lunedì 22 giugno 2015
sabato 20 giugno 2015
venerdì 19 giugno 2015
Scoperte piramidi sconosciute che farebbero impallidire quelle di Giza ?
Nel mese di agosto del 2012, Angela Micol, un’archeologa amatoriale della Carolina del Nord, dichiarò di aver avvistato due possibili complessi piramidali sconosciuti in Egitto, individuando un ammasso enorme, grande quasi tre volte le dimensioni della Grande Piramide di Giza.
I siti sono stati individuati dalla Micol grazie alle immagini satellitari di Google Earth.
A quanto pare, alcune conferme sarebbero arrivate da una spedizione preliminare inviata alle coordinate della scoperta, la quale ha rilevato l’esistenza di cavità e pozzi.
“Inoltre, è emerso che queste formazioni sono etichettate come ‘piramidi’ su diverse mappe dell’antichità”, ha detto Micol a Discovery News.
“Le immagini parlano da sole”, disse la ricercatrice quando annunciò la sua scoperta lo scorso anno.
“E’ molto chiaro quello che i siti potrebbero contenere, ma la ricerca sul campo è necessaria per verificare quello che sono, cioè piramidi”.
La scoperta della Micol riguarda due potenziali siti che si trovano a circa 90 chilometri l’uno dall’altro. Il primo si trova a soli 12 chilometri dalla città di Abu Sidhum, lungo il Nilo, caratterizzato da quattro tumuli in posizione inusuale.
Il secondo complesso, invece, si trova a circa 100 chilometri a nord dell’Oasi di Fayum e presenta un tumulo tronco di circa 150 metri di larghezza, più tre tumuli più piccoli in allineamento diagonale.
“Dopo aver dato notizia della scoperta, sono stata contattata da una coppia di egiziani che sosteneva di avere importanti riferimenti storici per entrambi i siti”, ha spiegato Micol. Si tratta di Kamal Medhat El-Kady, ex ambasciatore del Sultanato dell’Oman e di sua moglie Haidy Farouk Abdel-Hamid, avvocato ed ex consigliere della presidenza egiziana.
La coppia è conosciuta per essere la migliore collezionista di mappe antiche, vecchi documenti, libri e manoscritti storici e politici rari.
Secondo quanto riferito dalla coppia, le formazioni avvistate dalla Micol nei pressi di Abu Sidhum e nel Fayum sono entrambi segnalati come complessi piramidali in alcune vecchie mappe e documenti.
“Per questo caso soltanto, esistono ben 34 mappe e 12 vecchi documenti che segnalano entrambi i siti”, hanno detto El-Kady e Farouk a Discovery News.
Per quanto riguarda il sito nei pressi del Fayum, la coppia ha citato tre mappe in particolare: una mappa di Robert de Vaugoudy risalente al 1754, una mappa rara elaborata dagli ingegneri di Napoleone Bonaparte, e una mappa e dei documenti appartenuti al Maggiore Brown, sovraintendente all’irrigazione del Basso Egitto alla fine del 1880.
I documenti indicherebbero l’esistenza di due piramidi sepolte che si aggiungerebbero alle già note piramidi di El-Lahun e di Hawara. “Sarebbero le più grandi piramidi conosciute dal genere umano”, dice la coppia.
“Noi non crediamo di esagerare se dicessimo che le due strutture farebbero passare in secondo piano le piramidi di Giza”.
Le fonti documentali antiche indicherebbero che le piramidi nel sito di Fayum sarebbero state volutamente sepolte, in un tentativo di ‘damnatio memorie’, cioè occultarli volutamente alla memoria collettiva.
Ma perchè?
Sebbene il sito di Fayum non sia stato ancora studiato da vicino, una spedizione preliminare ha invece raggiunto quello vicino ad Abu Sidhum, fornendo dati interessati da confrontare con i documenti forniti da El-Kady e Farouk.
“Quei cumuli nascondono sicuramente un antico sito”, dice a Discovery News Mohamed Aly Soliman, archeologo a capo della spedizione.
“Prima di tutto, la terra attorno ai siti è un normale terreno pianeggiante. E’ solo deserto, sabbia e pietre.
