domenica 29 maggio 2022

L’Appartamento Segreto di Gustave Eiffel in cima all’omonima Torre


 Quando fu inaugurata la Torre Eiffel, in occasione dell’Expo del 1889, il progettista Gustave Eiffel divenne celebre per il proprio lavoro, sia a Parigi sia all’estero. L’ingegnere però non volle rinunciare alla possibilità di costruire uno spazio, al terzo piano della torre di Parigi, che fosse riservato soltanto a se stesso. L’appartamento privato di Eiffel non era grande, ma accogliente ed ambitissimo da parte di tutta l’élite parigina, che sognava di vedere la città da oltre 300 metri di altezza.


Situato al terzo piano della torre, l’appartamento privato di Eiffel non era grande, ma assai accogliente. 

In contrapposizione con le travi d’acciaio del resto della torre, l’appartamento era arredato con uno stile semplice, le pareti ricoperte di carta da parati e i mobili scelti in stile tradizionale dell’artigianato francese.

 All’interno era presente anche un pianoforte a coda, che contribuiva a creare un ambiente che, nel suo complesso, trasmetteva un senso di tradizionalità e comfort. 

Adiacenti al piccolo appartamento si trovano alcune stanze adibite a laboratorio scientifico.



Una volta che la voce dell’appartamento di Eiffel si sparse, l’élite parigina diventò verde per l’invidia, arrivando a offrire allo scienziato cifre folli per affittare, anche solo per una notte, il piccolo rifugio. 

Eiffel rifiutò qualsiasi offerta, utilizzando lo spazio come luogo di riflessione e intrattenendo ospiti del calibro di Thomas Edison, che gli regalò una delle sue macchine fonografe presentate durante la stessa Expo del 1889.

Dopo essere stato chiuso per decenni, l’appartamento è messo in mostra per i visitatori che raggiungono la vetta della Torre. Gran parte degli arredi sono originali, e all’interno ci sono due manichini con le sembianze di Eiffel ed Edison impegnati in un dibattito scientifico.

Fonte: vanillamagazine

martedì 24 maggio 2022

Il 17 maggio 1902 veniva scoperto uno degli oggetti più misteriosi di sempre: la Macchina di Anticitera


 La Macchina di Anticitera, o Meccanismo di Anticitera, prende il nome dall’isola greca omonima che noi conosciamo anche come Cerigotto e presso la quale fu rinvenuto il relitto di Anticitera, una nave che nel I secolo a.C. naufragò nei pressi delle coste dell’isola. Tra i resti del relitto erano presenti numerosi reperti, ma è questo il più meritevole di attenzione che oggi viene custodito dal Museo archeologico di Atene e che fu a lungo considerato un mistero da risolvere.

Il ritrovamento della nave avvenne nella primavera del 1900 a seguito della segnalazione da parte di pescatori di spugne dell’isola di Symi che avevano perso la rotta a causa di una tempesta. 

Costretti a trovare riparo presso l’isoletta rocciosa di Cerigotto scoprirono a largo dell’isola il relitto di una nave a circa 43 metri di profondità. La nave era databile agli inizi del I secolo a.C. e trasportava numerosi oggetti di valore, tra cui statue di marmo e bronzo, oggetti di vetro dalle fattezze uniche, gioielli, monete e ceramiche, ma anche le componenti di un oggetto che appariva del tutto incomprensibile.


La prima spedizione per il recupero dei beni al largo di Point Glyphadia fu effettuata da parte della marina ellenica tra il 1900 e il 1901, e per esaminare i reperti salvati dal Relitto di Anticitera fu chiamato l’archeologo Valerios Stais, il quale notò subito che in un blocco di pietra era inserito un ingranaggio interno, era il 17 maggio 1902 ed era stata riconosciuta la Macchina di Anticitera.

