mercoledì 13 febbraio 2013

Le ceramiche di Delft

La storica città di Delft è uno dei luoghi più belli e pittoreschi di tutta l'Olanda. Fa parte della provincia dell'Olanda meridionale e si trova a circa 60 km Amsterdam e 15km da Rotterdam. Da secoli è famosa per la produzione di ceramica azzurra, che ebbe il suo massimo sviluppo nel secolo d'oro olandese, il 600. Delft è anche conosciuta e visitata per la sua fiera annuale d'arte e antiquariato e per avere dato i natali al grande pittore Vermeer, che qui nacque e passò quasi tutta la sua vita, usando il centro della città come fonte di ispirazione. Con i suoi canali ombreggiati dagli alberi, e le sue case dalle facciate a gradoni, i ponti e i negozi che vendono ceramiche e gli innumerevoli scorci da cartolina, la visita a Delft vi lascerà un vivo ricordo.
 La ceramica di Delft ha quindi una lunga tradizione. Tra il 1600 ed il 1800, la città era uno dei luoghi di produzione di ceramica pù importanti d’Europa. I prodotti di Delft sono stati esportati nel mondo per oltre 400 anni e questo stile di produzione della porcellana è ancora famoso nel mondo.
 La Fabbrica reale di porcellana (Koninklijke Porceleyne Fles), nata a Delft nel 17˚ secolo, è l’unica rimasta tra le case produttrici originali. Fino al 16˚ secolo, solo le famiglie ricche potevano permettersi di comprare stoviglie di questo materiale. All’inizio del 1600, gli olandesi conobbero la porcellana importata dalla Cina; divenne così popolare che i produttori olandesi, per non perdere i loro clienti, si misero ad imitarne lo stile. Così nacque la porcellana blu di Delft.
 In questo caso sono stati gli Europei a copiare i cinesi, e grazie a loro, la porcellana blu è diventata un prodotto tipico di questa cittadina. Una delle aziende più famose della città è la Royal Delft che produce tradizionalmente e artigianalmente la tipica e conosciutissima ceramica dal colore blu, l’unica ed essere rimasta in vita oggi tra le tante sorte nel XVII° secolo, tanto da assorbire quelle minori. Nel 1909 è divenuta una S.p.A., dal 1954 è quotata in borsa.
 La colorazione tipica si ottiene per effetto della reazione chimica con l’ossido di cobalto durante la cottura che avviene in due tempi entro le 24 ore compreso il raffreddamento. Dalla materia prima infatti si realizza il pezzo versando il liquido che poi si solidifica, creando il biscotto, su cui si dipinge (in quel momento avrà colore nero) poi si smalta per proteggere le incisioni e dopo la 2° cottura diviene blu. Poi esiste anche la tecnica del trasferimento dell’immagine, chiamata anche transfer o della decalcomania. Gli oggetti decorati con questa tecnica si differenziano rispetto a quelli dipinti a mano perché hanno un colore meno intenso e comunque dietro riportano la marca delft blauw. In realtà la composizione sia della materia prima (argilla liquida contenente kaolino, gesso feldespari e quarzo) che della pittura e degli additivi è un segreto di produzione. Ogni oggetto viene attentamente analizzato da un esperto e solo se non ha imperfezioni potrà essere definito ceramica di prima qualità, c’è anche un rigoroso controllo qualità dello smaltato che costituisce un velo di protezione. Le ceramiche con piccolissime imperfezioni o di seconda scelta sono riconoscibili da un graffio sul marchio di produzione e un adesivo verde e sono vendute con un 25% di sconto. 

