sabato 29 ottobre 2022

A Stabiae riemerge l’antico sistema idrico


 Anche l’antica Stabiae rivela eccezionali reperti che raccontano la vita quotidiana di epoca romana.

 Elementi del sistema idrico sono riemersi nel corso dei lavori per la fruizione ampliata e l’abbattimento delle barriere architettoniche in corso a Villa Arianna.

Tra gli elementi tornati alla luce vi è un serbatoio in piombo decorato.

 La pulizia archeologica condotta nel peristilio piccolo (giardino colonnato) della villa ha permesso di riportare nuovamente alla luce questo elemento. Era già stato individuato circa un decennio fa. Faceva parte dell’antico sistema di distribuzione dell’acqua all’interno dell’edificio.

Il serbatoio, in particolare, rappresenta uno straordinario rinvenimento per l’area vesuviana, per lo stato di conservazione e perché rinvenuto nella sua posizione originaria.

 Consente, insieme agli altri tratti rinvenuti, di apprezzarne il funzionamento, ovvero quello sia di regolare il flusso dell’acqua sia di smistarlo nei vari ambienti della villa.

Collegate al pezzo centrale sono emerse due tubazioni che alimentavano rispettivamente l’impianto termale della villa e il gioco d’acqua. Quest’ultimo abbelliva l’impluvio (vasca centrale di raccolta delle acque) presente nell’atrio. Le decorazioni ornavano la struttura che doveva essere parzialmente a vista, per permettere l’accesso alle due chiavi di arresto. Queste consentivano di regolare il flusso dell’acqua o di chiuderlo completamente per permettere le operazioni di manutenzione degli impianti.


“Un serbatoio come questo – spiega il direttore del Parco archeologico di Pompei Gabriel Zuchtriegel –, con le sue chiavi di arresto, rientra in quella tipologia di impianti e apprestamenti che possono sembrare quasi moderni per come sono fatti e che hanno sempre destato stupore sin dalle prime scoperte tra Stabia, Pompei e Oplontis.

 Gli antichi anche in questo caso non hanno rinunciato a un elemento ornamentale, un astragalo in rilievo, che forse caratterizzava la bottega che l’ha prodotto, a mo’ di un marchio moderno, e che in ogni caso doveva essere visibile, poiché il serbatoio fu collocato al di sopra del livello di calpestio. Un ulteriore esempio di come accessibilità, conoscenza e tutela si integrano, che andremo a raccontare al pubblico in corso d’opera nell’ambito dei cantieri aperti del Parco“.

Fonte: meteoweb

Ponte degli immortali. Cina


 È chiamato ponte degli immortali perché collega due grandi speroni di roccia della Montagna Gialla che una leggenda racconta siano, in realtà, due giganti tramutati in pietra da un dio per renderli immortali.

 Si trova nella provincia meridionale di Anhui, nella Cina orientale, sospeso a 800 m. A parte la leggenda che gli ruota intorno, si tratta comunque del ponte sospeso più alto del mondo.

Inutile dire che la vista è mozzafiato, con le montagne di granito che toccano le nuvole e il precipizio impressionante sotto di voi. A volte le nuvole avvolgono completamente il luogo fornendo un incredibile senso di mistero al sito. Queste rocce fanno parte del cosiddetto Monte Tai che supera i 1500 metri non lontano dalla costa orientale della Repubblica Cinese, ed è Patrimonio dell’Umanità . Essendo una delle cinque più importanti montagne sacre della Cina, sono molti i turisti e fedeli che vengono qui, soprattutto per compiere il vertiginoso percorso che conduce fino alla Porta Celeste del Sud, da dove si contemplano le più belle albe dell’estremo oriente
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venerdì 16 settembre 2022

Il giardino di vetro che sembra uscito da una favola


 Per scoprire ed esplorare quello che uno dei luoghi più suggestivi del mondo intero dobbiamo recarci a Seattle, la più grande città dello Stato di Washington. È qui, tra le maestose sedi di Microsoft e Amazon, e all’ombra del futuristico Space Needle, che si snoda un giardino delle meraviglie che sembra dare vita agli scenari delle favole più belle.

Situato nel Seattle Center, proprio accanto all’edificio Space Needle, c’è Chihuly Garden and Glass, un giardino di vetro che espone in maniera permanente tutte le straordinarie opere dello scultore Dale Chihuly. 

