline per tutta la piana di Stonehenge ad un’asta a Salisbury, nella contea del Wiltshire.
 Accadde per quasi per caso, con l’avvocato che voleva fare un dono alla moglie Maria. 
La donna aveva chiesto delle tende, ma lui tornò con qualcosa di ben diverso.
 Maria non si mostrò particolarmente felice del gesto, anche perché il costo del monumento, rivalutato ai tempi odierni, era di circa 680.000 sterline, quasi un milione di euro.




Il 26 ottobre del 1918, 16 giorni prima dell’armistizio che concluse la prima guerra mondiale, Chubb regalò Stonehenge allo stato, mediante un atto di donazione. 
L’anno seguente il primo ministro di allora, David Lloyd George, riconobbe la sua generosità con un titolo nobiliare, proclamando l’avvocato “Sir Cecil Chubb, Primo Baronetto di Stonehenge”. 
 Lo stemma celebrativo di Chubb era rappresentato da una zampa di leone che cingeva due rami di vischio, una pianta che veniva considerata sacra dai druidi.
 Lo stemma riportava il motto “Saxis Condita”, che significa “fondata sulla pietra”.

 L’avvocato aveva umili origini, e la sua storia assume un’aura ancora più straordinaria per questo particolare.
 Nacque nel 1876, suo padre era un maniscalco del villaggio di Shrewton, a poca distanza da Stonehenge. 
Frequentò una scuola di grammatica e arrivò a laurearsi a Cambridge, accumulando in seguito una fortuna considerevole. 
Nel suo atto di donazione egli specificò che i visitatori non avrebbero dovuto mai pagare una somma “superiore allo scellino” per visitare il sito archeologico.

 Oggi il sito è gestito dall’English Heritage, e circa 30.000 persone che vivono vicino a Stonehenge hanno ancora diritto all’ingresso gratuito. 
I forestieri pagano invece un biglietto di 14,50 sterline, una somma considerevole se rapportata allo “scellino” indicato nell’atto di donazione. 
L’English Heritage sostiene ad ogni modo che, data l’inflazione dei salari nel secolo scorso, questa somma è minore in termini reali di quel famoso scellino.


La famiglia che possedeva Stonehenge era quella degli Antrobus, cui apparteneva dal 1820. 
Sir Edmund Antrobus, l’unico erede maschio della famiglia, morì in guerra nel mese di Ottobre del 1914 a Kruiseik, in Belgio, durante una delle prime battaglie della Grande Guerra.
 Nel 1915 Stonehenge finì all’asta a causa della mancanza di eredi, e Sir Cecil Chubb l’acquistò per evitare che finisse fra le mani di qualche americano a caccia di antichità, che avrebbe addirittura potuto farla smontare e ricostruire negli Stati Uniti, come ad esempio accadde nel 1968 per il London Bridge, che venne interamente smontato e ricostruito in Arizona. 

 La notizia della vendita di Stonehenge era “sufficiente a suscitare l’invidia di tutti i miliardari americani che sono morsi dalla mania per l’acquisto di oggetti antichi” riportò il Daily Telegraph. 
Chubb potrebbe essere stato grandemente influenzato da questa prospettiva, che riteneva assurda e contro l’orgoglio nazionale, e acquistò il sito archeologico sapendo già che lo avrebbe poi donato all’Inghilterra. 

Chubb morì nel 1934 e suo figlio, Sir John Chubb, morì nel 1957 senza lasciare eredi, con il titolo di baronetto che andò quindi perduto. 
Sono in pochissimi a conoscere la storia di questo notevole uomo inglese, e l’unica targa che lo ricorda è nella casa dove nacque e crebbe, a Shrewton.


Fonte: .vanillamagazine.it

venerdì 25 settembre 2015



  Ma dove ve ne andate,
                povere foglie gialle come farfalle spensierate?
                    Venite da lontano o da vicino
da un bosco o da un giardino? 
               E non sentite la malinconia 
                                       del vento stesso che vi porta via? 

(Trilussa)

giovedì 24 settembre 2015

Cos'è la sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie?


Avete mai sentito parlare della sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie? 
Le persone che ne soffrono hanno una percezione del mondo e di se stessa simile a quella di Alice, la protagonista del famoso racconto di Lewis Carroll.
 In inglese viene chiamata 'Alice in Wonderland Syndrome' e abbreviata come 'AIWS'. 

Immaginate di rendervi conto improvvisamente che le vostre mani si sono ingrandite e che le vostre gambe si stanno allungando a dismisura mentre tutti gli oggetti che si trovano intorno a voi si stanno rimpicciolendo.
 Siete nella vostra camera da letto che ormai vi appare così piccola da poter essere paragonata ad una casa delle bambole.
 Le persone che soffrono della sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie si trovano ad affrontare percezioni simili.


La sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie è un disturbo neurologico che colpisce la percezione visiva.
 Può essere un disturbo temporaneo, in particolare quando viene associato a emicrania, crisi epilettiche o uso di sostanze stupefacenti. Ma la sindrome vera e propria compare durante l'infanzia senza cause apparenti. 
 Di per sé secondo gli esperti questa sindrome colpisce soprattutto i bambini e potrebbe risultare molto più diffusa di quanto pensiamo. Le persone che soffrono di questa sindrome all'improvviso possono avere l'impressione che i loro piedi si rimpiccioliscano o che le braccia e le mani si allunghino mentre il resto del mondo diventa minuscolo.