Cattedrale di San Marco Venezia

Il 31 gennaio 829 iniziò un nuovo corso per la storia di Venezia, con l’arrivo da Alessandria d’Egitto del corpo di san Marco. Il culto dell’Evangelista divenne religione di stato, officiato nella nuova chiesa che avrebbe presto soppiantato quella dedicata all’antico patrono Teodoro.
Fin dalle sue origini San Marco fu cappella palatina e teatro delle cerimonie ufficiali: vi era consacrato il doge neoeletto, vi venivano consegnate le insegne agli ammiragli, vi si rendeva grazie per la cessazione di guerre e pestilenze.
Marmi, sculture e mosaici ornarono la spoglia facciata romanico-bizantina. San marco ripropose nella struttura la basilica imperiale dei Santi Apostoli e nelle funzioni quella di Santa Sofia a Costantinopoli, Nel 1063 il doge Domenico Contarini ne avviò la ricostruzione in forme bizantine, conclusa nelle strutture in laterizio nel 1094, quando la basilica venne consacrata.
Tra l’inizio del XII secolo e la prima metà del XIII, un ampio atrio si estese a circondare i tre lati del braccio ovest.
La struttura di San Marco era ormai definita e, mentre si contemplava la decorazione musiva e l’esterno veniva interamente rivestito di rilievi e marmi provenienti dall’Oriente, veniva interrata l’antistante darsena per far posto alla piazzetta. UNA FACCIATA CHE VIENE DA LONTANO – Scintillante di mosaici, nel suo prospetto di matrice orientale, la facciata è animata solo dai cinque portali che immettono nel atrio, restringendosi con un effetto prospettico. Le preziose colonne che li rivestono su due file giunsero da Costantinopoli nel 1204 assieme a molti rilievi decorativi. Le maggiori dimensioni del portale centrale, che supera il livello della terrazza, e del retrostante finestrone, aperto nel XV secolo, isolano il settore centrale. Come fosse un arco di trionfo, esso era ornato da quattro cavalli bronzei, gioiello del bottino costantinopolitano, oggi sostituiti da copie. Il coronamento delle lunette venne aggiunto tra il 1384 e il 1430 da Pietro Lamberti e altri scultori toscani. I motivi vegetali ne fanno un capolavoro del gotico tardo, detto fiorito. Tra le guglie e nelle edicole stanno santi guerrieri ed evangelisti, a far corteo a san Marco e al suo simbolo, il leone andante. Alle estremità, l’arcangelo Gabriele e la Vergine Annunciata ricordano la festa che coincide con il giorno di fondazione della città, il 25 marzo. Le cupole erano già state innalzate nel XII secolo da alte armature lignee, rivestite poi di piombo, riprendendo la forma a cuffia di quella della cappella bizantina della Vergine della Rocce a Costantinopoli. I Grandi arconi che la sorreggono evocano l’imponenza delle basiliche tardoromane. Sono impostati su possenti piloni tetrapili (composti cioè da quattro pilastri, collegati da archi e cupolette), sotto i quali passano le navate minori. Questo articolato sistema bizantino si ripropone su ciascun braccio, ed è completato dalle esili gallerie pensili, elevate su colonne, che in origine furono i matronei, riservati alle donne, le matrone latine.

I ragazzi che si amano



I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore


Jacques Prevert

Yu , la tartaruga con le protesi



Si chiama Yu, ha perso gli arti dopo l'aggressione di uno squalo ed e' tra le prime tartarughe al mondo ad aver sperimentato con successo l'utilizzo di una protesi per tornare a muoversi normalmente. Yu e' una tartaruga marina comune (Caretta caretta) e da oggi riuscira' a nuotare grazie ad un innovativo giubbotto che le permette di sfruttare due protesi in gomma come arti artificiali anteriori. 

Il progetto e' stato promosso da un team di ricercatori dell'acquario Suma Aqualife Park di Kobe in Giappone, riporta il sito Phys.org. Yu e' una tartaruga marina femmina di circa venticinque anni ed e' la prima a testare la nuova tecnica", ha spiegato Naoki Kamezaki, responsabile dell'acquario. Abbiamo lavorato duramente per progettare un giubbotto che fosse agevole per la tartaruga e stabile al punto da non poter essere slacciato inconsapevolmente durante i movimenti in acqua, ha aggiunto.