Non si sa bene come il meccanismo sia giunto sulla nave da carico ma tra le ipotesi plausibili c’è la possibilità che venne portato da Rodi a Roma con altri oggetti saccheggiati da parte dei romani.


Le prime ipotesi di Stais propesero subito per un oggetto di tipo astronomico, probabilmente un qualche tipo di orologio, tuttavia, la maggior parte degli studiosi era convinta che si trattasse di un dispositivo procronistico da considerare quindi in anticipo rispetto agli altri oggetti che erano stati scoperti come appartenenti a quel determinato periodo e perciò anche troppo complesso da decifrare.

Le indagini sulla Macchina di Anticitera, in effetti, furono abbandonate sino agli anni ’50, quando lo storico della scienza Derek J. De Solla Price, professore dell’Università di Yale, si interessò nuovamente a quell’oggetto misterioso. 

Lo stesso Price nel 1971 insieme a Charalampos Karakalos, un fisico nucleare, sottopose a un’indagine a raggi X gli 82 frammenti del reperto e finalmente nel 1974 pubblicò un ampio articolo di ben 70 pagine sulla macchina.

Il Meccanismo di Anticitera è considerato il primo calcolatore meccanico, la cui complessità si deve spiegare con la presenza di altre macchine che lo precedettero e non sono mai state ritrovate seppure certamente realizzate durante il periodo ellenistico. 

Le teorie alla base della macchina sono da rintracciarsi nelle materie astronomiche e matematiche su cui a lungo si concentrarono gli scienziati greci in particolare durante il II-I secolo a.C..

Nonostante al tempo della Grecia ellenistica esistesse una tradizione tecnologica avanzata e durante quest’epoca molti studiosi si dedicarono ad aspetti meccanici e automi come la celebre macchina a vapore di Erone o la macchina circolare di Archimede (anch’essa riproducente il moto dei pianeti, del sole e della luna, nonché le eclissi dell’ultima), la singolarità della Macchina di Anticitera fa si che il complesso progetto che ne è alla base lo faccia considerare un manufatto fuori dal tempo.

Si tratterebbe secondo alcuni di un caso di OOOPArt (Out of Place Artifacts) caldeggiata dai sostenitori dell’archeologia misteriosa che non vi riconoscono fantasiosamente un manufatto ascrivibile all’età ellenistica ma ad una civiltà tecnologicamente più avanzata.

Dell’originaria Macchina di Anticitera sopravvivevano 3 parti principali e numerosi frammenti minori per un numero pari a 82 frammenti totali. 

Si trattava di una serie di ruote dentate, ricoperte da iscrizioni (circa 2000 caratteri di cui si è decifrato il 95%) che erano parte di un meccanismo ad orologeria.

 Le dimensioni della macchina erano di 30 cm per 15 cm e il materiale di costruzione era il rame inserito in una cornice di legno, il sistema funzionava probabilmente grazie all’uso di una manovella.

Si trattava di un meccanismo per calcolare il calendario solare e lunare grazie a una ventina di ruote dentate che potevano riprodurre il ciclo metonico cioè il rapporto di 254:19 che riproduce il moto della Luna in rapporto al Sole, poiché il nostro satellite compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari.

A un secolo e oltre da quel 17 maggio 1902 il Meccanismo di Anticitera continua a riservare sorprese, infatti, nel 2008 Alexander Jones, dell’Istituto per gli studi sul Mondo Antico di New York, riuscì a tradurre alcune iscrizioni scoprendo che i nomi dei mesi sullo strumento erano quelli utilizzati nelle colonie corinzie, in particolare il macchinario fu probabilmente realizzato a Siracusa.

 Le più recenti indagini, invece, propendono per Pergamo come sito di costruzione.

Nel 2010 gli studiosi sono riusciti a scoprire che la macchina era in grado di calcolare anche le eclissi, il moto dei 5 pianeti osservabili a occhio nudo al tempo della sua realizzazione e si è addirittura compreso che indicava le date delle Olimpiadi e dei giochi panellenici associati alle stesse. Tutti elementi fondamentali per un popolo che calibrava la propria vita e le proprie decisioni politiche su quello che avveniva nel cielo.


