sabato 30 marzo 2013

OLIMPIA MAIDALCHINI, LA PIMPACCIA DI PIAZZA NAVONA



 Olimpia Maidalchini, vissuta in un secolo - il XVII - che nessuno spazio concedeva alle donne, mise pienamente a frutto questa regola per ritagliarsi un posto da protagonista nella Roma aristocratica e papalina del seicento, lasciandosi alle spalle due mariti e un papa, semplici pioli della sua scalata sociale.
 Intelligente, cinica, spregiudicata, non consentì mai ad un uomo di decidere per lei: a partire da suo padre, capitano d’industria viterbese, che la voleva monaca - al pari delle altre sue sorelle - per salvaguardare il patrimonio familiare a vantaggio dell’unico figlio maschio. Ma non aveva fatto i conti con il carattere ribelle e volitivo della ragazza che, sebbene quindicenne, aveva già le idee molto chiare, una su tutte: mai e poi mai avrebbe indossato il velo. E siccome il fine giustifica i mezzi ricorse alla calunnia per scampare il pericolo, accusando il suo direttore spirituale di aver tentato di abusare di lei. Naturalmente il sant’uomo, dopo i rigori di un’inchiesta ecclesiastica, fu scagionato e riabilitato, ma intanto la sedicenne Olimpia era convolata a nozze con un anziano e ricco borghese, Paolo Nini, che ebbe il buon gusto di lasciarla vedova (e ricca) dopo appena tre anni di matrimonio. 
 Potremmo definire questa serie di pur notevoli eventi come il prologo alla storia di Olimpia, poiché se la sua vicenda umana si fosse limitata a questo noi oggi non saremmo qui a ricordarla.

 Fu il suo secondo matrimonio a far di lei la “Pimpaccia di Piazza Navona”: la donna più odiata, temuta e riverita della Roma seicentesca. Olimpia è giovane, non ancora ventenne, seppur non particolarmente bella; ricchissima, grazie al patrimonio ricevuto in dote e a quello ereditato dal marito; ambiziosa e determinata. Cosa le manca? forse solo un po' di sangue blu che nobiliti le sue origini borghesi. Ma a questo, con le suddette premesse, si può porre rimedio. Fu così che nel 1612 si unì in matrimonio con Pamphilio Pamphili, di antichissima nobiltà, seppur nel contingente a corto di contanti e più vecchio di lei di trent’anni.
 Olimpia andò a vivere a Roma, nel palazzo Pamphili a piazza Navona, insieme al marito e ad un cognato che aveva abbracciato la carriera ecclesiastica: Giovan Battista Pamphili, il futuro papa Innocenzo X.
 Olimpia amava Pamphilio? non si fa grande fatica ad escluderlo, ma forse la medesima cosa potremmo anche dire del maturo consorte, distratto da altri interessi e in primo luogo dalle sue collezioni. Fatto sta che "Trascorso poco tempo dalle nozze", come scrive un cronista del tempo, "andava la giovane sposa più spesso in carrozza col cognato che col marito; si tratteneva molto più nello studiolo con quello che nel letto con questo". 
Nasce cioè tra Olimpia e Giovan Battista quella straordinaria intesa umana e intellettuale che li accompagnerà per tutta la vita. Tra i due, è evidente, la personalità più forte è quella di Olimpia, ma ciò non indurrà lei alla prevaricazione, né lui alla sudditanza psicologica. Vi era, casomai, una compenetrazione di anime, un volere comune: Olimpia perseguiva genuinamente il bene e l'interesse di Giovan Battista e lui ne era consapevolmente convinto, al punto da accettare quasi con abbandono la sua guida. "Senza di te mi sento come una nave senza timone", le scrisse una volta dalla Spagna quando era ancora cardinale.

 Roma, il Palazzo Pamphili a Piazza Navona

Una tale unione spirituale presuppone forse una profonda e intima complicità fisica? In altre parole Olimpia e Innocenzo furono amanti o il loro fu soltanto un grandissimo, seppur trattenuto, amore platonico? Noi saremmo propensi per la prima ipotesi, non ci vedremmo niente di strano: da sempre relazioni sessuali con uomini potenti costituiscono (talvolta) una scorciatoia per realizzare inconfessabili ambizioni. E non era certo un tabù, nella Roma del seicento, per un ecclesiastico avere un’amante.
 Le fonti ci dicono però che il loro fu soltanto un amore spirituale e platonico, senza cedimenti sul piano fisico, se non su quello emotivo.

 E’ a questo punto tuttavia che inizia la “leggenda nera” di Olimpia che agli occhi del popolo di Roma, in virtù della sua soverchiante influenza sul cardinal Pamphili prima e su papa Innocenzo X poi, diventa per sempre “la Pimpaccia di Piazza Navona”. 