Sin dalla sua inaugurazione, avvenuta nel 2021, questo inedito orto botanico ha catturato l’attenzione dei cittadini, diventando un’attrazione imperdibile per tutti i viaggiatori che giungono in città.


Il nome, tanto evocativo quanto calzante, non è che un preludio all’esperienza meravigliosa che si vive all’interno di questo giardino.

 Ad accogliere i visitatori sono le sculture di Dale Chihuly, che si muovono sinuose e armoniose all’interno di una vegetazione rigogliosa e lussureggiante.

La passeggiata all’interno del giardino è affascinante, suggestiva e seducente perché consente agli ospiti di esplorare un terreno inedito e di toccare con mano una sperimentazione perfettamente riuscita, quella della convivenza tra l’arte e la natura.

Tutta l’esperienza è scandita dai due elementi principali che caratterizzano questo giardino che è anche un museo: da una parte la natura, in tutta la sua genuina bellezza, dall’altra l’artificio che la valorizza, che con i suoi giochi di luce e riflessi la fa brillare come non ha fatto mai.



Il Chihuly Garden and Glass è un giardino e un museo, è un luogo dove la natura e le sculture di vetro soffiato creano un mondo inedito e onirico, che affascina e stupisce a ogni passo. 

Non è una semplice immersione all’interno di un universo che ospita l’arte e la natura, ma una vera e propria esperienza sensoriale che lascia senza fiato.

Entrare all’interno del Chihuly Garden and Glass vuol dire avvicinarsi alla mente del genio creativo Dale Chihuly, vuol dire toccare con mano le sue visioni, le stesse che però lasciano ampio spazio alle personali suggestioni dei visitatori.

Sono tante, tantissime, le sculture che si snodano lungo sentieri incorniciati da una natura più rigogliosa che mai. La esaltano, la valorizzano e l’accompagnano in un percorso che l’ospite è chiamato a fare, lo fanno con le loro forme stravaganti, con i colori cangianti, con quei lineamenti che proprio alla natura sono ispirati.

Il percorso espositivo attraversa diverse stanze. Sono nere, ma mai cupe, perché sempre illuminate dalle sculture di vetro soffiato da Dale Chihuly che omaggiano e celebrano la natura. Ma restano ancora confinate in un mondo immaginato e artificiale, almeno fino a quando non si arriva alla serra, l’ambiente più suggestivo dell’intero giardino.

È qui che gli elementi artistici diventano gli assoluti protagonisti di una realtà inedita. Piante scintillanti di vetro che sembrano muoversi col vento, ma che in realtà sono immobili, scendono verso il basso. L’incanto continua anche all’esterno, dove un meraviglioso giardino che accoglie i visitatori continua a mescolare le visioni che già conosciamo attraverso un gioco di forme, colori, e materiali, artificiali e naturali. 

È magia!


Fonte: siviaggia

sabato 3 settembre 2022

Le piramidi di Giza costruite grazie a un ramo del Nilo ormai scomparso


 Secondo recenti scoperte le tre maestose piramidi della necropoli di Giza, Cheope, Chefren e Micerino, situate alla periferia occidentale del Cairo, in Egitto, sono state costruite grazie ad un ramo ormai scomparso del fiume Nilo, attraverso il quale è stato possibile trasportare i materiali necessari: grazie a granuli di polline antico, è stato infatti possibile tracciare le variazioni nei livelli dell’acqua di questo tratto per oltre 8.000 anni di storia dinastica egiziana, scoprendo che all’epoca della realizzazione delle piramidi, tra 2686 e 2160 a.C., il corso d’acqua era ancora navigabile.

La scoperta, pubblicata sulla rivista dell’Accademia nazionale delle scienze statunitense (Pnas), è stata portata a termine da un gruppo di ricercatori guidati dal Centro Europeo per la Ricerca e l’Insegnamento delle Geoscienze Ambientali (Cerege), in Francia. Gli scienziati, guidati da Hader Sheisha, hanno analizzato i granuli di polline presenti in carote di terreno estratte dall’attuale pianura alluvionale che un tempo ospitava il ramo del Nilo: in questo modo hanno ricostruito la tipologia di vegetazione presente all’epoca, che svela gli innalzamenti e abbassamenti delle acque avvenuti nel corso del tempo.