Gli archeologi sono convinti che recuperando altri possibili frammenti sia possibile trarre altre informazioni su questo magnifico oggetto e proprio per questo una nuova campagna di scavi quinquennale è in svolgimento dal 2020, non ci resta che attendere per scoprire cosa questa potrà riservarci.

Fonte: meteoweb

domenica 15 maggio 2022

Scoperto tra i ghiacci della Norvegia un antico sandalo in stile romano


 Non è la prima volta che lo scioglimento dei ghiacci riporta alla luce oggetti e animali del passato: era già successo con il corpo di un orso vissuto durante il Pleistocene e con la testa di un lupo di oltre 40.000 anni fa. 

Ora i ghiacci discioltisi in una zona chiamata Horse Ice Patch, nei pressi di Oppland, in Norvegia, hanno rivelato un sandalo indossato da un uomo vissuto 1700 anni fa e abbandonato - i ricercatori ipotizzano volontariamente - prima di proseguire il cammino.

La scarpa, tipica della moda romana dell'epoca, ha permesso agli archeologi di Secrets of the Ice (un gruppo di scienziati specializzati nei ritrovamenti tra i ghiacci) di svelare nuovi dettagli sulla cosiddetta età del ferro romana (1-400 d.C.), epoca in cui le regioni dell'Europa settentrionale vennero influenzate dagli usi e i costumi dell'Impero Romano.


Secondo quanto rilevato dalla datazione al radiocarbonio, il sandalo in pelle sarebbe stato abbandonato dal suo proprietario perché ormai consumato: si trattava di una variante della famosa carbatina romana  una scarpa senza suola costituita da un unico pezzo di pelle grezza.
 «È piuttosto sorprendente trovare un sandalo in stile romano a quasi 2000 metri di altezza», commenta a Science Norway Espen Finstad, l'archeologo che con il suo team ha rinvenuto il calzare.

Il passo di Lendbreen, nei pressi del quale è stato rinvenuto il sandalo, era una zona trafficata durante l'epoca vichinga, attorno al 1000 d.C.: «Era un periodo di grande mobilità: iniziavano i primi scambi commerciali tra la Scandinavia e l'Europa», spiega James Barrett, archeologo all'Università di Cambridge. 

Il luogo preciso del ritrovamento, l'Horse Ice Patch, a 2000 metri di altezza era un luogo di collegamento tra l'entroterra norvegese e la costa: «Le persone che arrivavano qui dovevano avere degli interessi, forse commerciali», spiega Finstad, «si spostavano verso la costa per vendere corna, pelli di animali e cuoio, e tornavano nell'entroterra con sale e altra merce».

Secondo gli esperti di Secrets of the Ice le scoperte sono solo all'inizio.

Fonte: www.focus.it


sabato 14 maggio 2022

Antichi traffici di olio e vino: gli straordinari reperti riemersi in Puglia


 Un naufragio è un dramma: vite spezzate, storie perse per sempre in fondo al mare, speranze svanite negli abissi. 

Eppure, spesso è proprio grazie ai naufragi di antiche navi se molti oggetti, molte storie, molti elementi dell’antico passato possono essere conosciuti, studiati e analizzati ancora oggi. 

E’ il caso di quanto rinvenuto di recente nei fondali al largo di Brindisi, in Puglia.

 Dal paesaggio archeologico dei fondali della Baia dei Camerini, a Torre Santa Sabina, sono infatti riemerse testimonianze sulle rotte della commercializzazione in Salento di olio e vino in età antica. Si trattava di prodotti provenienti dall’Egeo e dalle coste dell’Anatolia.