La tartaruga pesa 96 chilogrammi ed ha un guscio di 82 centimetri di lunghezza. Fu salvata da un pescatore nel 2008 dopo essere stata aggredita da uno squalo e privata degli arti anteriori e inviata all'acquario giapponese che negli anni ha progettato due protesi artificiali per permetterle di tornare a nuotare nel pieno delle sue potenzialita'. 

Bellissima




Ogni anima è uno specchio vivente dell'universo. Gottfried Wilhelm Leibniz

Hermann Hesse




Poiché sono come sono;
poiché avverto esigenze e problemi che a tanti altri sembrano essere risparmiati,
cosa devo fare per sopportare la vita, malgrado tutto,
e farne, per quanto possibile, qualcosa di bello?
Hermann Hesse

L’olio di Lorenzo. L’incredibile storia della famiglia Odone



 Nel 2008 , all'età di 30 anni si è spento Lorenzo Odone l’uomo affetto da Adrenoleucodistrofia (Adl) la cui storia fece il giro del mondo grazie allo straordinario coraggio dei suoi genitori Augusto e Michaela: Era il 1984 quando a Lorenzo, che allora era solo un bambino, venne diagnosticata la terribile patologia che avrebbe dovuto condurlo alla morte in pochi anni. Ma Augusto, economista, e Michaela, linguista, scomparsa nel 2000, non si arresero. Erano disposti a tutto pur di salvare la vita al loro figlio cui la scienza medica non dava alcuna speranza e, incredibilmente, ci riuscirono mettendo a punto il “farmaco” oggi noto in tutto il mondo come “olio di Lorenzo”. L’adrenoleucodistrofia è una patologia estremamente rara provocata da un’anomalia del cromosoma X che causa un accumulo di acidi grassi nelle cellule nervose cui segue la distruzione della guaina protettiva (la cosiddetta guaina mielinica) che le avvolge e la degenerazione progressiva di tutte le funzioni cerebrali. La patologia colpisce nel 60% dei casi in età infantile (fra i 4 e gli 8 anni) soprattutto maschi, mentre le femmine, che trasmettono poi la patologia ai figli, sono portatrici sane. I primi sintomi Lorenzo li manifestò al ritorno da un viaggio alle Isole Comore. Calo della vista e dell’udito, difficoltà di parola e di concentrazione portarono a credere in un primo momento che il piccolo avesse contratto una malattia tropicale, ma dopo circa un anno emerse la terribile verità: Lorenzo non aveva alcuna speranza di condurre una vita normale, di diventare adulto. Ma i coniugi Odone non rimasero inerti davanti ai medici che non potevano far altro che scuotere la testa davanti alla loro tragedia. Decisero che avrebbero trovato loro una cura e dopo anni studi e ricerche giunsero alla messa a punto dell’olio miracoloso, una miscela di sostanze estratte da olio di oliva e di colza, che si dimostrò in grado di arrestare il progredire della malattia.

 La comunità scientifica reagì con grande scetticismo, ma nel 2002 giunse qualche conferma della reale efficacia dell’olio di Lorenzo nella cura dell’Adl. Risale infatti al Settembre di quell’anno la pubblicazione, sulla rivista New Scientist, dei risultati di due studi condotti dal 1989, anno di nascita del Progetto Mielina, al 1999 su 105 bambini (69 statunitensi e 36 europei, fra i quali due italiani) portatori della malattia, della quale tuttavia non avevano ancora manifestato segni evidenti. Allo studio partecipò il medico di Baltimora Hugo Moser, direttore del dipartimento di neurogenetica del Kennedy Krieger Institute, l’unico che attualmente prescrive il farmaco negli Stati Uniti. Lo studio ha dimostrato l’efficacia dell’olio di Lorenzo nel prevenire l’inizio della malattia nei bambini che sono ancora presintomatici, e nel rallentarne l’evoluzione nei bambini nei quali la patologia è già conclamata. Il 76% dei bambini trattati con il preparato dei coniugi Odone era ancora sano al termine della sperimentazione. Tuttavia l’olio non è in grado di curare la patologia, anche se può bloccarne gli effetti. Ciò nonostante, acquistare l’olio di Lorenzo è ancora difficile e oneroso. Informazioni in proposito si possono reperire sul sito del Progetto Mielina. La storia della famiglia Odone ebbe un impatto emotivo così forte sull’opinione pubblica di tutto il mondo da ispirare nel 1992 il film “L’olio di Lorenzo”, per il quale Susan Sarandon fu candidata all’Oscar per l’interpretazione di Michaela