Secondo i dati ottenuti il livello dell’acqua è aumentato molto durante il cosiddetto Periodo Umido Africano (Ahp), tra circa 14.800 e 5.500 anni fa, che vide la sostituzione di gran parte del territorio desertico del Sahara con graminacee, alberi e laghi e fu causata da variazioni nell’orbita della Terra attorno al Sole. In seguito il braccio scomparso del Nilo si ridusse nuovamente, restando comunque navigabile per molto tempo, e consentendo il trasporto di merci utili alla costruzione delle piramidi di Giza. Secondo gli autori dello studio, la scoperta apre nuove prospettive sulle condizioni ambientali che hanno favorito la realizzazione dei monumenti faraonici.

Fonte: meteoweb

venerdì 12 agosto 2022

Affascinante sorpresa a Roma! Dagli scavi lungo la Tiburtina spunta un ponte di età imperiale


 A Roma le sorprese non finiscono mai. 

L’ultima emozionante scoperta è avvenuta nel corso dei lavori per l’allargamento della Tiburtina, effettuati dalla Soprintendenza Speciale della capitale. Durante gli scavi, all’altezza dell’undicesimo chilometro della via moderna e al VII miglio di quella antica, è venuta alla luce un antico ponte, che – secondo le prime ricostruzioni – sembrerebbe risalire all’epoca imperiale.

In queste ore le spettacolari immagini del ritrovamento archeologico stanno facendo il giro dei social, destando stupore e curiosità tra gli appassionati.




In base a quanto riferito dagli esperti, la struttura romana – che si trova a circa 4 metri sotto il livello della strada attuale – era impiegata per attraversare il Fosso di Pratolungo, poco prima della confluenza nel fiume Aniene.

Come chiarito dalla Soprintendenza della capitale, gli scavi hanno messo in luce la porzione centrale dell’arcata a tutto sesto del ponte realizzata con possenti blocchi di travertino, fissati tra di loro mediante incavi rettangolari e rinforzati esternamente da uno spesso strato di cementizio. L’arcata è stata ritrovata senza la parte centrale, una peculiarità da attribuire alla risistemazione dell’area in età medioevale e rinascimentale, quando la struttura venne demolita parzialmente.

Fonte: Soprintendenza Speciale Roma 

sabato 6 agosto 2022

Venezia, trovato un allevamento di ostriche di epoca romana in laguna


 Che gli antichi Romani si trattassero bene è cosa risaputa, certo; ma che addirittura nel periodo tra il primo e secondo secolo d.C. avessero veri e propri allevamenti di ostriche, questo è sensazionale. Oltretutto se si pensa che il sito in questione è una villa romana dotata di confort e bellezze tali da fare impallidire quelle attuali.

 La “Villa romana di Lio Piccolo” era dotata di bacini per l’acquacoltura, in particolare per l’allevamento di ostriche. Questa ipotesi è al centro delle ricerche che stanno impegnando il team interdisciplinare nella seconda campagna di scavo archeologico subacqueo.

 Gli studi si stanno svolgendo sul sito lagunare di Lio Piccolo, nel comune di Cavallino Treporti, in provincia di Venezia. 

Scoperto due decenni fa dall’archeologo Ernesto Canal, oggi le indagini su questo sito degli antichi Romani sono dirette dal professore di archeologia marittima del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Carlo Beltrame.

 Il professore e il suo staff lavorano in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna. E, a quanto pare, gli sforzi compiuti dagli archeologi stanno dando frutti (di mare) davvero molto interessanti. 

Il progetto pluriennale archeo-subacqueo coinvolge anche studenti con idoneo brevetto di immersione. Gli aspiranti archeologi hanno avuto dunque l’opportunità di formarsi in sicurezza, con corsi subacquei appositi. 

All’impresa hanno preso parte anche Paolo Mozzi, geomorfologo e geoarcheologo del Dipartimento di Geoscienze dell’Università degli Studi di Padova ed Elisabetta Boaretto, specialista in analisi al radiocarbonio del Weizmann Institute di Rehovot.


I primi scavi risalgono esattamente ad un anno fa, quando i ricercatori scoprirono alcune palafitte e strutture murarie segnalate vent’anni fa da Ernesto Canal.