Non è del tutto pacifica l’origine di questo soprannome, che a noi appare come una storpiatura in senso dispregiativo del nome Olimpia. Altri ritengono sia mutuato dal nome, Pimpa, della intrigante protagonista di una commedia allora in voga.
 Anche Pasquino ci mise del suo, con un pungente gioco di parole: “Olim Pia” (ovvero: una volta pia, devota), “Tunc impia” (ora empia, sacrilega), condito da ulteriori motteggi per più facili palati. 

Fatto sta che Olimpia con pazienza e lungimiranza sostenne, anche economicamente, la carriera ecclesiastica del cognato, fino alla nomina a cardinale, fino alla conquista del soglio di Pietro.
 Era notorio che chi volesse avvicinare il cardinale Pamphili per richieste, suppliche o favori dovesse preventivamente omaggiare Olimpia, il cui intervento era tutt’altro che disinteressato. 
Quando poi il cognato assurse al papato il potere di Olimpia divenne tale che il popolo, con soggezione mista a spregio, cominciò a chiamarla la “papessa”. Sembra infatti che il pontefice, soggiogato dalla sua influenza, fosse incapace di prendere decisioni di un qualche rilievo senza l’avallo, più che il consiglio, di Olimpia.
 Questo le consentì di acquisire un ruolo di assoluta preminenza nella corte papale, come pure di accumulare grandi ricchezze, mettendo a frutto i capitali investiti per favorire la carriera del cognato e la sua ascesa al papato.

Innocenzo X, la cui memoria iconografica è legata allo splendido ritratto di Velazquez reinterpretato nel novecento in modo visionario dall’artista inglese Francis Bacon, mostrò la sua riconoscenza alla “Pimpaccia” con atti di smaccato nepotismo: Camillo Pamphili, figlio di Olimpia e nipote del pontefice, dopo esser stato nominato Generale della Chiesa, Comandante della flotta e Governatore di Borgo ebbe nel 1644 la porpora cardinalizia, realizzando così una grande aspirazione della madre che aveva lungamente brigato per spingere il figlio ad intraprendere la carriera ecclesiastica.
 Non solo, riuscì ad Olimpia, grazie al suo ascendente sul papa, di far posare la berretta cardinalizia anche sulla testa del nipote Francesco Maidalchini.
 Per sé ottenne il sospirato titolo nobiliare di Principessa di San Martino al Cimino che onorò ricostruendo l’antica abbazia in rovina, il grande Palazzo Pamphili e ristrutturando il borgo secondo il caratteristico disegno di impronta militare che ancora lo distingue. 

Busto di Olimpia di Alessandro Algardi

 Tutto ciò le provocò, inevitabilmente, invidie e maldicenze. Quest’ultime, in particolare, di tale virulenza da apparire talvolta inverosimili.
 Prendendo a spunto un suo interessamento per il recupero delle meretrici che numerosissime operavano nella Roma papalina fu accusata di gestire un vero e proprio traffico di prostituzione; il suo attivismo caritatevole per l’accoglienza dei pellegrini del giubileo del 1650 fu bollato come interessato e lucroso; addirittura si disse che Bernini per garantirsi l’appalto della “Fontana dei quattro fiumi” in Piazza Navona dovette ingraziarsi la “Pimpaccia” con un modello in argento della fontana stessa di un metro e mezzo di altezza! Trascurando le voci, totalmente inaccoglibili, che la vogliono avvelenatrice del marito ormai ottantenne, la sua smodata avidità di danaro troverebbe conferma in un episodio, oltremodo squallido, verificatosi nel 1655 alla morte del suo grande protettore, il pontefice Innocenzo X. 

Si dice che Olimpia abbandonò di gran fretta il palazzo vaticano – la “sede vacante” che si verificava alla morte di un papa era sempre occasione di vendette e gravi disordini – dopo aver sottratto due casse piene di monete d’oro nascoste sotto il letto del papa.
 Non solo, pare che si rifiutò di partecipare alle spese per le esequie papali dichiarandosi priva di risorse e giustificandosi col dire “che soldi volete che abbia una povera vedova?”.
 Fatto sta che la salma del pontefice restò per un giorno in attesa che qualcuno provvedesse a deporla in una bara, cosa a cui infine si determinò il vecchio maggiordomo, spendendo del suo.

 Con la morte di Innocenzo X viene a compimento la parabola esistenziale di Olimpia che si ritira nel suo feudo a San Martino al Cimino dove morirà di peste dopo solo due anni: fu sepolta, come da sua richiesta, sotto la navata centrale dell’abbazia.

 La sorpresa, grande, fu per i suoi eredi che si videro investiti della favolosa cifra di due milioni di scudi, frutto della sua scaltra determinazione come pure della sua oculata amministrazione

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