I tumuli, invece, sono diversi.
Si trovano cocci di ceramica e conchiglie ovunque”
.
Citando il lavoro di Ioannis Liritzis, professore di archeometria presso l’Università dell’Egeo, Soliman ricorda che le rocce utilizzate per la costruzione delle piramidi contengono fino al 40% di frammenti di conchiglie.
Soliman ritiene che la gente del posto aveva sospettato che le formazioni erano di origine antica.
Infatti, in passato hanno tentano di scavare uno dei tumuli, ma hanno dovuto rinunciare a causa dell’estrema durezza della roccia che, secondo la Micol, potrebbe essere granito.
“Abbiamo utilizzato un metal detector sui tumuli, scoprendo che entrambi i siti presentano una lunga cavità orientata verso nord”, ha detto Soliman. “Ci deve essere del metallo all’interno delle cavità”. Soliman ricorda anche che la maggior parte delle piramidi egizie presenta un tunnel d’ingresso orientato a nord, indizio che rafforza l’ipotesi dei due ricercatori.
E’ possibile che un gruppo di archeologi amatoriali abbia fatto una scoperta che farà impallidire le Piramidi di Giza? Oppure i tumuli non sono altro che formazioni rocciose affioranti naturali?
“Per stabilire se si tratti di qualcosa di naturale o artificiale, bisogna eseguire indagini approfondite sul campo. Non basta individuare una duna di sabbia nel deserto”, spiega l’archeologo Patrick Rohrer a Discovery News.
Per questo motivo, la Micol ha istituito la Fondazione di Archeologia Satellitare, una fondazione senza scopo di lucro, ma destinata alla raccolta di fondi per portare avanti la ricerca.
“A causa dei disordini e delle difficoltà economiche in Egitto, la vita non è facile per gli archeologi”, spiega la Micol.
“Al momento, non abbiamo trovato nessun archeologo egiziano interessato a scoprire qualcosa in più su questi siti”.
“Ora che abbiamo qualche riscontro documentale, il mio obiettivo è quello di andare in Egitto con un team di scienziati e operatori video degli Stati Uniti, con l’obiettivo di convalidare le prove trovate della squadra di spedizione preliminare e di dimostrare che questi siti sono complessi piramidali dimenticati”, conclude Micol.
Fonte: ilnavigatorecurioso.it
giovedì 18 giugno 2015
I Laghi di Plitivice, un paradiso naturale sospeso nell’acqua
Al confine con l’Italia, la Croazia continua ad essere la destinazione ideale di molti turisti, attratti non solo dal mare splendido e dal ricco patrimonio storico culturale custodito dalle sue città ma anche da scenari naturali di impareggiabile bellezza.
I Laghi di Plitivice sono tra questi!
I 16 specchi d’acqua collegati tra loro da cascate e salti d’acqua sono Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco.
La visita al Parco Nazionale di Plitvice vi darà la possibilità non solo di camminare su passerelle e sentieri sospesi sull’acqua ma anche di entrare dentro a una natura ricca di flora e fauna; sono ben 157 i volatili presenti, oltre a orsi bruni (vere mascotte del parco),cinghiali, lupi e volpi.
I laghi di Plitvice erano inizialmente conosciuti come il Giardino del Diavolo con riferimento alla leggenda secondo cui l’area sarebbe stata inondata dalla Regina Nera dopo una lunga siccità.
In realtà questa denominazione era dovuta alla loro difficile accessibilità nel lontano 1910.
Adesso molte cose sono cambiate; dentro il parco c’è un rinomato Centro Visitatori, la possibilità di pernottare e diversi percorsi naturalistici.
La loro vista esercita un grande impatto scenografico sul turista che ha come l’impressione di camminare in mondo acquatico dove i laghi assumono continuamente sfumature diverse.
Lo specchio d’acqua più grande è il Lago Kozjak, dove è possibile noleggiare barche a remi; il lago segna il confine tra i laghi superiori , più estesi e collegati da tante cascate, a quelli inferiori, un po’ più piccoli e con profondi burroni.