 Queste si trovano a poche decine di metri dall’argine di Lio Piccolo, lungo Canale Rigà. Con questa nuova campagna archeologica gli studiosi sono riusciti finalmente ad interpretare e datare quanto visto negli scavi antecedenti di un anno fa.

 Numerosi resti di affreschi di pregio e mosaici bianchi e neri, degli antichi Romani, inoltre, sono attualmente soggetto di analisi ad opera di Alessandra De Lorenzi, chimico-fisica dell’ateneo veneziano.

 Sul fondale di questo tratto di laguna, gli archeologi hanno dunque trovato una vasca in mattoni sesquipedali di forma rettangolare. Tramite le analisi al radiocarbonio, l’antico bacino è databile al 1° e 2° secolo d.C.. La particolare struttura romana era sommersa nelle acque e serviva per la coltivazione e conservazione dei pregiati molluschi

Un vero allevamento di ostriche della prima età imperiale. Questi molluschi bivalvi sono rimasti conservati fino a noi sul fondo della vasca, resistendo a duemila anni di mareggiate ed eventi naturali o umani.


Vi è però nel sito qualcosa che ha contribuito maggiormente alla curiosità degli studiosi.

 Il ritrovamento di un gargame in legno, infatti, forse suddivideva lo spazio della vasca come una saracinesca. Questo elemento suggerirebbe quindi l’ipotesi che, nelle acque della villa romana, non vi fosse unicamente l’allevamento di ostriche, ma bensì i nostri antenati potrebbero aver coltivato anche altre succulenti specie

Come spiega Carlo Beltrame, “nel mondo romano le ostriche erano molto apprezzate e allevate, anche se forse già adulte, in Gallia e nella penisola italiana. Come ricorda Cicerone, famose erano quelle allevate nel Lago Lucrino da Sergio Orata. Gli autori degli antichi Romani ci parlano anche delle ostriche dell’Istria ma non menzionano Altino, dove però ostriche sono emerse da vari scavi della città romana. 

Non stupisce quindi trovarle a Lio Piccolo, ossia in una località che in età romana doveva essere in prossimità del litorale, in condizioni ideali per la loro crescita”.

Fonte: ilprimatonazionale.it

venerdì 1 luglio 2022

La secca del Tevere fa riemergere le rovine del Ponte Neroniano


 La secca del fiume Tevere ha fatto riemergere le rovine del Ponte Neroniano, costruito durante l’impero di Nerone, e situato di fronte a Castel Sant’Angelo. 

Noto anche come Ponte Trionfale o Vaticano, consentiva all’antica via Trionfale, asse della viabilità del Vaticano in epoca romana, di attraversare il Tevere. Realizzato nel I secolo d.C., il Ponte collegava il Campo Marzio con l’Ager Vaticanus, consentendo all’antica via Trionfale di attraversare il fiume Tevere in direzione di Veio. Presso il Vaticano si trovavano le proprietà dell’imperatore Nerone (tra cui la villa della madre Agrippina), il circo di Caligola e la via Cornelia che passava davanti Castel Sant’Angelo.


Distrutto probabilmente all’epoca della Guerra gotica nella metà del VI secolo, il ponte Neroniano avrebbe dovuto essere ricostruito per Giulio II della Rovere, col nome di ponte Giuliano, per collegare via della Lungara con la sua via Giulia sulla riva opposta, ma tale progetto rimase irrealizzato.

Fonte: meteoweb

mercoledì 1 giugno 2022

Una piccola stupenda fontana


 Roma ospita centinaia di fontane, molte delle quali costituiscono inimitabili capolavori. La celeberrima Fontana di Trevi, la maestosa Fontana delle Naiadi a Piazza della Repubblica, la superba Fontana del Tritone a Piazza Barberini. E proprio davanti a quest'ultima autentica meraviglia, sorge la quasi sconosciuta Fontana delle Api.

Costruita con marmo lunense (il marmor lunensis è il pregiato marmo di Carrara, prese questo nome per via delle spedizioni che partivano dal porto di Luni, vicino La Spezia) e situata originariamente all'angolo con Via Sistina sullo stipite dell'edificio di Palazzo Soderini, questa piccola e deliziosa fontana, simbolo dell'arte romana barocca, ha una storia piuttosto interessante.

