lunedì 10 marzo 2014

L'edilizia antisismica al tempo dei Borbone


La tormentata storia sismica d’Italia ha innumerevoli volte lasciato segni dolenti e ferite che stentano ad arginarsi lungo tutta la Penisola: oggi come ieri la terra che trema costituisce una delle sfide dell’uomo solo dinanzi ad una natura a cui sono indifferenti i secoli di civiltà (e negli ultimi decenni anche di inciviltà) che hanno edificato su di essa. E così come oggi la prevenzione, tanto reclamata e pubblicizzata ma dalle forme sempre più spettrali, rappresenta la sola strategia sicura per arginare i danni che possono derivare dai terremoti, anche in epoche più remote l’ingegno umano seppe mettere a punto sistemi che potevano garantire una maggiore sicurezza, per quanto possibile, contro la ferocia della natura.
 E non sarà dunque un caso se il primo luogo d’Europa dove venne attuato un prototipo di tentativo di edilizia antisismica fu la Calabria, in quel sud della Penisola dove i movimenti del suolo sono frequenti.

Era il 1783 e la punta dello stivale sussultò per due mesi interi, tra febbraio e marzo, con un susseguirsi di scosse che arrivarono fino ad un migliaio nell'arco di 48 ore e ben cinque veri e propri terremoti che rasero al suolo 182 centri abitati anche al di là dello stretto. 
La scossa più violenta, nella notte tra il 5 e il 6 febbraio, causò un maremoto che fece salire ulteriormente un bilancio drammatico:come spiegato da Filippo Bernardini della sezione di Bologna dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e Carlo Meletti della sezione di Pisa dell'Ingv, solo a Scilla ci sarebbero stati 1.300 morti, tutti travolti dall’inaspettato tsunami. Complessivamente si stima che le vittime furono circa 30.000 per la più grande catastrofe del secolo in tutto il territorio del Regno: basti pensare, per cercare di farsi un’idea, che le due scosse più forti, del 5 febbraio e del 28 marzo, per energia erano paragonabili al terremoto che colpì la Marsica nel 1915 e quello dell’Irpinia del 1980.
 Lungo questo breve lasso di tempo si collocarono migliaia di altre scosse di entità minore che flagellarono quel che restava di una terra devastata dall'interno. La sequenza, inoltre, non si arrestò ma proseguì per anni, continuando a mietere vittime laddove non riuscivano gli stenti e la malattia.


Le prime notizie relative ai terremoti impiegarono dieci giorni per giungere a Napoli, capitale di un regno il cui sovrano era Ferdinando IV di Borbone (del resto, due secoli dopo in Irpinia ci fu chi aspettò i soccorsi per cinque giorni). 
Seguì una celere reazione che prevedeva la nomina di un vicario che seguisse gli avvenimenti nella persona di Francesco Pignatelli, organizzando i soccorsi e disponendo i primi interventi, fino a seguire quella che sarebbe stata una laboriosa fase di ricostruzione. 

Nonostante i tempi fossero decisamente più duri di quelli contemporanei – tra guerre, carestie, rivoluzioni ed epidemie si era assai più avvezzi ad eventi drammatici – la gravità dell’evento colpì profondamente la società e la cultura, napoletana e non: quella che oggi chiameremmo una task-force di ingegneri, architetti, geologi, italiani e stranieri, venne inviata sul luogo a presidiare, documentare, raccontare, illustrare.
 Sotto gli occhi di intellettuali e scienziati sfilarono immagini di devastazione e furia, dove le colline erano scese a valle, le frane avevano travolto i centri abitati e la geografia del luogo era stata, sostanzialmente, stravolta. 
 E poi la ricostruzione 
La distruzione di decine di Paesi comportò, in molti casi, l'abbandono dei siti originari in favore di nuove aree scelte. 
In questo caso, però, la ricostruzione avvenne secondo un piano urbanistico moderno ed innovativo che prevedeva lo sviluppo e l'applicazione di regole che riducessero i pericoli derivanti dal rischio sismico: furono i casi di Reggio, Messina, Mileto o Palmi.


Il 20 marzo del 1784 venivano quindi emanate le Regie norme che istruivano su quale pianta dovessero avere i centri abitati e con quale regolarità andassero posizionati gli edifici; veniva inoltre specificato che larghezza dovessero avere le strade e quale forma le costruzioni. 
Si legge ancora nell'articolo di Bernardini e Meletti: «Per quel che riguarda l’assetto urbanistico ci doveva essere una strada maestra diritta larga 8 metri per le città minori, da 10 a 13 per quelle più importanti; le strade secondarie, larghe da 6 a 8 metri, diritte e ortogonali tra loro; una piazza maggiore per il mercato grande, proporzionata alla popolazione, e piazze minori con le chiese parrocchiali o altri edifici pubblici».


Si dispose inoltre il sistema delle «case baraccate» che prevedeva la costruzione di immobili che non superassero i due piani di altezza, con la rimozione di eventuali piani in più qualora già fabbricati nonché di balconi ed altri elementi sporgenti; travi e solai erano incatenati alle mura e i tetti spingenti furono eliminati.
 Ed, effettivamente, settimane dopo il devastante terremoto che svegliò Messina il 28 dicembre del 1908, il geografo Mario Baratta annotava che proprio quelle case baraccate di età borbonica avevano affrontato la catastrofe subendo danni veramente limitati. 

Recentemente, anche il CNR, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università della Calabria, ha dedicato uno studio sull'efficacia di questi sistemi costruttivi in riferimento ad un edificio vescovile di Mileto, già citato dallo stesso Baratta: perché si sa, dal passato c'è sempre da imparare e proprio in materia di terremoti, in Italia, la strada che ci separa da una reale messa in sicurezza sembra, a tratti, essere addirittura più lunga di un tempo. 

 Fonte : http://scienze.fanpage.it

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