Durante la passeggiata ammirerete non solo lo spettacolo offerto dai laghi ma anche caverne( la spettacolare grotta di Supljara offre incantevoli punti panoramici) fiori variopinti e numerose cascate a salti.
La più suggestiva è Veliki Slap che, con i suoi 78 metri, è la più alta di tutta la Croazia.
I paesaggi mozzafiato e il suono dell’acqua vi accompagneranno per tutto il percorso, dandovi come la sensazione di essere in un paradiso naturale.
Il parco è aperto tutto l’anno e, a secondo delle stagioni, offre scenari diversi e ugualmente stupendi.
Generalmente a Dicembre e Gennaio i laghi sono ghiacciati ma , in primavera, si trasformano in un tripudio di colori e acqua tali da lasciare incantato anche il turista più distratto.
Fonte : meteoweb.eu
St. George’s Hall di Liverpool
Proprio al centro di Liverpool sorge imponente St. George’s Hall, l’edificio in cui si concentra la vita pubblica di questa splendida città britannica.
Questa immensa basilica civile è incastonata tra St. George’s Plateau – lo spiazzo che la divide dalla stazione ferroviaria e metropolitana di Lime Street, dove sorgono statue e monumenti dedicati a importanti personaggi ed eventi legati a Liverpool – e gli splendidi St. George’s Gardens, polmone verde della città, anch’essi ricchi di memoriali e testimonianze storiche; St. George’s Hall, St. George’s Plateau e gli omonimi giardini fanno tutti parte della William Brown Street, l’area di conservazione che, per il gran numero di edifici pubblici che ospita, può essere definito il ‘quartiere commerciale’ di Liverpool.
La prima pietra dell’edificio fu posta nel 1838 per commemorare l’incoronazione della regina Victoria, e il concorso per aggiudicarsi il progetto per la costruzione di St. George’s Hall venne vinto dall’architetto Harvey Lonsdale Elmes nel 1839; sebbene gran parte della grande basilica civile fosse già completa e aperta ai visitatori nel 1851, l’inaugurazione ufficiale del complesso avvenne solamente nel 1854, quando ormai Elmes era già morto da diversi anni.
Il risultato di quindici anni di lavori di costruzione fu uno dei più importanti e raffinati esempi della corrente neogreca del neoclassicismo esistenti al mondo, il St. George’s Hall che possiamo ancora oggi ammirare in tutta la sua magnificenza.
All’esterno, le forme sono quelle degli antichi templi greci: una grande scalinata – sopra la quale è posta la statua del politico e scrittore britannico Benjamin Disraeli realizzata dallo scultore Charles Bell Birch – conduce all’ingresso della St. George’s Hall e al portico centrale, il quale è sorretto da 16 colonne corinzie scanalate affiancate da pilastri quadrangolari anch’essi dotati di capitelli corinzi; tra i pilastri si trovano diversi rilievi realizzati dagli scultori inglesi Thomas Stirling Lee, C. J. Allen e Conrad Dressler, aggiunti a decorazione dell’edificio tra il 1882 e il 1901. Sulla facciata opposta, posta sul lato ovest dell’edificio, altri pilastri quadrangolari sorreggono una grande trabeazione, mentre sul lato sud si trova un altro portico sorretto da otto colonne e a nord sorge un’abside semicircolare su cui si aprono tre porte affiancate da statue di nereidi e tritoni che sorreggono delle lucerne.
All’interno della St. George’s Hall, invece, un corridoio conduce il visitatore dalla porta d’ingresso posta sul lato orientale alla Concert Hall, la sala più grande dell’intero edificio, posta al centro di esso. La Concert Hall, all’interno della quale si trova un grande organo a canne, si sviluppa su una pianta rettangolare, ed è circondata dalle altre sale della St. George’s Hall: a nord si apre la Civil Court – dalla quale si accede, poi, alla Small Concert Room dalla particolare pianta ellittica – mentre dal lato sud si accede alla Crown Court e alla Grand Jury Room; attorno ai saloni principali si sviluppano tutte le altre sale minori, mentre sul lato ovest del sotterraneo collocato sotto la Concert Hall si trovano le celle in cui un tempo venivano rinchiusi i prigionieri.