Le recenti ricerche dell’Università del Salento stanno incessantemente portando alla luce una serie di scoperte, con oggetti rinvenuti nei fondali di questa ‘ricca’ zona dell’Adriatico, dove sono rimasta celati e custoditi per millenni.

 L’approdo di Torre Santa Sabina è un sito archeologico tra i più complessi e stratificati. La nave più antica, di età tardoarcaica (fine VI – inizi V sec. a.C.) chiamata “TorreSantaSabina3“, ha percorso rotte ionico-adriatiche, trasportando anfore e raffinati servizi da tavola. Questi ultimi sono in realtà solo alcuni degli elementi emersi nel corso delle attività che da mesi sono in corso in questo tratto del litorale brindisino. 

Nello strato più profondo della sabbia sono stati rinvenuti, in posizione capovolta a causa del naufragio, crateri, brocche, coppe e tazze per mescere e bere il vino, mentre il carico principale era il contenuto delle anfore, destinate prevalentemente al trasporto del vino e in secondo luogo dell’olio.

I prodotti provenivano da svariati luoghi della Grecia e dell’Italia meridionale: si trattava di “beni di lusso” molto richiesti anche dalle popolazioni che vivevano in Puglia durante l’Età arcaica, come i Messapi nel Salento.

 Di questo periodo fa parte probabilmente anche un altro carico proveniente dal Mediterraneo orientale (V-VI sec. d.C.). Le ricerche che si stanno sviluppando a Torre Santa Sabina saranno oggetto di approfondimento dal 3 al 5 giugno, tra Lecce e Porto Cesareo, nel corso dell’evento finale di UnderwaterMuse – Immersive Underwater Museum experience for a wider inclusion.

Fonte: meteoweb.eu

mercoledì 11 maggio 2022

L’oceano di fiori di Luoping in Cina


 La contea di Luoping si trova in Cina, precisamente, nella regione dello Yunnan, a sua volta nella prefettura di Qujing.

 Questa contea è nota per l’avvenente paesaggio che la caratterizza tutto l’anno, ma durante il periodo primaverile raggiunge un livello sontuoso di bellezza grazie ai campi coltivati di canola che raggiungono la loro massima fioritura.

La colza viene utilizzata per produrre olio e combustibile, ma anche miele; le parti inutilizzate della pianta, invece, vengono date in pasto agli animali domestici, così che venga efficientato tutto l’uso della pianta.

 La colza viene coltivata in molte parti della Cina, e data la vastità del territorio e le differenze climatiche fiorisce in momenti dell’anno differenti in base alla temperatura del luogo.

In primavera le valli appaiono come un oceano di fiori sino alla fine di giugno e la passione orientale per fiori fa si che molti turisti muniti di fotocamere si rechino dalla città di Kunming, nella regione celebre per i campi terrazzati dello Yuanyang, si spostino in autobus per 240 chilometri ad ovest, verso Luoping, per ammirare uno dei più grandi spettacoli floreali del mondo.


La stagione della fioritura diventa un momento impegnativo non solo per i contadini, ma anche per gli apicoltori che vivono letteralmente nei campi per sfruttare la raccolta del miele e venderlo in loco anche ai turisti. 

Al termine della raccolta dei fiori della canola, gli apicoltori raccolgono le arnie e le spostano in altre zone dove possono sfruttare altre fioriture.


Questo paradiso floreale è reso ancora più suggestivo dalle colline scure di origine carsica che spuntano dal terreno facendo di Luoping un luogo quasi ultraterreno.


Fonte: meteoweb.

Questo antico vaso romano non è un contenitore per oggetti, ma una vera e propria toilette portatile


 Sono tanti e finora si è sempre pensato fossero dei contenitori per oggetti, ma non è così. Alcuni vasi conici degli Antichi Romani erano toilette portatili. 

Lo ha dimostrato un gruppo di ricerca guidato dall’Università di Cambridge che ha trovato resti di parassiti intestinali sulla superficie interna di un vaso di ceramica risalente al V secolo trovato in una villa romana in Sicilia.

