domenica 13 marzo 2022

Scoperto in Antartide, il relitto della Endurance, la nave di Shackleton

 


E’ stata finalmente localizzata dai droni sottomarini la barca dell’esploratore Ernest Shackleton, dopo 107 anni. Il 44 metri in legno, stritolato dai ghiacci e affondato nel 1915, giace sul fondo del mare di Weddell, a est dell’Antartide, a 3.008 metri di profondità. Il merito del ritrovamento va alla missione Endurance22 partita da Città del Capo, sulla rompighiaccio Agulhas II, capitanata dal dottor John Shears.

Localizzato il relitto, gli studiosi ora effettueranno foto e una mappatura della zona, ma non toccheranno in alcun modo la nave poiché nel Trattato Antartico (che regolamenta l’utilizzo delle porzioni disabitate dell’Antartide), il relitto dell’Endurance è stato definito un monumento e va protetto.

Perché è un monumento? Perché il tre alberi Endurance è il simbolo di quella che è considerata la più grande impresa nella storia della marineria.


Qualche tempo fa una rivista statunitense ha chiesto ai suoi lettori chi fosse, secondo loro, il più grande navigatore di tutti i tempi.

 Forse vi aspettereste nomi del calibro di Joshua Slocum, Tabarly o al limite, se siete nostalgici, Cristoforo Colombo. E invece no. Per gli americani, il più grande è un esploratore, che si è rivelato, nel momento di vera difficoltà, anche un eccellente navigatore.

Stiamo parlando di Ernest Shackleton.

 Tre volte, invano, ha sfidato il Polo Sud. La sua nave è stata stritolata dai ghiacci. Lui non si è mai arreso: navigando per ottocento miglia su una scialuppa di sette metri in Antartide, ha salvato tutti i 27 membri del suo equipaggio. 

Scopriamo chi è il più grande esploratore di tutti i tempi.


“Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton”.

 A pronunciare queste parole fu Raymond Priestley, geologo, geografo ed esploratore britannico, anche presidente della Royal Geographical Society. Esagerato? Per niente. Ernest Shackleton è, ancora oggi, l’emblema dell’uomo capace di portare a termine l’impossibile.

Nato nel 1874 a Kilkea House, in Irlanda, Ernest Henry Shackleton a sedici anni si arruola su una nave della marina mercantile britannica, fuggendo dagli studi medici ai quali lo aveva indirizzato il padre

Dieci anni di viaggi tra l’Oceano Pacifico e l’Indiano fanno maturare in lui la convinzione che la marina mercantile non sia adeguata a soddisfare le sue ambizioni. La voglia di raggiungere fama e ricchezza lo spingono quindi a intraprendere la carriera di esploratore e per iniziare si aggrega alla spedizione antartica organizzata dalla Royal Geographical Society e guidata da Robert Falcon Scott, un altro mostro sacro dell’esplorazione dei poli.

L’obiettivo della spedizione è quello di raggiungere per primi il Polo Sud. 

Scott e Shackleton arrivano a circa 480 miglia dal Polo Sud prima di doversi arrendere. 

Si crea, tra i due, una frattura, secondo alcuni causata dalla sempre crescente popolarità di Ernest tra i membri della spedizione, e alla base della decisione di Scott di rimandare il collega in Inghilterra adducendo cause di salute.

 Passano quattro anni prima che Shackleton possa tornare al Polo Sud, questa volta a capo di una sua spedizione. 

A bordo del tre alberi Nimrod e grazie all’aiuto finanziario del governo australiano e e di quello neozelandese, nella primavera del 1907 raggiunge l’Isola di Ross, dove allestisce il campo base (ancora oggi visibile).

Ufficialmente la spedizione si trova lì per analizzare la mineralogia dell’Antartide, ma il vero motivo è sempre lo stesso: arrivare per primi al Polo Sud. 

Shackleton si sente forte e preparato, grazie soprattutto all’esperienza acquisita nella spedizione precedente. Ma i preparativi si rivelano ancora una volta insufficienti. 

I membri della spedizione erano marinai e non esperti sciatori. La decisione di utilizzare i pony della manciuria è controproducente, tanto che devono essere progressivamente abbattuti. 

Nonostante tutto questo, i membri della spedizione riescono ad arrivare a soli 180 chilometri dal polo sud.

 Qui, Shackleton dimostra un grande spirito critico e una notevole capacità di valutare la situazione: anche se il traguardo è ormai a un passo, si rende conto che, avanzando ancora, il ritorno sarebbe impossibile. 

Decide di quindi di fare rientro al campo base. A chi gli ha chiesto il perché di quella decisione, ha sempre risposto: “Meglio un asino vivo che un leone morto”.




Per tre anni comunque Shackleton detiene il primato di avvicinamento al Polo Sud, che gli viene strappato quando prima Roald Amundsen e poi Scott lo raggiungono. 

Rimane un’unica conquista di prestigio: la traversata del continente antartico. è il 1° agosto 1914, alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando la tre alberi Endurance parte con a bordo ventotto uomini. 

Varata in Norvegia dai cantieri navali Framnaes Schipyard, si tratta di un veliero lungo 44 metri, dotato anche di un motore a singola elica sviluppante una potenza di circa 350 cavalli, che le consente una velocità media di 10 nodi, progettato espressamente per le esplorazioni artiche.