Ciò che colpisce di più chi entra alla St. George’s Hall è sicuramente il contrasto tra la costruzione esterna e l’interno: all’edificio severo, lineare e classicheggiante che si ammira da St. George’s Pateau si contrappongono interni sfarzosi e finemente decorati in grado di lasciare estasiati i visitatori che percorrono i lunghi corridoi e camminano sotto gli altissimi soffitti delle varie sale.
Colonne di granito rosso o decorate con preziosi arabeschi sorreggono ampie volte a botte anch’esse finemente decorate, pesanti portoni in bronzo sono abbelliti da splendide cesellature, numerose statue riempiono le nicchie create all’interno delle pareti e finestre e specchi creano sorprendenti giochi di luce, donando a tutti gli ambienti di St. George’s Hall un’atmosfera che trasuda ricchezza ed eleganza.
Fonte : news.fidelityhouse.eu
mercoledì 17 giugno 2015
Il Grand Canyon è molto più giovane dei dinosauri
È curioso, vista l'abbondanza di tecniche e metodi collaudati a disposizione, che ancora non si sia riusciti a stabilire la data di formazione del Grand Canyon (Usa), neppure all'interno di un ragionevole intervallo di tempo.
Questo perché non è semplice determinare l'età di un'area soggetta all'erosione.
Il tema è da tempo motivo di dibattito tra i geologi, oltre che di curiosità tra quanti si chiedono se, molto prima dell'uomo, a godere di quello splendido panorama siano stati i dinosauri, prima di sparire dalla faccia della Terra.
Secondo alcune teorie il fiume Colorado avrebbe iniziato a scavare tra le rocce circa 17 milioni di anni fa, altre ci dicono che le varie formazioni hanno età diverse tra loro, mentre uno studio del 2012 aveva retrodatato il tutto a 70 milioni di anni fa.
Dopo quasi tre anni una nuova ricerca, questa volta dell'Arizona State University, rimette tutto in discussione.
Lo studio, pubblicato il 10 giugno su Geosphere, sostiene che la parte occidentale del Grand Canyon ha tra i 6 milioni e i 18 milioni di anni di età.
Il che esclude, tra le altre cose, che i dinosauri abbiano potuto vederlo: «Non c'è verso che i dinosauri abbiano convissuto con quello che chiamiamo Grand Canyon», ha dichiarato Andrew Darling, coautore della pubblicazione.
Il risultato è stato ottenuto studiando la forma del paesaggio grazie a un software che ha messo a confronto la parte ovest del canyon con altre formazioni geologiche nella stessa zona e già datate con precisione.
In base allo studio, le pareti rocciose del Grand Canyon risultano molto più ripide rispetto ad altre pareti delle zone circostanti, come quelle delle Grand Wash Cliffs, che secondo analisi precedenti ha tra i 12 e i 18 milioni di anni di età.
«Secondo noi questo significa che il Grand Canyon occidentale è più giovane e ha iniziato a erodersi più recentemente, ma più velocemente, rispetto all'area delle Grand Wash Cliffs.»
Chissà se questa è l'ultima parola o se, prima o poi, una nuova ricerca rimetterà i T-Rex in cima alla spettacolare gola del Colorado.
Fonte: focus.it
Gouqi Island, Cina: lo spettacolare villaggio dei pescatori abbandonato
Gouqi Island appartiene a un gruppo di circa 400 isole conosciute come Shengsi Islands, vicino a Shanghai, e che formano una parte dell'arcipelago di Zhoushan, che si trova al di fuori della baia di Hangzhou.
Siamo in Cina e questo è il più grande complesso di isole che qui possa trovarsi.
Se venite a farvi un viaggetto da queste parti (Hangzhou è famosa per le sue sete e per il celebre Lago dell'Ovest), potreste trovarvi sommersi dall'incanto di un villaggio abbandonato.
Tradizionalmente tutto l'arcipelago di Zhoushan viveva solo dei proventi del suo settore primario, che è la pesca (la più grande in Cina).
Oggi, con lo sviluppo delle industrie secondarie e terziarie, la base economica di Zhoushan si è ampiamente diversificata.