 La sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie è chiamata anche sindrome di Todd dal nome dello psichiatra John Todd che la descrisse nei particolari nel 1955 e che parlò di una serie di illusioni e di distorsioni della realtà che riguardano il corpo e gli oggetti. 
 Si tratta di una sindrome al momento piuttosto rara riguardo a cui non sono presenti molti studi scientifici.
 Non esistono cure. I pazienti non vengono sottoposti ad interventi chirurgici e non assumono medicinali. 
I bambini di solito mantengono i sintomi di questa sindrome sino a quando raggiungono l'adolescenza. Poi il problema si affievolisce e scompare. 
 Nel 2014 sulla rivista Pediatric Neurology è comparso uno studio su questa sindrome in cui si evidenzia che nei bambini l'età media della diagnosi è di 8 anni.
 I sintomi più comuni osservati sono micropsia (quando gli oggetti e le parti del corpo appaiono più piccole di come sono realmente) e telopsia (quando gli oggetti appaiono più lontani di quanto lo siano in realtà).


Per comprendere fino in fondo questa sindrome saranno necessari ulteriori studi.
 Il racconto di Lewis Carroll, "Alice Adventures in Wonderland", fu pubblicato nel 1865, quando questa sindrome non era ancora stata descritta dalla scienza, eppure ciò che succede ad Alice richiama una condizione neurologica che in effetti esiste davvero. A volte la realtà, quando meno ce lo aspettiamo, supera la fantasia.
 
 Marta Albè

Avorio e sangue. La lotta contro il bracconaggio in un incredibile reportage del Wwf


Il commercio illegale di animali selvatici, che siano vivi o fatti a pezzi, ha un volume d’affari di 19 miliardi di dollari l’anno, equivalente al valore dell’economia del Nepal nel 2014.
 A livello internazionale, la fauna selvatica rappresenta il terzo tipo di contrabbando più redditizio, dopo armi e droga, incentivato dalla domanda proveniente dall’Asia e dalla crescita del mercato nero online. Solo la Cina rappresenta il 70 per cento della domanda mondiale di avorio, ricavato perlopiù dalle zanne di elefante. Infatti, secondo la Wildlife conservation society, in media vengono uccisi 96 elefanti ogni giorno proprio per soddisfare questa domanda.


La sopravvivenza degli elefanti sulla Terra è stata fortemente minacciata dal mercato dell’avorio.
 L’Africa centrale ha perso più del 60 per cento degli elefanti africani delle foreste nel breve periodo tra il 2002 e il 2011. Analogamente, la domanda delle corna di rinoceronte, soprattutto provenienti da Vietnam e Cina, ha portato nel 2011 all’estinzione del rinoceronte nero occidentale e tuttora minaccia le cinque specie rimanenti. Inoltre, in Africa, in soli 40 anni le popolazioni di rinoceronte, animale che ha popolato la terra per 40 milioni di anni, sono passate da 70mila a 25mila esemplari.



Il fotografo James Morgan ha documentato, per conto del Wwf, il lavoro di una pattuglia anti bracconaggio all’interno del Parco nazionale Minkébé, nello stato centrafricano del Gabon, offrendo una visione esclusiva della lotta contro i crimini di natura, che affliggono pesantemente il paese. Difatti, nel Gabon sono stati uccisi 11mila elefanti solo dal 2005 al 2013, ovvero due terzi della popolazione della foresta di Minkébé.

 

 Il lavoro di Morgan non mostra soltanto lo sterminio di una delle specie più emblematiche del nostro pianeta, ma anche le conseguenze che il bracconaggio ha sulle comunità locali.
 La criminalità organizzata controlla il commercio e rappresenta un vero nemico per le squadre che pattugliano il parco.
 I cacciatori di frodo sono muniti di armi automatiche e non temono di usarle per uccidere i ranger.
 Morgan ha infatti dichiarato che “il bracconaggio non ha solo causato la morte di diverse persone, ma ha portato alla disintegrazione di un intero modo di vivere”. 
 Molti bracconieri sono Baka, gruppo etnico che abita l’area di Minkébé. 
Originariamente erano cacciatori e raccoglitori che vivevano in modo sostenibile grazie alle risorse della foresta, ma nel diciannovesimo secolo hanno iniziato a uccidere un numero sempre più alto di animali, spinti dalla domanda di avorio dei coloni inglesi e francesi.
 Oggi la mancanza di opportunità economiche ha portato a livelli elevati di alcolismo e violenza domestica all’interno delle comunità Baka. Inoltre, questo problema ha costretto diversi membri Baka ad assecondare gli ordini delle organizzazioni criminali, che sfruttano le loro profonde conoscenze delle foreste, ingaggiandoli come bracconieri e minando il loro antico legame con l’ambiente da cui traevano sostentamento.

 Fonte: lifegate.it