lunedì 9 marzo 2020
La storia delle 1.200 sculture del tempio Otagi Nenbutsu-ji a Kyoto
Il tempio di Otagi Nenbutsu-ji si trova incastonato in cima a una collina, circondato da circa 1.200 sculture in pietra.
Lungo un percorso turistico remoto, fuori dai passaggi tradizionali che affollano le vie più centrali di Kyoto, il tempio è un’oasi di calma, privo della masse di visitatori che affollano gli altri centri della città.
Nonostante sia poco conosciuta, la storia del tempio è antichissima, e risale al 770 dopo Cristo, quando l’Imperatrice Shōtoku ne ordinò la costruzione.
Fin da subito il luogo di culto fu al centro di una serie di eventi come guerre e inondazioni, che lo portarono ad essere spostato più volte nei pressi della città, nel frattempo divenuta capitale del Giappone.
L’ultimo episodio fu negli anni ’50, quando un tifone distrusse buona parte della struttura e spinse un monaco di nome Kocho Nishimura a spostare il tempio di Otagi Nenbutsu-ji nella posizione odierna.
Il volenteroso sacerdote iniziò a ricostruire l’edificio in una delle colline del quartiere di Arashiyama, ai margini di Kyoto.
Nishimura non solo ricostruì il tempio, ma lo arricchì con una serie di statue di forma tipicamente buddista.
Le statue sono conosciute come “Rakan”, e hanno espressioni divertite e divertenti, e ognuna di loro è diversa dalle altre.
Questo piccolo compendio di opere d’arte è infatti stato realizzato non solo dal monaco ma da tutta la comunità religiosa.
Fra il 1981 e il 1991 il Kocho convinse i fedeli visitatori del tempio ad aiutarlo nella realizzazione delle opere, e il risultato furono 1.200 sculture caratterizzate da dettagli unici come tazze da tè, attrezzatura sportiva, oggetti tecnologici come una macchina fotografica, libri, coroncine e via discorrendo.
Le 1.200 statue raffigurano i discepoli di Buddha, e sono pacifici guardiani del tempio coperti di muschio.
La loro presenza rende la visita al tempio un’esperienza divertente oltre che religiosa, e consente di immergersi in una dimensione mistica, quasi fuori dal tempo.
MATTEO RUBBOLI
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