Costruzioni navali e riparazioni, trasporti, industria leggera, turismo e terziario sono oramai le basi principali della produzione economica locale.
Di conseguenza, molti villaggi di pescatori sono stati abbandonati e tra i borghi meglio conservati si trova proprio quello di Gouqi Island.
Le isole Shengsi sono una popolare destinazione turistica ed è ancora una zona di pesca importante che attira più di 100mila pescatori ogni inverno.
Ma a Gouqi Island è ormai il verde a far da padrone: un mucchio di casupole arroccate a ridosso dell'acqua, molte delle quali ricoperte da del soffice fogliame, cattura lo sguardo rimarcando il duro lavoro dei pescatori di un tempo.
Germana Carillo
Fonte : greenme.it
New Mexico: un uomo vive da 25 anni sotto terra per costruire un’opera d’arte
Siamo nel New Mexico e l’uomo protagonista di questo video, Ra Paulette, vive da ben 25 anni sotto terra dove sta realizzando delle vere e proprie opere d’arte.
Come viene mostrato nel video e come spiega lui stesso, infatti, sta scolpendo le rocce sabbiose di questa zona per dare vita a delle vere e proprie sculture.
Una scelta davvero incredibile la sua, fatta da uomo semplice che non ha mai studiato per diventare ingegnere o architetto né tantomeno scultore, ma nonostante questo quello che sta realizzando è vera arte. Una scelta davvero bizzarra che ha portato tante persone a considerarlo un “ossessionato”, ma come spiega lui stesso la sua è pura passione.
La sua gioia non nasce, infatti, dall’opera finita ma dal processo che porta al risultato.
È quello il momento che ama di più.
Il lavoro di quest’uomo è rimasto sconosciuto fino a pochissimo tempo fa.
Solo da poco, infatti, ci si sta rendendo conto di cosa stia realizzando quest’uomo.
Nella zona nella quale l’uomo risiede ormai da 25 anni tante altre persone hanno richiesto il suo intervento per realizzare un’abitazione decisamente fuori dal comune.
Nel suo ultimo lavoro Ra Paulette ha realizzato un pavimento, un bagno colorato ed ha creato un’abitazione con tanto di energia elettrica.
Insomma un video che vi lascerà davvero senza parole di fronte al talento di quest’uomo che con le sue mani e la sua passione sta dando vita ad un genere di arte del tutto nuova e che di certo in tanti in futuro potrebbero prendere a modello.
Non resta che ammirare e farsi trasportare dalla passione di questo uomo.
Fonte: http://news.fidelityhouse.eu/
martedì 16 giugno 2015
La Torre dell’Orologio a Venezia
Il progetto iniziale della Torre dell’Orologio, ratificato dal Senato di Venezia nel 1493, prevedeva la sostituzione dell’obsoleto orologio di Sant’Alipio.
Inizialmente, quindi, l’idea era quella di porre l’orologio nell’angolo nord-occidentale della Basilica di San Marco, col progetto affidato a Zuan Carlo da Reggio; solo due anni più tardi si decise di ubicare il nuovo orologio all’inizio delle Mercerie, la via commerciale della città.
Il 1° febbraio del 1499 l’orologio venne aperto al pubblico.
Un elemento di grande novità all’interno della piazza è rappresentato dalla torre stessa, alla quale vennero ben presto aggiunte le ali laterali che terminano in due terrazze; per dieci anni, fino all’incendio delle Vecchie Procurae, la Torre dell’Orologio restò quasi una struttura amorfa rispetto al resto della piazza.
Al momento di ricostruire l’edificio andato in fiamme, però, a testimonianza del grande prestigio che la torre raggiunse sin da subito, si cercò di farlo in maniera tale che risultasse in armonia con la Torre dell’Orologio.
L’Orologio fu costruito dai fratelli Gian Paolo e Gian Carlo Ranieri, e fu un vero e proprio capolavoro dell’ingegneria meccanica.
Sul quadrante centrale venivano rappresentati i movimenti dei pianeti allora conosciuti (Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio), dove sono visibili anche le fasi lunari e la posizione del Sole nello Zodiaco.