 La sua costruzione fu commissionata a Gian Lorenzo Bernini da Papa Urbano VIII, membro della famiglia Barberini. 

La Fontana delle Api fu messa in opera nel 1644 mediante un meccanismo idrodinamico che sfruttava la canalizzazione dell'acqua di "scarico" proveniente dalla Fontana del Tritone (anche questa disegnata da Bernini nei mesi precedenti).


Utilizzata inizialmente come abbeveratoio sia per la popolazione che per gli animali, il disegno che Bernini progettò per la fontana era quello di conchiglia aperta.

 La valva inferiore costituiva il catino, mentre sulla base di quella superiore erano presenti le tre api da cui sgorgava l'acqua proveniente dall'acquedotto Felice e che costituivano il blasonato simbolo del casato dei Barberini.

Nel 1867 fu smontata per facilitare la viabilità cittadina, rivoluzionata dalla costruzione di nuovi quartieri limitrofi e dall'allargamento delle strade che percorrevano l'area, a quel tempo situata all'estrema periferia della città. 

I pezzi della fontana furono relegati nei magazzini del comune fino al 1919, anno in cui il sindaco Apolloni ne fece iniziare la ricostruzione. Una volta ultimata nel 1920, l'opera fu collocata nella posizione attuale, all'angolo di Piazza Barberini con Via Veneto, in una posizione talmente defilata da renderne non immediata l'individuazione.

Pochi furono i pezzi originali ritrovati integri al momento della ricostruzione, motivo per cui si decise di sostituire quelli mancanti utilizzando blocchi di travertino prelevati da Porta Salaria, poco prima della sua definitiva demolizione nel 1921 (attualmente, il posto dove sorgeva la porta è occupato da Piazza Fiume).

 Dal 2000 sono stati effettuati diversi restauri, causati soprattutto da svariati atti di vandalismo che ne hanno ripetutamente danneggiato la struttura.


In passato, la fontana scatenò mordacità e sarcasmo. Infatti, fu ironicamente soprannominata dai romani fontana "delle mosche", alludendo al fastidio provato nei confronti di una famiglia potente e bramosa di ricchezza come quella del committente. 

Secondo alcune indiscrezioni dell'epoca, si diceva in giro che la fontana prelevasse acqua in grandi quantità dalla vasca e ne restituisse solamente una piccola parte dalle api da cui sgorgava. Metaforicamente, si alludeva ai salatissimi tributi che i romani erano obbligati a pagare ottenendo in cambio pochi benefici in termini di opere di pubblica utilità. Insomma, la storia si ripete...

Anche questa, come la maggior parte delle opere d'arte, è circondata da un alone di leggenda.

 Pare che per l'inaugurazione, il committente avesse fatto scolpire sulla fontana la frase: "Papa Urbano l'aveva fatta edificare nell'anno XXII del suo pontificato". Ma il Papa era ancora nel suo XXI anno, a soli due mesi dall'inizio del XXII. Da questo fatto prese spunto l'ironia dei romani, scomodando addirittura Pasquino con la nota frase "havendo li Barberini succhiato tutto il mondo, ora vogliono succhiare anche il tempo". 

Per non dare adito a questi moti di sarcasmo, la frase fu leggermente modificata per volere del Cardinale nipote del Papa, che fece scomparire la seconda I. Ed ecco per i romani una ennesima occasione per ironizzare, spargendo la voce che il Cardinale avesse voluto lanciare malasorte al Papa, augurandogli di non arrivare al XXII anno di pontificato.

 Leggenda o realtà che fosse, Papa Urbano VIII morì qualche mese dopo il "ritocco" apportato dal nipote!

Fonte: ezrome.it

domenica 29 maggio 2022

L’Appartamento Segreto di Gustave Eiffel in cima all’omonima Torre


 Quando fu inaugurata la Torre Eiffel, in occasione dell’Expo del 1889, il progettista Gustave Eiffel divenne celebre per il proprio lavoro, sia a Parigi sia all’estero. L’ingegnere però non volle rinunciare alla possibilità di costruire uno spazio, al terzo piano della torre di Parigi, che fosse riservato soltanto a se stesso. L’appartamento privato di Eiffel non era grande, ma accogliente ed ambitissimo da parte di tutta l’élite parigina, che sognava di vedere la città da oltre 300 metri di altezza.


