giovedì 29 maggio 2014
Il fiume Tevere , sacro ai destini di Roma
"Non senza motivo gli dei e gli uomini scelsero questo luogo per fondare la Città: colli oltremodo salubri, un fiume comodo attraverso il quale trasportare i prodotti dell'interno e ricevere i rifornimenti marittimi; un luogo vicino al mare quanto basta per sfruttarne le opportunità ma non esposto ai pericoli delle flotte straniere per l'eccessiva vicinanza al centro dell'Italia, adattissimo per l'incremento della città; la stessa grandezza di quest'ultima ne è la prova".
Così scriveva Livio ed il suo elogio della posizione geografica di Roma, che ricalca il pensiero formulato da Cicerone nel suo "De re publica", mostra che gli antichi fossero consapevoli del fatto che le ragioni della scelta del luogo su cui sarebbe sorta la città fossero state di natura prettamente economica.
La presenza del fiume fu talmente importante per la nascita della città che Servio, vissuto tra il IV e il V secolo d.C., arrivò a sostenere che il nome arcaico del Tevere, Rumon o Rumen (la cui radice deriva da ruo, scorro), diede il nome alla città, sicché Roma avrebbe significato Città del Fiume.
Il Tevere è sempre stato considerato un fiume un po’ speciale dagli intellettuali che, nei secoli, si sono avvicendati nella città di Roma, una sorta di ponte tra passato e futuro, una costante che ha visto svolgersi sulle sue sponde alcuni tra gli eventi più importanti della storia dell’uomo.
Chiamato anticamente “Albula” per le sue acqua chiare, il Tevere prenderebbe il suo nome dal re latino Tiberino, che si suicidò annegandosi nelle sue acque, anche se alcuni contestano questa origine.
Il Tevere, fiume principale dell’Italia centrale e peninsulare e terzo fiume italiano per lunghezza e volume di acque, è stato sempre l’anima della città di Roma, come recita anche la lapide posta sulla sua sorgente alle pendici del Monte Fumaiolo (Emilia Romagna) “Qui nasce il fiume sacro ai destini di Roma”.
Il Tevere è infatti al centro di numerosi miti e leggende, a partire dalla fondazione stessa della città di Roma.
Secondo la tradizione, Romolo e Remo, neonati, furono messi in una cesta e lasciati alla corrente, finché la culla improvvisata non si arenò sotto un albero di fico da cui i due piccoli poterono nutrirsi succhiandone il succo zuccherino.
Nell’antica mitologia romana, il fiume era considerato una vera e propria divinità, chiamata Pater Tiberinus; il dio veniva omaggiato tutti gli anni il giorno 8 dicembre in feste chiamate Tiberinaria, che celebravano l’anniversario della fondazione del tempio dedicato al dio stesso e ubicato sull’isola Tiberina....Gli attributi del dio sono un remo e una cornucopia; nelle sue numerose raffigurazioni – che comprendono tra l’altro numerose monete – appare spesso con attributi navali o associato a scene che ricordano l’origine di Roma.
Il momento peggiore della sua storia, il Tevere l'ha vissuto poco dopo il 1870, quando Garibaldi propose di prosciugarlo per modernizzare la città.
Ferdinand Gregorovius, uno storico tedesco che allo studio di Roma aveva dedicato i migliori anni della sua vita, lo annotò nei suoi ricordi con quello stesso tono dolente con cui molti, romani e no, avrebbero commentato le maldestre trasformazioni della città in capitale di un nuovo stato.
Garibaldi, scriveva Gregorovius, «non ha certo pensato quale aspetto avrebbe avuto Roma e che cosa la Città Eterna sarebbe stata senza questo fiume.
Togliere il Tevere a Roma sarebbe più che togliere gli occhi ad un volto umano... Il Tevere è la memoria viva di Roma... è il fiume sacro della civiltà, è il Nilo dell' Occidente»
Il segreto dei segreti, la costante della sua storia, forse dall' antichità, certo dal momento in cui Roma è diventata una metropoli moderna è questo: il Tevere lotta non solo per sopravvivere, a dispetto del terribile impatto umano di una città che in poco di più di un secolo ha decuplicato i suoi abitanti, ma anche per conservare la sua fisionomia, il volto selvatico e primitivo della divinità fluviale che incarna, memoria intemporale di una città in cui la storia è sempre stata prepotente.
Il tratto di fiume che esce dall' abitato per arrivare al mare pochi romani lo conoscono....sono trentasei chilometri, dalla meravigliosa rovina di Ponte Rotto, che dal basso sembra un monumento alle incognite del passaggio dei secoli, fino al mare aperto a lato delle piccole capanne dei pescatori che si sporgono sull' acqua come le incerte abitazioni di un villaggio primitivo.....muoversi sul fiume è difficile perché il letto è come un labirinto, e cambia conformazione molto spesso, per questo il pelo dell' acqua spesso s' increspa e vortica.
Quando si supera il Ponte Palatino e poi, dopo il Porto di Ripa Grande, il Ponte Sublicio, all' altezza di Testaccio la fisionomia del fiume comincia a cambiare: i muraglioni, eretti dopo il 1870 per contenerne la natura irruenta o forse per emarginarlo dalla città con tutta la sua vischiosa storia di fertilità e rovina, cedono il posto a più naturali rive.
Mentre la città si stempera nelle periferie di Portuense Ostiense e Magliana, la vegetazione ripariale riprende vigore: alberi, arbusti, erbe, canneti si affacciano sull' acqua dando alloggio a creature inaspettate.
Ci sono boschetti di latifoglie, lecci, querce da sughero, roveri, olmi e prugnoli, frassini, ontani, pioppi, salici....
Man mano che procediamo, ai gabbiani isolati che riposano sui massi sparsi si sostituiscono vaste tribù che galleggiano sull' intera superficie: la barca arriva e gli uccelli si alzano in volo coprendo il cielo a centinaia per poi posarsi di nuovo su tratti affioranti di antiche muraglie, forse resti di vecchie strade sommerse, o su tronchi d' albero che sporgono dal fondo.
I longilinei aironi cinerini immobili sugli scogli sembrano statue primitive, in volo le ali arcuate battono il crawl nell' aria e il corpo si assottiglia ancora.
I cormorani sono già volati via, in basso ci sono anatre, germani, gallinelle d' acqua circondate dai pulcini...
Poi il fiume lentamente diventa mare dividendosi in due: il braccio che sfocia a Fiumicino, poi, più a sud, quello di Fiumara. Per un po' si sente l' odore salmastro dell' acqua marina.
Subito, tornando indietro, risento quella strana essenza che resterà nelle mie narici fino a notte: terra e acqua mescolate insieme, gli umori della vegetazione e quelli del letto profondo, l' odore della pioggia che l' alveo emana mescolato all' aroma secco e amaro dei campi e delle pietre.
Elisabetta Rasy, la repubblica
Nessun commento:
Posta un commento