domenica 20 gennaio 2013

Conte Ugolino della Gherardesca





Per Ugolino della Gherardesca è arrivata la moderna tecnologia a rendere giustizia ad una figura che la leggenda ha tratteggiato con tinte oscurissime,tacciandolo di cannibalismo nei confronti dei figli.
Ugolino deve la sua cattiva fama al supplizio a cui fu condannato dopo la sconfitta ad opera dei ghibellini,che lo condannarono a morire di fame e di sete all’interno della Muda, una torre di proprietà dei Gualandi,suoi nemici che lo sconfissero in battaglia.
Qui,secondo Dante Alighieri,che lo incontra nel secondo cerchio dell’ultimo girone dell’inferno,il conte Ugolino si cibò delle carni dei figli morti,evento ricordato con le celebri parole “più che il dolor poté il digiuno”.
Una frase,per la verità,molto ambigua,che può significare anche che la morte sopraggiunse per inedia.
Le parole del sommo poeta furono invece interpretate come l’estremo tentativo di un  uomo di sottrarsi alla morte per fame,nutrendosi dell’unica cosa disponibile,i corpi senza vita degli sventurati figli.
Nel 2002 un antropologo italiano,il dottor Francesco Mallegni,sottopose all’esame del DNA i presunti resti di Ugolino e dei suoi figli,stabilendo dapprima con quasi assoluta certezza che i corpi,provenienti da una cappella privata,appartenevano a membri della stessa famiglia,e stabilendo,inoltre,che nel corpo della persona più avanti negli anni,il presunto conte Ugolino,c’era traccia di magnesio,ma non di zinco.
Lo zinco viene sintetizzato da un organismo umano quando ci si nutre di carne anche a distanza di giorni prima della morte.
Per cui appariva evidente che l’uomo era morto di fame,non avendo avuto occasione di nutrirsi di nulla;nella mandibola mancavano i denti,segno inequivocabile che l’uomo,anche volendo,non avrebbe potuto masticare nulla,anche in virtù del fatto che era morto in un’età avanzata,presumibilmente tra i settanta e gli ottanta anni.
Il povero conte aveva anche la scatola cranica danneggiata,residuo forse del combattimento prima della cattura.
Per cui la morte per fame era da aggiungere alla scarsa vitalità dell’organismo.
Del conte Ugolino non si sarebbe parlato se non fosse stato il sommo poeta a celebrarlo con questi immortali versi:
“« Poscia che fummo al quarto dì venuti
Gaddo mi si gettò disteso a’ piedi,
e disse: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.

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