I ricercatori hanno usato la microscopia per identificare i parassiti intestinali,  in particolare uova di tricocefali, confermando che il vaso conteneva feci umane.

Tali organismi sono parassiti umani lunghi circa cinque centimetri e vivono sul rivestimento del nostro intestino.

 Le uova che depongono si mescolano con le feci umane e quindi vengono depositate in un vaso da notte durante l’uso.

 I minerali delle urine e delle feci si accumulavano a strati sulla superficie interna del vaso quando veniva usato ripetutamente, creando delle “aggregazioni”, che oggi sono state rilevate per la prima volta.

È stato incredibilmente emozionante trovare le uova di questi parassiti 1.500 anni dopo il loro deposito

commenta su questo Tianyi Wang, coautore della ricerca.

Sebbene, viste le sue misure (31,8 cm di altezza con un diametro di 34 cm al bordo), il vaso da notte poteva essere usato anche per sedersi, molto probabilmente era accompagnato da una sedia di vimini o di legno sotto la quale veniva posto il vaso stesso.


I vasi conici di questo tipo sono stati ampiamente riconosciuti nell’impero romano e in assenza di altre prove sono stati spesso chiamati vasi di stoccaggio – spiega Roger Wilson, coautore del lavoro –  La scoperta di molte latrine pubbliche aveva fatto pensare che potessero essere usati come vasi da notte, ma fino ad ora erano mancate le prove

Che ora ci sono, inequivocabili.

Abbiamo scoperto che le uova del parassita sono rimaste intrappolate all’interno degli strati di minerali che si sono formati sulla superficie del vaso – spiega Sophie Rabinow, altra coautrice – preservandole così per secoli

La ceramica è una delle forme più comuni di reperto archeologico recuperato dai siti romani.

 Questa tecnica fornisce quindi uno strumento fondamentale che consente ai ricercatori di identificare vasi con questo utilizzo, distinguendoli da quelli usati per la conservazione di cibo o altri materiali (sebbene siano stati documentati anche usi alternativi occasionali).

La tecnica funziona però solo se almeno una delle persone che hanno usato il vaso da notte è stata infettata da vermi intestinali.

 Laddove oggi questi parassiti sono endemici nei paesi in via di sviluppo, più della metà delle persone è infettata da almeno un tipo di parassita intestinale. Quindi, se anche i romani fossero comunemente infettati così, esiste un’alta probabilità che questo approccio identificherà la maggior parte di tali vasi come vasi da notte se i depositi incrostati vengono preservati.


E non è nemmeno un caso che questo vaso in particolare sia stato trovato proprio in quel sito.

Questo vaso proveniva dal complesso termale di una villa romana – spiega infatti Piers Mitchell, che ha condotto le analisi – Probabilmente coloro che visitavano le terme hanno usato questo vaso da notte quando avevano necessità, poiché le terme non avevano una propria latrina. Chiaramente, la comodità era importante per loro

In conclusione, la ricerca non è solo la scoperta di una curiosità, ma fornisce un metodo per l’identificazione di uova di parassiti intestinali nei vasi da notte, che a sua volta ha il potenziale per migliorare la comprensione dell’igiene, della dieta e della salute intestinale delle persone del passato.


Roberta De Carolis

venerdì 6 maggio 2022

Il Pozzo di Thor: in Oregon il buco al centro del mare creato dal martello divino


 Si trova sulle coste dell’Oregon, poco distante da Cape Perpetua, e si chiama Pozzo di Thor, ma è conosciuto negli Stati Uniti anche come “tubo di scarico del Pacifico” perché sembra poter risucchiare l’acqua fino al centro del pianeta.

 Si tratta di una formazione naturale molto particolare, una cavità che ha l’aspetto di un pozzo infinito collocato sulle coste del Pacifico.