Situato al terzo piano della torre, l’appartamento privato di Eiffel non era grande, ma assai accogliente. 

In contrapposizione con le travi d’acciaio del resto della torre, l’appartamento era arredato con uno stile semplice, le pareti ricoperte di carta da parati e i mobili scelti in stile tradizionale dell’artigianato francese.

 All’interno era presente anche un pianoforte a coda, che contribuiva a creare un ambiente che, nel suo complesso, trasmetteva un senso di tradizionalità e comfort. 

Adiacenti al piccolo appartamento si trovano alcune stanze adibite a laboratorio scientifico.



Una volta che la voce dell’appartamento di Eiffel si sparse, l’élite parigina diventò verde per l’invidia, arrivando a offrire allo scienziato cifre folli per affittare, anche solo per una notte, il piccolo rifugio. 

Eiffel rifiutò qualsiasi offerta, utilizzando lo spazio come luogo di riflessione e intrattenendo ospiti del calibro di Thomas Edison, che gli regalò una delle sue macchine fonografe presentate durante la stessa Expo del 1889.

Dopo essere stato chiuso per decenni, l’appartamento è messo in mostra per i visitatori che raggiungono la vetta della Torre. Gran parte degli arredi sono originali, e all’interno ci sono due manichini con le sembianze di Eiffel ed Edison impegnati in un dibattito scientifico.

Fonte: vanillamagazine

martedì 24 maggio 2022

Il 17 maggio 1902 veniva scoperto uno degli oggetti più misteriosi di sempre: la Macchina di Anticitera


 La Macchina di Anticitera, o Meccanismo di Anticitera, prende il nome dall’isola greca omonima che noi conosciamo anche come Cerigotto e presso la quale fu rinvenuto il relitto di Anticitera, una nave che nel I secolo a.C. naufragò nei pressi delle coste dell’isola. Tra i resti del relitto erano presenti numerosi reperti, ma è questo il più meritevole di attenzione che oggi viene custodito dal Museo archeologico di Atene e che fu a lungo considerato un mistero da risolvere.

Il ritrovamento della nave avvenne nella primavera del 1900 a seguito della segnalazione da parte di pescatori di spugne dell’isola di Symi che avevano perso la rotta a causa di una tempesta. 

Costretti a trovare riparo presso l’isoletta rocciosa di Cerigotto scoprirono a largo dell’isola il relitto di una nave a circa 43 metri di profondità. La nave era databile agli inizi del I secolo a.C. e trasportava numerosi oggetti di valore, tra cui statue di marmo e bronzo, oggetti di vetro dalle fattezze uniche, gioielli, monete e ceramiche, ma anche le componenti di un oggetto che appariva del tutto incomprensibile.


La prima spedizione per il recupero dei beni al largo di Point Glyphadia fu effettuata da parte della marina ellenica tra il 1900 e il 1901, e per esaminare i reperti salvati dal Relitto di Anticitera fu chiamato l’archeologo Valerios Stais, il quale notò subito che in un blocco di pietra era inserito un ingranaggio interno, era il 17 maggio 1902 ed era stata riconosciuta la Macchina di Anticitera.

Non si sa bene come il meccanismo sia giunto sulla nave da carico ma tra le ipotesi plausibili c’è la possibilità che venne portato da Rodi a Roma con altri oggetti saccheggiati da parte dei romani.


Le prime ipotesi di Stais propesero subito per un oggetto di tipo astronomico, probabilmente un qualche tipo di orologio, tuttavia, la maggior parte degli studiosi era convinta che si trattasse di un dispositivo procronistico da considerare quindi in anticipo rispetto agli altri oggetti che erano stati scoperti come appartenenti a quel determinato periodo e perciò anche troppo complesso da decifrare.

Le indagini sulla Macchina di Anticitera, in effetti, furono abbandonate sino agli anni ’50, quando lo storico della scienza Derek J. De Solla Price, professore dell’Università di Yale, si interessò nuovamente a quell’oggetto misterioso. 

