martedì 14 aprile 2020
Bologna: la prima città al mondo che abolì la schiavitù
Bologna, 25 agosto 1256. Nel cuore della città, in Piazza Maggiore, suona la campana del Palazzo del Podestà, che richiama tutti i bolognesi:
Il Podestà e il Capitano del Popolo devono fare un annuncio importante
Loro non lo sanno ma con quell’atto, il Paradisum voluptatis (chiamato Liber Paradisum), assicurano a Bologna un altro dei primati di cui andare fiera in futuro.
La legge, emessa nel 1256 e applicata un anno dopo, è la prova del grado di civiltà raggiunto dalla città, in anticipo addirittura di secoli rispetto non solo ad altri Comuni italiani, ma a nazioni intere.
E’ l’atto di abolizione della schiavitù, o meglio della servitù della gleba:
“Paradisum voluptatis plantavit dominus Deus omnipotens a principio, in quo posuit hominem, quem formaverat, et ipsius corpus ornavit veste candenti, sibi donans perfectissimam et perpetuam libertatem”.
E’ l’incipit della nuova legge, che rifacendosi alla creazione dell’uomo come narrata nella Bibbia, recita:
“In principio il Signore piantò un paradiso di delizie, nel quale pose l’uomo che aveva formato, e aveva ornato il suo stesso corpo di una veste candeggiante, donandogli perfettissima e perpetua libertà”
La liberazione dei servi parte da una motivazione religiosa: Dio ha creato l’uomo libero e la schiavitù è quindi qualcosa che va contro il volere divino
Un assunto di carattere etico semplice, ma non evidentemente scontato, che prende il via dalla Battaglia di Fossalta del 1249, che vede sconfitte molte delle signorie che dominano le aree rurali del bolognese.
Anche se la città esce vincitrice, è costretta a fare un’analisi, oltre che etica, anche di tipo economico.
Bologna è all’epoca una città dove stanno cambiando molte cose: l’economia non si basa più solo sull’attività agricola, c’è un commercio fiorente e una vivace vita culturale, grazie all’Università, la prima fondata in Europa, dove studiano all’incirca duemila studenti, che portano denaro e ricchezza.
Senza contare poi che con la liberazione dei servi sarebbe aumentata anche la produttività dei terreni, e soprattutto sarebbe aumentato il numero di persone soggette a tassazione: quei circa 6000 servi avrebbero contribuito alle entrate fiscali della città per assicurarsi che questa nuova fonte di introito rimanesse a Bologna, è fatto obbligo ai servi liberati di rimanere entro i confini cittadini.
Per mettere in atto la legge emessa nel 1256 il Comune intavola delle trattative con le famiglie nobili proprietarie dei servi della gleba: per ognuno di loro il governo della città riconosce loro la cifra di 10 lire d’argento, e di 8 per i minori di quattordici anni. Alla fine, per liberare 5855 schiavi, il comune spende 54.014 lire bolognesi.
Sia che fossero prevalenti i motivi economici oppure quelli etici, il risultato fu comunque che da allora più nessuno, a Bologna, fu costretto a vivere in una condizione di quasi totale mancanza di libertà.
Fino ad allora i servi della gleba erano in una condizione senza speranza: la schiavitù passava di padre in figlio, e il loro destino era incatenato a quella zolla di terra (gleba in latino) sulla quale erano nati, venduti insieme ad essa se il terreno passava di proprietà.
Dei frutti del loro lavoro rimaneva poco o niente, divisi tra il padrone e le decime dovute al clero.
Il resto del mondo tardò molto ad adeguarsi: l’Europa lo fece solo agli inizi dell’800, e la Russia zarista nel 1861.
Gli Stati Uniti abolirono la schiavitù nel 1865 e il Brasile nel 1888.
Tutto questo sulla carta, perché possiamo onestamente affermare che la schiavitù non esiste più?
Il Paradisum, forse, può attendere…
Fonte: vanillamagazine.it
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