Oltre a questo, venne aggiunta una scena animata dei tre re Magi che si dirigono in processione verso la statua dorata della Madonna, scena che rende l’idea della complessità e della bellezza di questo meraviglioso congegno meccanico.
Una campana scandisce il tempo tramite due statue (chiamate Mori, di qui anche il nome di Torre dei Mori) poste ai suoi lati, col Leone di San Marco poco sotto, in bella vista.
Talmente riuscita fu la realizzazione di questo capolavoro, che la leggenda narra che la Serenissima fece staccare gli occhi ai fratelli Ranieri, affinché non potessero mai più realizzare una simile meraviglia; di leggenda si narra, appunto, poiché Gian Carlo Ranieri sarà incaricato della manutenzione dell’orologio: è il primo esempio di temperatore, una vera e propria figura professionale che si occupa a tempo pieno della Torre dell’Orologio, dove si trasferisce con tutta la sua famiglia.
Il congegno è talmente perfetto che, fino al 1769, non fu necessario intervenire per interventi concreti per il funzionamento della macchina: fu Bartolomeo Ferracina a terminare i lavori di restauro che portarono l’applicazione del pendolo e un notevole ridimensionamento del funzionamento del quadrante.
Un intervento simbolico compiuto dal Ferracina, inoltre, fu quello del numero dei colpi che i Mori inferiscono alla campana, ridotta in cicli di 12 e non più di 24, oltre ai 132 colpi che una coppia di martelli azionano a mezzanotte e a mezzogiorno.
Dopo circa un secolo, vi saranno nuovi restauri ad opera di Luigi de Lucia, che aumenterà le dimensioni dei numeri delle ore e dei minuti.
Sono questi gli ultimi significativi restauri di un’opera che, per il resto, rimarrà sostanzialmente invariata, diventando uno degli edifici più meravigliosi e più visitati della città.
Fonte: news.fidelityhouse.eu
lunedì 15 giugno 2015
L'isola brasiliana popolata di rospi ciechi
L'azzurro del mare, il verde della lussureggiante vegetazione: i colori vivaci sono uno dei fiori all'occhiello dell'isola principale di Fernando de Noronha, un arcipelago di origine vulcanica a 350 km dalle coste del Brasile.
Ma non tutti i suoi abitanti possono apprezzarli.
Questo paradiso terrestre è popolato da un nutrito numero di rospi cururu (Rhinella schneideri), molti dei quali parzialmente o completamente ciechi.
Gli anfibi sono stati introdotti sull'isola diversi decenni fa - forse, dice la leggenda, da un sacerdote che li portò dal Brasile per controllare gli insetti che infestavano le sue terre - e hanno fatto di queste rocce bagnate dall'Atlantico la loro casa.
Quasi la metà dei rospi (e il 53% dei girini) presenta deformazioni ad arti, occhi e bocca; il 20% ha grossi problemi di vista.
Il motivo della disabilità degli anfibi non è noto.
Un team di biologi della Campinas State University di San Paolo (Brasile), insieme a ricercatori dello zoo di San Diego (California) sta indagando sull'origine delle anomalie, ascrivibile forse a un batterio, a un virus o a un parassita diffusi nella popolazione di rospi.
Cecità e deformità potrebbero derivare anche dalla tendenza di questi animali, isolati dalla terraferma, a formare legami interfamiliari; o ancora, da sostanze inquinanti disperse nel suolo o nelle acque dell'isola.
Questo scenario, verificatosi già su alcune popolazioni di rospi delle Bermuda, appare particolarmente inquietante. Fernando de Noronha fa parte di un parco marino protetto dall'Unesco, e le anomalie manifestate dai rospi potrebbero essere solo un primo campanello di allarme, per disagi che potrebbero colpire anche altre specie.
Intanto la popolazione di anfibi ha sviluppato peculiari tecniche di sopravvivenza che suscitano l'interesse dei biologi di tutto il mondo.
Luıs Felipe Toledo, un ricercatore brasiliano che li studia da tempo, ha per esempio osservato che, se i rospi si affidano comunemente a segnali visivi per catturare le prede, i rospi ciechi aspettano che gli insetti si posino sulla loro pelle, per avventarsi sul bottino.