Lo stesso Price nel 1971 insieme a Charalampos Karakalos, un fisico nucleare, sottopose a un’indagine a raggi X gli 82 frammenti del reperto e finalmente nel 1974 pubblicò un ampio articolo di ben 70 pagine sulla macchina.

Il Meccanismo di Anticitera è considerato il primo calcolatore meccanico, la cui complessità si deve spiegare con la presenza di altre macchine che lo precedettero e non sono mai state ritrovate seppure certamente realizzate durante il periodo ellenistico. 

Le teorie alla base della macchina sono da rintracciarsi nelle materie astronomiche e matematiche su cui a lungo si concentrarono gli scienziati greci in particolare durante il II-I secolo a.C..

Nonostante al tempo della Grecia ellenistica esistesse una tradizione tecnologica avanzata e durante quest’epoca molti studiosi si dedicarono ad aspetti meccanici e automi come la celebre macchina a vapore di Erone o la macchina circolare di Archimede (anch’essa riproducente il moto dei pianeti, del sole e della luna, nonché le eclissi dell’ultima), la singolarità della Macchina di Anticitera fa si che il complesso progetto che ne è alla base lo faccia considerare un manufatto fuori dal tempo.

Si tratterebbe secondo alcuni di un caso di OOOPArt (Out of Place Artifacts) caldeggiata dai sostenitori dell’archeologia misteriosa che non vi riconoscono fantasiosamente un manufatto ascrivibile all’età ellenistica ma ad una civiltà tecnologicamente più avanzata.

Dell’originaria Macchina di Anticitera sopravvivevano 3 parti principali e numerosi frammenti minori per un numero pari a 82 frammenti totali. 

Si trattava di una serie di ruote dentate, ricoperte da iscrizioni (circa 2000 caratteri di cui si è decifrato il 95%) che erano parte di un meccanismo ad orologeria.

 Le dimensioni della macchina erano di 30 cm per 15 cm e il materiale di costruzione era il rame inserito in una cornice di legno, il sistema funzionava probabilmente grazie all’uso di una manovella.

Si trattava di un meccanismo per calcolare il calendario solare e lunare grazie a una ventina di ruote dentate che potevano riprodurre il ciclo metonico cioè il rapporto di 254:19 che riproduce il moto della Luna in rapporto al Sole, poiché il nostro satellite compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari.

A un secolo e oltre da quel 17 maggio 1902 il Meccanismo di Anticitera continua a riservare sorprese, infatti, nel 2008 Alexander Jones, dell’Istituto per gli studi sul Mondo Antico di New York, riuscì a tradurre alcune iscrizioni scoprendo che i nomi dei mesi sullo strumento erano quelli utilizzati nelle colonie corinzie, in particolare il macchinario fu probabilmente realizzato a Siracusa.

 Le più recenti indagini, invece, propendono per Pergamo come sito di costruzione.

Nel 2010 gli studiosi sono riusciti a scoprire che la macchina era in grado di calcolare anche le eclissi, il moto dei 5 pianeti osservabili a occhio nudo al tempo della sua realizzazione e si è addirittura compreso che indicava le date delle Olimpiadi e dei giochi panellenici associati alle stesse. Tutti elementi fondamentali per un popolo che calibrava la propria vita e le proprie decisioni politiche su quello che avveniva nel cielo.


Gli archeologi sono convinti che recuperando altri possibili frammenti sia possibile trarre altre informazioni su questo magnifico oggetto e proprio per questo una nuova campagna di scavi quinquennale è in svolgimento dal 2020, non ci resta che attendere per scoprire cosa questa potrà riservarci.

Fonte: meteoweb

domenica 15 maggio 2022

Scoperto tra i ghiacci della Norvegia un antico sandalo in stile romano


 Non è la prima volta che lo scioglimento dei ghiacci riporta alla luce oggetti e animali del passato: era già successo con il corpo di un orso vissuto durante il Pleistocene e con la testa di un lupo di oltre 40.000 anni fa. 

Ora i ghiacci discioltisi in una zona chiamata Horse Ice Patch, nei pressi di Oppland, in Norvegia, hanno rivelato un sandalo indossato da un uomo vissuto 1700 anni fa e abbandonato - i ricercatori ipotizzano volontariamente - prima di proseguire il cammino.