I bagni di folla all'americana???NO.. hanno troppa paura per farli

NON E' E NON VUOLE ESSERE UN INVITO POLITICO MA SOLO E UNICAMENTE UNA CONSTATAZIONE DI FATTO
Perchè nessuno politico ha il coraggio di fare comizi in piazza?
Perchè quando si muovono hanno fior di scorte?
Forse vale il detto... male non fare paura non avere

La Sacra Ka'ba

La Ka’ba (letteralmente il “cubo” in arabo) è una struttura in pietra antica che si trova all’interno della Grande Moschea della Mecca, in Arabia Saudita. Per i musulmani di tutto il mondo è il luogo più sacro della terra, quello che tutti loro sognano di poter visitare almeno una volta nella vita, quello verso cui bisogna rivolgersi per le preghiere quotidiane.
 Le sue origini e la data di costruzione si perdono nella notte dei tempi. Secondo la tradizione islamica, la prima Ka’ba fu costruita da Adamo dopo la cacciata dal Paradiso terrestre; travolta poi dal diluvio universale, fu ricostruita da Abramo e dal figlio Ismaele i quali murarono nell’angolo sud-orientale dell’edificio la Pietra Nera ( Al-hajar Al –aswad), che avevano ricevuto dall’Arcangelo Gabriele.
 Secondo un’altra tradizione la Ka’ba fu costruita per la prima volta in cielo, duemila anni prima della creazione del mondo, dove ancora rimane il modello originario. Adamo poi la ricostruì sulla terra, in un punto posto esattamente al di sotto del luogo che l’originale occupava in cielo. Egli usò per costruirla pietre tratte dalle cinque montagne sacre: Sinai, al-Judi, Hira, Olivet e Libano. Diecimila angeli furono incaricati di sorvegliare la struttura che fu però distrutta al momento del diluvio, rendendo così necessaria la ricostruzione da parte di Abramo. 

Sebbene fosse stata costruita come casa di culto monoteista, durante il tempo del Profeta Maometto, venne rilevata dagli arabi per ospitare i loro numerosi dei tribali. Fu nel 630, dopo anni di persecuzione e di esilio, che Maometto, tornato con i suoi seguaci alla Mecca, riuscì a distruggere i 360 idoli esposti all'interno della Ka'ba facendola tornare luogo di culto monoteista. 
 Prima dell'avvento dell'Islam era di dimensioni assai più contenute, oggi misura 10 x 12 metri di lato e 15 metri di altezza; è coperta da un enorme telo di broccato nero chiamato Kiswah, che viene rifatto e sostituito una volta all'anno e sul quale sono ricamate le parole della professione di fede . L'ingresso è permesso solo agli inservienti e alla famiglia reale Saudita che ne ha la custodia. 
All'interno, vi è un pozzo, ormai essiccato, che anticamente era chiamato al-Akhsaf o al-Akhshaf, ed era destinato a raccogliere il sangue delle vittime sacrificali. Il pavimento è ricoperto di marmo bianco, i muri sono rivestiti fino a metà altezza di marmo rosa mentre la parte restante e il soffitto sono coperti di stoffa verde decorata con alcuni versetti del Corano. Al centro, come sopporto del soffitto, ci sono tre colonne di legno alte 9 metri e scolpite con incisioni d’oro. Il soffitto è decorato con lampadari, che risalgono all’epoca Ottomana; fatti di vetro, argento e rame hanno anch’essi inciso alcuni testi del Corano. Di fronte alla parete nord ovest, ma non collegato con l’edificio della Ka'ba, c’è un muro di marmo bianco semi circolare si chiama Higr Ismail.
 Questo spazio gode di una speciale considerazione perché all'interno di esso si trovano le tombe di Ismaele e sua madre Hagar.
 Durante il pellegrinaggio annuale ("Hajj") , i musulmani camminano intorno alla Ka'ba in senso antiorario (un rituale conosciuto come "tawaf").