Sebbene appaia come senza fondo, in realtà è comunicante con le acque del Pacifico e proprio per questo è particolarmente pericoloso, la sua profondità è di 6 metri e il suo diametro di soli 3 metri, ma durante le tempeste più forti che colpiscono la costa il mare viene risucchiato con grande forza verso le acque aperte e chi dovesse cadervi dentro si troverebbe in una trappola senza alcuna via di fuga.

Sono però proprio le giornate di cattivo tempo in cui imperversano i temporali che si presentano come i momenti più spettacolari per osservare il Pozzo di Thor, tuttavia, anche nelle giornate di calma apparente si può apprezzare il cambio repentino delle condizioni dell’acqua, che passano da apparente calma a furia “divina”, quasi come se il martello di Thor si abbattesse ripetutamente con tutta la sua forza in quel preciso luogo.


Questa formazione rocciosa deriva il suo nome dalla divinità norrena Thor, figlio di Odino e dio del fulmine, del tuono e della tempesta. Uno degli attributi di Thor era Mjöllnir, un martello potentissimo che secondo le leggende locali sarebbe stato scagliato in questo punto sino a creare la voragine che risucchia le acque marine al centro della Terra.

L’area del Cape Perpetua Marine Reserve and Marine Protected Areas è parte della riserva naturale della Siuslaw National Forest che si trova lungo la costa ovest degli Stati Uniti, qui solo di recente gli scienziati hanno compreso le dinamiche di questo fenomeno naturale.
Pare che il segreto della trascinante forza del Pozzo di Thor stia nella struttura del pozzo stesso: l’apertura che è oggetto delle fotografie dei turisti rappresenta l’ingresso superiore di una grotta, tuttavia, c’è un’altra cavità che si trova in fondo al pozzo e si presenta come perpendicolare allo stesso.

Con il subentrare della bassa marea, le onde si spostano avanti e indietro all’interno della grotta; nel momento in cui si alza la marea, invece, la caverna si riempie di un grande quantitativo di acque, sbattendo contro le rocce e andando a sviluppare un “effetto geyser”. Le onde che vengono spinte in alto e in seguito inghiottite quasi sino a sparire costituiscono proprio lo spettacolo che viene osservato dai visitatori.


Fonte: meteoweb.eu

Trova con il metal detector oltre 1200 monete romane dell’epoca di Costantino


 Nel Comune di Bubendorf, sito nel Canton Basilea Campagna, il 6 settembre del 2021 è stata fatta una scoperta archeologica incredibile e non programmata quando Daniel Lüdin, un appassionato del settore, stava esplorando con il suo metal detector un’antica area medievale fin quando il ripetitore ha emesso un suono insistente, indicando un punto preciso del suolo.

Quando Lüdin ha iniziato a scavare ha trovato sorpreso qualche antica moneta e dei cocci di ceramiche, ma non poteva immaginare che, al di là di questi reperti storici, più in profondità ci fosse dell’altro perché il suo metal detector aveva identificato un vaso contenente 1290 monete dell’Impero romano del IV secolo d.C..

L’appassionato di archeologia ha ben pensato di risotterrare quel patrimonio, consapevole sicuramente delle rigide norme svizzere sul ritrovamento di beni archeologici, e ha contattato l’ente Archäologie Baselland, i cui archeologi si sono recati a Bubendorf e hanno prelevato i reperti, esaminandoli fino a qualche giorno fa quando il silenzio stampa è stato rotto.

Le monete ritrovate da Lüdin sono fatte di una lega di rame ed una piccolissima quantità di argento e databili intorno al 332-335 d.C. poiché coniate durante il regno dell’imperatore Costantino il Grande che concesse ai suoi sudditi la libertà religiosa con la promulgazione dell’Editto di Milano, favorendo così la diffusione del Cristianesimo nell’Impero.


Ciò che però rimane tutt’ora un mistero è come mai queste monete siano state sotterrate visto che nel sito di Bubendorf non sono mai stati trovati tesori di questo tipo, sebbene l’area fosse nota per essere il confine tra i feudi imperiali.