Questa strategia "rilassata" li rende più magri e meno fertili. Ma ciascuna femmina, per quanto deperita, depone comunque migliaia di uova ogni anno. E l'assenza di grossi predatori naturali fa sì che i rospi, più o meno debilitati, riescano a sopravvivere.
Fonte: focus.it
I fichi: alla scoperta delle loro innumerevoli virtù benefiche e cosmetiche
Il fico, scientificamente conosciuto come Ficus carica, appartenente alla famiglia delle Moraceae, è una pianta di origini antichissime, proveniente dai paesi mediorientali (Turchia, Siria e Arabia).
E’ un albero che raggiunge i 7-8 m d’altezza, ha foglie grandi a tre e cinque lobi, spesse e rugose.
I fichi che maturano a maggio-giugno sono detti fioroni e sono in genere più grossi e meno dolci di quelli che maturano a luglio e agosto (detti fichi forniti), e in settembre (fichi tardivi).
Se per gli induisti e i buddhisti, i fichi sono il simbolo della conoscenza e della verità, per molti di noi invece, sono più prosaicamente legati ai ricordi e ai sapori dell’infanzia, regalandoci un tripudio di gusti, oltre a numerose virtù benefiche e cosmetiche.
Nonostante il sapore dolce, contengono solo 47 kcal per 100 gr, una quantità inferiore rispetto a quella di uva e mandarini, ricordandosi però che le calorie di un fico secco salgono addirittura a 227 per 100 grammi.
I semi, le mucillagini e le sostanze zuccherine contenute nel frutto fresco o secco esercitano delicate proprietà lassative, utili, per esempio, ai bambini e la medicina popolare utilizza molte parti della piante: il lattice che sgorga dai tagli, contenente amilasi e proteasi, viene applicato, per uso esterno, per eliminare calli, verruche e macchie della pelle; i semi vengono ritenuti utili in caso di stitichezza, stimolando la peristalsi intestinale.
Il frutto viene usato come impacco su ascessi e gonfiori infiammati, contro i foruncoli, per la cura di infiammazioni urinarie e polmonari, stati febbrili, gastriti e coliti.
I fichi rafforzano le ossa grazie alla presenza di calcio e magnesio, hanno proprietà antivirali, rinforzando le difese immunitarie grazie al contenuto di vitamina A e C; hanno proprietà energizzanti per via del saccarosio, del glucosio e del fruttosio; sono antiparassitari, contrastano l’ulcera, contengono benzaldeide, che diminuisce la crescita delle cellule anomale e, insieme ai polifenoli, è un ottimo alleato contro il cancro.
I fichi non contengono grassi, non contengono colesterolo, né sodio; sono ottimi alleati del cuore, grazie ai polifenoli di cui sono ricchi; alleviano i crampi e sono consigliati in caso di anemia.
Una curiosità: se vi danno del sicofante, non fatevi spaventare dalla parola, ma fate piuttosto un rapido esamino di coscienza.
I sicofanti (dal greco sukon, “fico”, e phainein, “indicare, mostrare”) nell’antichità erano coloro che denunciavano i furti di fichi dagli orti sacri.
Per estensione, oggi il termine viene rivolto a chi si è comportato in modo particolarmente sleale.
Fonte: meteoweb.eu
Ricostruito il montacarichi delle belve al Colosseo
Torna nei sotterranei del Colosseo una delle macchine che rendevano l’Anfiteatro Flavio il più complesso apparato scenografico dell’impero.
A partire dall’epoca di Domiziano (81-96 d.C.) e fino all’imperatore Macrino (217-218 d.C.), 28 montacarichi posti lungo il perimetro dell’arena assicuravano il sollevamento delle belve dai sotterranei del Colosseo.
Dopo un lavoro di progettazione ed esecuzione durato 15 mesi, uno di essi e’ stato ricostruito seguendo rigorosi criteri filologici e le originarie modalità costruttive.
L’operazione nasce dalla collaborazione tra la Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area archeologica di Roma e la Providence Pictures, che nel 2013 propone la ricostruzione di un montacarichi per la realizzazione del documentario Colosseum-Roman death trap, del regista Gary Glassman, assumendosi i costi dell’intera operazione.
