martedì 28 febbraio 2017
Le risorse nascoste della nostra psiche: la “resilienza”
In psicologia il termine “resilienza” indica la capacità dell’individuo di superare e di trarre forza da eventi stressanti e traumatici.
E’ un’espressione della duttilità della psiche e del dinamismo della personalità, che spiega come molti individui trasformino situazioni oggettivamente sfavorevoli in occasioni di cambiamento vantaggiose per la propria evoluzione verso la piena realizzazione di sé e della propria felicità.
Il concetto di resilienza è mediato dalla scienza dei materiali, per la quale un materiale ad alta resilienza è quello in grado di adattarsi a pesanti sollecitazioni mantenendo la sua forma originaria. Analogamente, ci sono persone che rispetto a situazioni avverse dimostrano un’elevata soglia di tolleranza alla frustrazione e anzi sanno adottare strategie per ricavarne un vantaggio, e persone “non resilienti” o “scarsamente resilienti” che si lasciano schiacciare dalle difficoltà, partendo dall’idea di non poter cambiare.
Queste persone si irrigidiscono su sistemi di convinzioni negative che le atterrano nell’insoddisfazione o in forme più o meno gravi di disagio psicologico.
La resilienza è associata alla perseveranza, alla creatività, all’empatia e al pensiero positivo e si basa sul presupposto che tutto serva.
Tutto serve, tutto contiene un messaggio prezioso, tutto rappresenta una possibilità evolutiva, anche se nell’emergenza della sofferenza è difficile individuarla.
Gli individui resilienti si pongono rispetto alla realtà in modo attivo: la inventano, la costruiscono, la adattano a sé e, tra i molteplici significati degli eventi, selezionano sempre quello più positivo.
La resilienza non è una caratterista genetica, ma un’opportunità che tutti gli esseri umani possono cogliere lavorando su l’unica variabile che possono veramente controllare: il proprio pensiero.
Il resiliente usa tutti i colori della tavolozza del proprio cervello. Il non resiliente, si limita al grigio e al nero: i primi saranno persone serene ed equilibrate, i secondi, alteri guardiani del proprio ergastolo mentale da loro stessi inflitto.
Dagli anni ’80, la resilienza è diventato un concetto-chiave nella psicoterapia, nel coaching professionale e nella psicologia del lavoro: l’intervento psicologico, a prescindere dal contesto che lo richiede, si configura sempre di più come un insieme di strategie, di tattiche e di tecniche per apprendere, incoraggiare e incrementare la resilienza umana.
Per sviluppare questo straordinario stile di pensiero, occorre prima di tutto assumere per quanto possibile un atteggiamento aperto e non giudicante rispetto a se stessi, agli altri e al mondo.
E’ il passo più difficile, dato che definizioni rigide della realtà rappresentano per molti una barriera contro la sua complessità e un tentativo di controllarla illusoriamente.
Eliminare del tutto pregiudizi e convinzioni limitanti è però utopistico: si può al limite diventarne consapevoli e cercare di arricchire il proprio punto di vista di alternative diverse da quelle offerte dall’abituale approccio alle cose, quello che consideriamo spontaneo ma che è soltanto il frutto di una combinazione di esperienze e di apprendimenti, a volte inconsci, non sempre funzionali.
A cosa serve giudicarsi sbagliati, tristi, sfortunati?
A cosa serve pensare che un problema sia irrisolvibile?
A cosa serve piangere sul latte versato?
Qual è l’utilità del pensare che il mondo sia un luogo pieno di insidie?
Si tratta di giudizi, di visioni della realtà certamente vere, ma non più di altre di segno opposto che però aprono la strada alla resilienza, alla soluzione strategica e creativa dei problemi e alla costruzione di un equilibrio nuovo.
La resilienza psicologica non è semplice “pensiero positivo”, consiste nell’accompagnare il pensiero positivo all’azione con perseveranza, anche nelle situazioni più complicate.
Si può definire resiliente chi apprende dalle difficoltà senza la pretesa di risolvere subito i problemi e chi ha un’elevata soglia di resistenza alle frustrazioni.
Soggetti scarsamente resilienti, invece, sono caratterizzati da un certo grado di rigidità e, una volta strutturato uno schema della realtà, rifiutano di variarlo anche quando risulta impedire equilibrio e realizzazione personale.
Bassa resilienza è correlata ad elevati livelli di conflittualità interpersonale e sofferenza psicologica, oltre che a scarsa capacità di realizzare le proprie attitudini.
Per capire meglio cosa sia la resilienza, si pensi alla storia di un ragazzo molto sfortunato: figlio di una ragazza madre che lo dà in adozione e costretto a frequentare l’università prima ancora di aver compreso cosa volesse fare nella vita.
Gli studi, costosissimi, vanno a rotoli gettando quasi sul lastrico la sua famiglia.
Disorientato, ma perseverante, il ragazzo resta la Campus.
Si arrangia raccogliendo lattine nel parco in cambio di pochi dollari e dormendo ospite nelle stanze dei colleghi e a volte per strada.
Una situazione terribile.
Nel grigiore e nell’apatia per la vita universitaria, il ragazzo trovava la bellezza soltanto nei manifesti e nelle scritte appesi nei corridoi provenienti dal corso di calligrafia ospitato in quella Università.
Così, sulla scia di un’intuizione, decide di frequentare le lezioni di calligrafia e si appassiona ai diversi tipi di carattere, all’arte di disegnarli, comporli e separarli a mano, così da ottenere sempre un risultato perfetto.
Certo, quella scelta non aveva nulla a che fare col suo ambito di studi, ma era la sola cosa che sentisse di fare in quel momento confuso della sua esistenza.
Quel ragazzo era Steve Jobs, fondatore di Apple, che è, a tutti gli effetti, uno dei più fulgidi esempi viventi di resilienza umana.
Come ha spiegato lo stesso Jobs, senza quel casuale corso di calligrafia non avrebbe mai creato più avanti i caratteri che oggi usiamo tutti, bellissimi e funzionali, e che derivano dal primo Machintosh.
Senza la resilienza, Jobs si sarebbe forse piegato davanti all’evidenza dei fallimenti universitari e all’apparente incapacità di trovare un senso compiuto al proprio percorso di allora… come succede a molti.
Raccontando la sua interessante vicenda agli studenti del Reed College, Jobs spiega la sua resilienza come la “capacità di unire i punti”, ovvero di mettere insieme all’interno di un disegno compiuto tutte le esperienze esistenziali, anche quelle più difficili o drammatiche e dice:
“Se non avessi abbandonato gli studi, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono.
Certamente non era possibile all’epoca “unire i puntini” e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo”.
“Non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi appaiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro.
Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questo approccio non mi ha mai lasciato a terra e ha fatto la differenza nella mia vita.”
Non possiamo scegliere tutto e a volte ci capitano situazioni in cui ci sentiamo imprigionati.
La resilienza, se attivata, è una risorsa miracolosa perché fa leva sull’unico aspetto della realtà su cui possiamo acquisire molta libertà: il pensiero.
Henry Ford diceva: “Non importa che pensiate di saper fare o non saper fare qualcosa, comunque avete ragione”. In questo senso, per stimolare la resilienza, occorre selezionare i pensieri e buttare via tutti quelli che non servono o che lasciano un problema immutato o lo peggiorano.
Fonte: fisicaquantistica.it
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