Secondo gli archeologi dell’Archäologie Baselland le monete sarebbero state custodite da qualcuno che le avrebbe volute seppellire, cercando di nasconderle dagli invasori stranieri ed evitare che questi si impossessassero dei propri beni. Per altri invece nell’area in cui sono state ritrovate vi sarebbe potuto essere un tempio o un luogo sacro in cui le monete avrebbero forse svolto la funzione di offerta votiva alle divinità, ecco perché erano custodite in un vaso.

Fonte: Archäologie Baselland

mercoledì 4 maggio 2022

Aogashima: il villaggio dentro al vulcano


 Si trova in Giappone l’isola vulcanica di Aogashima, precisamente a 358 chilometri a sud di Tokyo (di cui fa parte), immersa nell’Oceano Pacifico e parte delle isole dell’arcipelago di Izu di cui costituisce l’isola più distante ma anche quella più interessante dal punto di vista geologico.

L’isola si è generata dai frammenti vulcanici di ben 4 caldere sottomarine e ha una superficie di circa 9 chilometri.

 La conformazione dell’isola vulcanica appare alquanto particolare poiché è composta da un cratere vulcanico che misura 1,5 chilometri, che costituisce la grande caldera che prende il nome di Ikenosawa e al suo interno ospita un secondo cratere più piccolo: il vulcano Maruyama alto appena 200 metri ma considerato ancora attivo.

 Dal punto di vista geologico rappresenta un insieme peculiare poiché è formata da rocce molto alte che si elevano dal mare lungo tutto il perimetro e sprofondano verso l’interno dando vita a un grande cono.

Si tratta di una meta non ancora inflazionata dal turismo, grazie alla sua posizione isolata, ma spostandosi per soli due giorni in questo luogo i visitatori possano esplorare l’isola in lungo e largo: immergersi nella natura, nelle attività all’aperto come quelle da praticare nel parco Ovamatenbo, e nelle escursioni lungo i sentieri segnati. 

C’è una strada che percorre tutto il perimetro del vulcano più grande fino a Otonbu, il punto più alto e panoramico, ma una delle migliori opzioni è rappresentata da un giro a bordo di elicottero che si prende sull’isola di Hachijojima e consente di ammirare in tutta la spettacolare natura vulcanica l’isola.


Una grande esplosione interessò l’isola nel 1785, quando fu abbandonata per circa mezzo secolo. 

Dopo l’inferno di fiamme e fuoco e gas che sterminò metà della popolazione sarebbe stato normale che venisse abbandonata per sempre; invece, con il tempo nuovi abitanti popolarono l’isola e oggi la vita scorre lenta ad Aogashima e lontana dal caos metropolitano.


Grazie al vulcano i residenti possono sfruttare le sorgenti di acqua calda naturale, ricavare energia geotermica sufficiente per l’autosostentamento e persino concedersi rilassanti saune a cielo aperto.

 La maggior parte degli abitanti pratica la pesca ma non mancano le attività commerciali e sull’isola è presente anche una distilleria di Shochu, un liquore molto simile alla vodka.

Oggi i residenti sono poco meno di 200 e il villaggio è dotato di tutto ciò che può servire ai suoi cittadini: una scuola, un negozio, un ufficio postale, due locali che offrono specialità del posto e la possibilità di cantare al karaoke; ma vi sono anche bed & breakfast e un campeggio gratuito per i turisti dotato persino di una sauna geotermica dove rilassarsi.

 All’esterno dello stesso le sorgenti geotermiche sono utilizzate anche per cuocere al vapore cibi semplici come uova e patate.


Il calore originato dal vulcano viene utilizzato per produrre il sale hingya, tipico dell’isola, ottenuto scaldando l’acqua di mare con il vapore dei soffioni boraciferi.

Fonte: meteoweb.eu