Ma le condizioni della banchisa sono proibitive e particolarmente estese: il 19 gennaio l’Endurance rimane incastrata nel pack.

 “La nostra posizione al mattino del 19 era lat. 76°34’S, long. 31°30’O. Il tempo era buono, ma era impossibile avanzare. Durante la notte il ghiaccio aveva circondato la nave e dal ponte non era possibile vedere mare libero”, scrive Shackleton nel suo diario di bordo.

Gli uomini trascorrono il lungo inverno australe a bordo della nave, ma il 27 ottobre l’Endurance viene abbandonata e un mese dopo è completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio.

 Shackleton trasferisce l’equipaggio sulla banchisa in un accampamento d’emergenza chiamato “Ocean Camp” dove rimangono fino al 29 dicembre, quando si spostano, trasportando al traino tre scialuppe di salvataggio, su un lastrone di banchisa che chiamano “Patience (pazienza, in inglese) Camp”. Mai nome fu più azzeccato.

L’equipaggio è costretto ad attendere mesi prima di potersi muovere di nuovo

Nell’aprile 1916 gli uomini, notato che il ghiaccio inizia a frantumarsi, salgono a bordo delle scialuppe. Shackleton ha già in mente dove dirigere il gruppo. 

La destinazione migliore sarebbe l’Isola Desolation, circa 160 miglia a ovest. Le altre possibili destinazioni sono due isole più vicine, Elephant e Clarence. 

Una volta salpati, i membri dell’equipaggio si ritrovano costantemente bagnati e impossibilitati ad accendere il fuoco per scaldarsi o per sciogliere il ghiaccio (fondamentale per dissetarsi). Shackleton capisce di non avere altra scelta, deve raggiungere al più presto la terraferma: dopo sette giorni di navigazione tutte e tre le scialuppe arrivano all’isola Elephant, la cui superficie è quasi completamente ricoperta di neve e ghiaccio e battuta senza sosta da forti venti. Se già di per sé la capacità di Shackleton di mantenere in vita l’equipaggio fino a questo momento è stata notevole, è proprio ora che la spedizione entra nel mito.


Shackleton capisce infatti che è fondamentale ripartire in fretta, destinazione la Georgia del Sud, base di una flotta di baleniere. 

Una decisione che a prima vista appare folle: si tratta di affrontare più di 800 miglia in uno degli oceani più pericolosi del mondo a bordo della James Caird, una delle scialuppe lunghe sette metri salvate dalla distruzione dell’Endurance. 

Per preparare la barca viene rialzato il bordo libero, rinforzata la chiglia e costruito uno ponte improvvisato in legno e tessuto intriso d’olio e sangue di foca per renderlo impermeabile.

 Per stabilire la rotta, l’equipaggio ha a disposizione solo un cronometro e un sestante. Date le scarse speranze di successo, Shackleton decide di caricare viveri per solo quattro settimane: se non avrà raggiunto la destinazione entro quel lasso di tempo, probabilmente significherà che sono affondati e, peggio, persi nei mari australi.

E’ il 24 aprile 1916 quando Shackleton e i cinque uomini di equipaggio da lui scelti, lasciano l’isola Elephant. 

Affrontando onde gigantesche e raffiche di vento valutate intorno ai 100 km/h, dopo quindici giorni di navigazione giungono in vista della Georgia del Sud. 

Una tempesta li costringe a lottare nove ore per potersi avvicinare a terra ma, finalmente, il 10 maggio sbarcano. Le stazioni baleniere si trovano però sul versante opposto dell’isola. Di circumnavigarla non se ne parla, a causa dei venti dominanti e della costa rocciosa e piena di insidie. Anche l’entroterra non scherza però: l’area non è mai stata esplorata ed è composta da montagne ghiacciate.

Shackleton, insieme a due membri dell’equipaggio, trasforma le scarpe in ramponi infilando dei chiodi nelle suole e senza altro equipaggiamento percorre, in sole 36 ore, gli oltre trenta chilometri che separano il loro punto di atterraggio dalla base di Stromness.

 Qui viene accolto dagli increduli balenieri, che forse pensano di avere davanti a loro dei fantasmi… Organizzare i soccorsi per i ventidue uomini di equipaggio rimasti sull’Isola di Elephant non è per niente facile: il Regno Unito è impegnato nella Prima Guerra Mondiale e Shackleton capisce che non arriverà alcun aiuto dalla patria.

 Cerca dunque un appoggio in Sud America. Il 30 agosto, quattro mesi dopo la partenza dall’Isola di Elephant, l’esploratore irlandese riesce a raggiungere tutti i ventidue naufraghi a bordo di una nave militare cilena.

A portare di diritto Shackleton nell’Olimpo degli esploratori non è solo l’incredibile traversata a vela sulla James Caird, ma il fatto che, nonostante le incredibili traversie, non perde nessun membro della spedizione. 

Non pago delle sue esperienze, Shackleton salpa per l’Antartide, ancora una volta, nel 1921 a bordo della nave Quest.

 Ormai è un mito e il giorno della partenza da Londra viene salutato da una folla festante. Ma nel porto di Grytvyken, nella Georgia del Sud (chiamatelo destino), ha un attacco cardiaco e muore.

 Mentre il suo corpo era in viaggio per l’Inghilterra, la moglie dà disposizioni affinché venga sepolto proprio nel cimitero di Grytvyken. La sua vera casa.

Fonte: giornaledellavela