il “Pocket World In Figures 2013” (il mondo in cifre) dell’Economist.

Il “Pocket World In Figures 2013” dell’Economist è un libricino di classifiche.
I campi in cui l'Italia fa molto peggio degli altri e sono tanti, dalle tecnologie alla competitività.
Temi centrali, di cui non sentirete mai parlare in campagna elettorale e che mettono in testa un dubbio( ma davvero le tasse sono davvero il problema più grave?) E sapete perchè non ne parlano? dovrebbero mettere in discussione la loro capacità a governare La loro incompetenza la loro lungimiranza La conoscenza reale del sistema internazionale che muove i mercati interni ed esteri Meglio rintontonire la popolazione con FALSE promesse IRREALIZZABILI con lo stato di fatto "Finchè la barca va lasciala andare" poi.." Muoia Sansone con tutti i filistei" Tanto loro hanno già meravigliosi paradisi che li attendono
Tanto loro hanno già i paradisi che li attendono e potranno fare i nababbi a vita 

Nella campagna elettorale in corso si parla di tasse (troppe) e di posti di lavoro (pochi).
Lo slogan che va per la maggiore è che, se le prime calassero, i secondi salirebbero.
C’è una cosa di cui non si parla:
                                         L'ITALIA
Questo libricino appena uscito suggerisce quali sono i problemi del nostro Paese con l’arida forza delle cifre.
Duecentocinquanta paginette di classifiche che mettono a confronto i diversi Paesi del mondo nei settori più disparati:
L’economia, la finanza, il turismo, l’industria, le tecnologie, la demografia e chi più ne ha, più ne metta.
L’Italia non fa una gran bella figura.
Basta sfogliarlo per capire che forse le tasse non sono il problema più grave del nostro paese.
Cominciamo dal Global Innovation Index. 
Indice, creato con la collaborazione di un’agenzia dell’Onu (World Intellectual Property Organization), calcolato tenendo conto:
Delle istituzioni delle infrastrutture, del capitale umano la ricerca, il livello di sofisticazione del mercato e dell’ambiente in cui si svolge il business.
In questa classifica siamo 36°.
Prima di noi figurano (citiamo a caso) Paesi come Portogallo e Malesia, Ungheria ecc.
Tutti i settori della ricerca e della tecnologia abbiamo accumulato un ritardo storico rispetto agli altri paesi avanzati.
Nella technological readiness (cioè nella prontezza ad adottare le nuove tecnologie), siamo al 49esimo posto, staccati non solo dalla Spagna (19esima) e dal Portogallo (22esimo), ma anche da paesi come Malesia, Sudafrica, Tailandia e Messico.
Persino la Giamaica fa meglio di noi.
Significa che siamo lenti a innovare, facciamo resistenza al cambiamento, siamo restii ad accettare il fatto che le tecnologie rendano più efficiente il nostro lavoro e la nostra vita.
Nella diffusione della rete Internet a banda larga siamo solo 32esimi (dopo Estonia, Spagna e Slovenia). In quella dei computer 25esimi: Canada, Olanda e Svizzera hanno un numero di pc ogni cento persone che è più del doppio del nostro.
Nella percentuale di utenti Internet siamo oltre il 60esimo posto. E, ciliegina sulla torta, nella ricerca siamo il fanalino di coda: spendiamo l'1% del PIL, mentre paesi come Israele (4,4%), Finlandia (3,9), Sud Corea (3,7), Svezia (3,4) fanno in modo lungimirante questi investimenti (sig.monti ecco perchè i nostri cervelli scappano all'estero e certo non perchè qualcuno dice loro che da noi non c'è futuro)sono in grado si capirlo da soli Passiamo al “Business Environment”.