La Soprintendenza chiede che il dispositivo scenico sia fedele all’originale, che funzioni e duri oltre la realizzazione del film a beneficio di studiosi e visitatori.
Sotto la direzione di Rossella Rea, archeologa e responsabile del monumento, il progetto viene realizzato dall’ingegnere Umberto Baruffaldi con la consulenza scientifica dell’ingegnere Heinz Beste, dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, e dell’architetto Barbara Nazzaro.
La progettazione e la costruzione del montacarichi sono durati 15 mesi:
«Un intervento, unico al mondo -racconta Rossella Rea-, che si è svolto sotto la vigilanza della Soprintendenza: il manufatto è stato posizionato con estrema precisione nella collocazione originale, senza neanche sfiorare le strutture antiche».
Le dimensioni del macchinario corrispondono a quelle ricavate dalle tracce rimaste nelle murature in tufo nel sotterraneo del Colosseo.
La gabbia misura 180 cm per 140, con un metro di altezza interna. L’ascensione, di circa 7 metri, è ottenuta con 15 giri di argano sospinto da 8 uomini che lavoravano su due piani alti 1.60 metri, 4 sotto e 4 sopra.
Potevano essere sollevati fino a 300 chili di carico.
Il montacarichi sarà subito inserito nel circuito di visita del Colosseo e sarà visibile da vicino e dal basso, nell’ipogeo e dalla sommità dall’arena.
Inoltre, adeguatamente descritta dalle guide, aiuterà i visitatori nella comprensione del lavoro svolto sotto l’arena per 4 secoli e degli espedienti spettacolari in uso nel Colosseo a partire dall’epoca degli imperatori Flavi.
Fonte: Beni Culturali
A partire dall’epoca di Domiziano (81-96 d.C.) e fino all’imperatore Macrino (217-218 d.C.), 28 montacarichi posti lungo il perimetro dell’arena assicuravano il sollevamento delle belve dai sotterranei del Colosseo.
Dopo un lavoro di progettazione ed esecuzione durato 15 mesi, uno di essi e’ stato ricostruito seguendo rigorosi criteri filologici e le originarie modalità costruttive.
L’operazione nasce dalla collaborazione tra la Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area archeologica di Roma e la Providence Pictures, che nel 2013 propone la ricostruzione di un montacarichi per la realizzazione del documentario Colosseum-Roman death trap, del regista Gary Glassman, assumendosi i costi dell’intera operazione.
La Soprintendenza chiede che il dispositivo scenico sia fedele all’originale, che funzioni e duri oltre la realizzazione del film a beneficio di studiosi e visitatori.
Sotto la direzione di Rossella Rea, archeologa e responsabile del monumento, il progetto viene realizzato dall’ingegnere Umberto Baruffaldi con la consulenza scientifica dell’ingegnere Heinz Beste, dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, e dell’architetto Barbara Nazzaro.
La progettazione e la costruzione del montacarichi sono durati 15 mesi:
«Un intervento, unico al mondo -racconta Rossella Rea-, che si è svolto sotto la vigilanza della Soprintendenza: il manufatto è stato posizionato con estrema precisione nella collocazione originale, senza neanche sfiorare le strutture antiche».
Le dimensioni del macchinario corrispondono a quelle ricavate dalle tracce rimaste nelle murature in tufo nel sotterraneo del Colosseo.
La gabbia misura 180 cm per 140, con un metro di altezza interna. L’ascensione, di circa 7 metri, è ottenuta con 15 giri di argano sospinto da 8 uomini che lavoravano su due piani alti 1.60 metri, 4 sotto e 4 sopra.
Potevano essere sollevati fino a 300 chili di carico.
Il montacarichi sarà subito inserito nel circuito di visita del Colosseo e sarà visibile da vicino e dal basso, nell’ipogeo e dalla sommità dall’arena.
Inoltre, adeguatamente descritta dalle guide, aiuterà i visitatori nella comprensione del lavoro svolto sotto l’arena per 4 secoli e degli espedienti spettacolari in uso nel Colosseo a partire dall’epoca degli imperatori Flavi.
Fonte: Beni Culturali