domenica 28 aprile 2013
Il disastro di chernobyl
26 aprile 1986, il giorno del disastro. Da pochi secondi sono scoccate le 1.23 di mattina quando il fragore devastatorio di una terribile esplosione abbaglia i cieli nei pressi della cittadina di Chernobyl, in Ucraina, a quel tempo raccolta sotto la bandiera falce e martello dell’Unione Sovietica.
Di acqua sotto i ponti ne è passata, ormai, da quella tragica notte, ma il ricordo è ancora vivo e probabilmente il genere umano ancora ne sta pagando le conseguenze.
La centrale nucleare “Lenin” era in funzione dal 1977, anno in cui era stato consegnato il reattore numero 1, e si trovava ad un centinaio di chilometri dalla città di Kiev, non lontano dal confine con l’attuale Bielorussia.
Disponeva di quattro reattori utilizzati per la produzione di energia elettrica civile e nel corso dei suoi primi anni di vita aveva subìto alcune modifiche che ne avevano ridotto la sicurezza a vantaggio dell’efficienza, tra tutte l’accoppiamento, come moderatore, del grafite con l’acqua, che fungeva da refrigerante.
La notte del disastro erano in atto alcuni test sperimentali che, nel corso degli accertamenti e delle indagini condotte nel tentativo di definire la cause del disastro, rilevarono tutta una serie di errori commessi sia dagli operatori, sia dai progettisti. Si cercò infatti di provocare un’avaria per verificare se alternatore e turbina fossero in grado di produrre energia elettrica in caso di arresto del sistema di raffreddamento. Il tentativo, già operato con successo per il reattore numero 3, stavolta fallì e produsse l’incontrollato aumento della potenza del nocciolo del reattore. L’acqua di refrigerazione si scisse in idrogeno e ossigeno, la pressione produsse la rottura delle tubazioni di raffreddamento, l’idrogeno e la grafite entrarono in contatto con l’aria generando l’esplosione che scoperchiò il reattore e la fuoriuscita di una nube di materiali radioattivi che contaminò la zona circostante, si propagò per l’Urss e con la complicità del vento raggiunse zone della Finlandia e della Svezia. Si calcola che nell’atmosfera vennero lanciate 20 milioni di scorie di materiale radioattivo, una quantità enorme. Le aree vicine furono prontamente evacuate e più di 330.000 persone furono costrette a trasferirsi altrove.
Gli errori e le responsabilità si assommarono, la notte del 26 aprile. Dall’inadeguatezza del personale non qualificato, all’imperizia di chi prese le decisioni più azzardate, ai difetti dell’impianto stesso che già nel 1982 aveva conosciuto un incidente di minor entità senza per questo convincere i progettisti ad apportare le necessarie correzioni, alle carenze tecniche del reattore RBMK, in particolare le barre di controllo.
Il livello delle radiazioni sprigionate dall’incendio del reattore fu talmente importante da superare di gran lunga quello delle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki, e nel corso degli anni le agenzie ONU hanno redatto un rapporto ufficiale che calcola in 65 i decessi collegati al disastro e stima in 4.000 i morti riconducibili alla catastrofe per tumori e leucemie nell’arco degli 80 anni successivi. Numeri questi messi in discussione da associazioni antinucleariste come Greenpeace il cui conteggio è decisamente superiore sul lungo periodo. Nel corso dei mesi e degli anni gli abitanti delle zone circostanti hanno visto alzarsi drasticamente la percentuale di decessi per tumori alla tiroide, conseguenza diretta dell’esposizione allo iodio-131, un isotopo radioattivo sprigionato al momento dell’esplosione.
Nei giorni immediatamente successivi all’incidente il governo sovietico tentò di tener nascosta la notizia, tanto che le forze che intervennero in soccorso non erano a conoscenza della pericolosità e delle mortali conseguenze dei fumi fuoriusciti dal reattore esploso. I primi allarmi arrivarono da Stoccolma ed Helsinki dove fu registrato un aumento inquietante dei livelli di radioattività; in Italia le voci iniziarono a circolare la sera del 28 aprile, quando si venne a conoscenza che Mosca aveva istituito una speciale commissione d’inchiesta.
Fu così che il Corriere della Sera, martedì 29 aprile, tre giorni dopo l’accaduto, andò in rotative con l’annuncio di una catastrofe nucleare in Unione Sovietica.
Vorrei risparmiarmi la fatica di scivolare nell’inutile demagogia, ma la domanda sorge spontanea: cosa rimane di quel maledetto 26 aprile 1986? Probabilmente il timore, amplificato dalla recente catastrofe del 2011 a Fukushima, anch’essa di livello 7, il più alto, della Scala INES – International Nuclear and radiological Event Scale – che queste centrali nucleari incutono nell’opinione pubblica, comunque sempre divisa tra favorevoli e contrari; soprattutto la consapevolezza che l’uomo, nell’inseguire il progresso, ha commesso, commette, continuerà a commettere errori sottoponendo a pericolo costante la sua stessa esistenza.
E’ questo il dazio da pagare nel volgere lo sguardo a ciò che sarà: allora, mi vien da pensare, maneggiare con attenzione il futuro e mai farsi troppo forti delle proprie sicurezze. Solo così l’uomo potrà contenere i rischi nei limiti dell’accettabile.
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