Si tratta di un indice, calcolato dalla Intelligence Unit dell’Economist, creato per misurare la qualità dell’ambiente in cui si fa business.
Questo modello prende in considerazione i criteri adottati dalle aziende internazionali per decidere in quali Paesi investire, sulla base delle previsioni per i prossimi cinque anni.
Ebbene, in questa classifica l’Italia si piazza al 73esimo posto (su 82 paesi). Le aziende trovano più attraente investire non solo in Turchia e Romania, ma persino ad Antigua, nell’isola di Tonga, in Botswana, in Montenegro e in Rwanda.
Avete letto bene: in Rwanda.
Facciamo una pausa.
Molti italiani rifiutano con spocchia queste classifiche.
Si chiedono perché mai dovremmo farci “misurare” da istituzioni internazionali. E certo queste statistiche non sono oro colato.
Può darsi che in alcuni casi semplifichino troppo la realtà. Può darsi. Un indizio non è una prova, ma mille indizi dovrebbero almeno impensierire. È curioso che l’Italia prenda brutti voti quasi in tutte le materie.
Per esempio nella “competitività globale”.
Di che cosa si tratta? È un indice calcolato dall’americana Heritage Foundation (un think tank conservatore) che valuta lo stato delle istituzioni e delle infrastrutture di un paese, della sanità, dell’istruzione, dell’efficienza del mercato e altro.
In pratica è la sintesi di una molteplicità di altri indici, alcuni dei quali abbiamo già incontrato.
In questa classifica l’Italia è 40esima.
Meglio di noi fanno paesi come Spagna e Turchia, Messico e Kazakhstan. Il quarantunesimo è il Perù. Date queste premesse diventa più chiaro perché, ormai da oltre un decennio, l’economia italiana sia andata a picco.
Nella classifica della crescita, negli ultimi dieci anni (2001-2011) l’Italia risulta il terz’ultimo Paese al mondo su (190 paesi): è cresciuta solo dello 0,2% in dieci anni, come dire che è rimasta ferma. Hanno fatto peggio di noi solo lo Zimbabwe (-5,1%) e Haiti (+0,1%), il primo devastato da Mugabe, il secondo da un catastrofico terremoto.
Nella classifica della crescita dei servizi stiamo appena meglio: siamo quart’ultimi, prima di Zimbabwe, Guinea e Haiti.
Come è potuto accadere? Perché l’ottava economia del mondo (non siamo più settimi, il Brasile ci ha superato negli ultimi anni) non riesce più a volare? Evidentemente è accaduto qualcosa di profondo (che l’alta tassazione non riesce a spiegare) se da un decennio (da quando gli effetti della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica hanno cominciato a mostrarsi in modo sempre più palese e crudele) il paese sembra paralizzato.
In quali programmi elettorali sono indicate le soluzioni concrete per uscire dal tunnel?
In fondo basterebbe andare a vedere quello che hanno fatto nello scorso decennio la Germania e i paesi del Nord Europa (Finlandia, Svezia, Olanda e Norvegia) per capire quali riforme si dovrebbero attuare per migliorare la pubblica amministrazione, rendere più efficiente il mercato, attirare gli investimenti, migliorare lo stato dell’istruzione.
Tra l’altro, nella classifica delle tasse, siamo quarti al mondo, ma i primi tre (Danimarca, Svezia e Belgio), sono paesi in discreta salute, segno che un’alta tassazione (e un ottimo welfare) potrebbero risultare sostenibili in presenza di riforme adeguate.
Ma quali riforme?
Qualcuno ne ha sentito parlare?
Eppure il declino è evidente in una molteplicità di settori.
Persino nel turismo continuiamo a scendere in graduatoria.