La scarpa, tipica della moda romana dell'epoca, ha permesso agli archeologi di Secrets of the Ice (un gruppo di scienziati specializzati nei ritrovamenti tra i ghiacci) di svelare nuovi dettagli sulla cosiddetta età del ferro romana (1-400 d.C.), epoca in cui le regioni dell'Europa settentrionale vennero influenzate dagli usi e i costumi dell'Impero Romano.


Secondo quanto rilevato dalla datazione al radiocarbonio, il sandalo in pelle sarebbe stato abbandonato dal suo proprietario perché ormai consumato: si trattava di una variante della famosa carbatina romana  una scarpa senza suola costituita da un unico pezzo di pelle grezza.
 «È piuttosto sorprendente trovare un sandalo in stile romano a quasi 2000 metri di altezza», commenta a Science Norway Espen Finstad, l'archeologo che con il suo team ha rinvenuto il calzare.

Il passo di Lendbreen, nei pressi del quale è stato rinvenuto il sandalo, era una zona trafficata durante l'epoca vichinga, attorno al 1000 d.C.: «Era un periodo di grande mobilità: iniziavano i primi scambi commerciali tra la Scandinavia e l'Europa», spiega James Barrett, archeologo all'Università di Cambridge. 

Il luogo preciso del ritrovamento, l'Horse Ice Patch, a 2000 metri di altezza era un luogo di collegamento tra l'entroterra norvegese e la costa: «Le persone che arrivavano qui dovevano avere degli interessi, forse commerciali», spiega Finstad, «si spostavano verso la costa per vendere corna, pelli di animali e cuoio, e tornavano nell'entroterra con sale e altra merce».

Secondo gli esperti di Secrets of the Ice le scoperte sono solo all'inizio.

Fonte: www.focus.it


sabato 14 maggio 2022

Antichi traffici di olio e vino: gli straordinari reperti riemersi in Puglia


 Un naufragio è un dramma: vite spezzate, storie perse per sempre in fondo al mare, speranze svanite negli abissi. 

Eppure, spesso è proprio grazie ai naufragi di antiche navi se molti oggetti, molte storie, molti elementi dell’antico passato possono essere conosciuti, studiati e analizzati ancora oggi. 

E’ il caso di quanto rinvenuto di recente nei fondali al largo di Brindisi, in Puglia.

 Dal paesaggio archeologico dei fondali della Baia dei Camerini, a Torre Santa Sabina, sono infatti riemerse testimonianze sulle rotte della commercializzazione in Salento di olio e vino in età antica. Si trattava di prodotti provenienti dall’Egeo e dalle coste dell’Anatolia.


Le recenti ricerche dell’Università del Salento stanno incessantemente portando alla luce una serie di scoperte, con oggetti rinvenuti nei fondali di questa ‘ricca’ zona dell’Adriatico, dove sono rimasta celati e custoditi per millenni.

 L’approdo di Torre Santa Sabina è un sito archeologico tra i più complessi e stratificati. La nave più antica, di età tardoarcaica (fine VI – inizi V sec. a.C.) chiamata “TorreSantaSabina3“, ha percorso rotte ionico-adriatiche, trasportando anfore e raffinati servizi da tavola. Questi ultimi sono in realtà solo alcuni degli elementi emersi nel corso delle attività che da mesi sono in corso in questo tratto del litorale brindisino. 

Nello strato più profondo della sabbia sono stati rinvenuti, in posizione capovolta a causa del naufragio, crateri, brocche, coppe e tazze per mescere e bere il vino, mentre il carico principale era il contenuto delle anfore, destinate prevalentemente al trasporto del vino e in secondo luogo dell’olio.

I prodotti provenivano da svariati luoghi della Grecia e dell’Italia meridionale: si trattava di “beni di lusso” molto richiesti anche dalle popolazioni che vivevano in Puglia durante l’Età arcaica, come i Messapi nel Salento.

 Di questo periodo fa parte probabilmente anche un altro carico proveniente dal Mediterraneo orientale (V-VI sec. d.C.). Le ricerche che si stanno sviluppando a Torre Santa Sabina saranno oggetto di approfondimento dal 3 al 5 giugno, tra Lecce e Porto Cesareo, nel corso dell’evento finale di UnderwaterMuse – Immersive Underwater Museum experience for a wider inclusion.

Fonte: meteoweb.eu