Nel 2010 (ultimo dato disponibile) siamo il sesto paese al mondo, con 45 milioni di turisti. Sopra di noi non ci sono Francia (77), Indonesia (68) Stati Uniti (54), ma anche la Cina e la Spagna, entrambe con 52 milioni di turisti. Nell’industria andiamo male: nell’output industriale siamo ottavi nella classifica della bassa crescita: ci fanno compagnia paesi come Namibia, Grenada, Malta, Moldova e, ancora Zimbabwe.
Qualcuno se la prende con l’economia sommersa, che certo è un problema serio.
Ma non siamo certo gli unici ad avere questo problema. Nella classifica del sommerso siamo tredicesimi: davanti a noi figurano paesi come Malta, Polonia, Grecia, Ungheria, Portogallo, Spagna e Belgio.
Siamo un Paese di automobilisti: il sesto al mondo, per la precisione, con 631 automobili ogni mille abitanti (dopo Brunei, Portorico, Islanda, Lussemburgo e Nuova Zelanda).
Compriamo molte auto (oltre due milioni) ma ne produciamo poche (790 mila), la metà rispetto alla Gran Bretagna (un milione 460 mila) e un terzo rispetto alla Spagna (due milioni 253 mila).
Ma perché paesi che non hanno marchi nazionali nel settore devono vantare una produzione due, tre maggiore rispetto alla patria della Fiat e dell’Alfa Romeo?
In questo caso le tasse hanno probabilmente un peso, ma bastano a spiegare una simile anomalia?
Qualche partito ha una vaga idea di come invertire la rotta e attrarre produttori stranieri?
Non se ne vede traccia.
Si potrebbe andare avanti a lungo nella descrizione del declino del Paese.
In Borsa, siamo ventesimi al mondo come capitalizzazione di mercato (la metà della Spagna, che è decima).
Siamo 32esimi per numero di aziende quotate, 37esimi per i profitti sul mercato azionario globale.
Ci sono alcuni settori della nostra vita pubblica che dall’estero vengono osservati con raccapriccio e di cui in Italia non si discute quasi.
Prendiamo la classifica globale sulla libertà di stampa (Global Press Freedom), che ogni anni viene stilata dall’associazione indipendente Freedom House. Ormai da diversi anni l’Italia è stata inserita nell’elenco dei “paesi parzialmente liberi”.
Nell’ultima edizione siamo gli unici (assieme alla Turchia) tra i 25 paesi occidentali a comparire in questo elenco.
A livello internazionale figuriamo al 77esimo posto (a pari merito con Guyana e Hong Kong), dopo Paesi (anch’essi parzialmente liberi) come Cile, Namibia e Corea del Sud.
In cima alla classifica, ancora una volta, da paesi come Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Belgio.
Qualche partito ha presentato proposte per migliorare lo stato della libertà di stampa nel nostro Paese e la nostra visibilità internazionale?
Non risulta. Le classifiche vengono snobbate nel nostro Paese.
La competizione non piace. Le nostre università compaiono oltre quota 200esimi nelle classifiche internazionali utilizzate dai migliori studenti al mondo per orientarsi nella scelta della propria sede.
Eppure nessun partito ha presentato un serio progetto per il rilancio dell’università italiana che vada oltre generiche dichiarazioni di principio. Ognuno dice che bisognerebbe investire di più.
Ma per fare cosa?
Per concludere: nel Corruption Perception Index (la percezione della corruzione) siamo al 72esimo posto al mondo assieme alla Bosnia Erzegovina (primi della classe sono i danesi). Che ci sia un legame? L’immagine dell’Italia che rimbalza dall’estero è quella di un paese di scarsa qualità che rifiuta di cambiare. E i partiti, che dovrebbero fare cultura oltre che occupare il potere, dovrebbero fornite precise ricette per uscire dalla palude.
Ma si guardano bene dal farlo.