giovedì 31 marzo 2022

Alla scoperta delle Isole Baleari: una biodiversità unica tra parchi, spiagge e riserve naturali


 Il patrimonio naturale delle Isole Baleari è un esempio di coesistenza tra essere umano e natura, una meravigliosa opera d’arte naturale scolpita in un ambiente paesaggistico che si fonde con le tradizioni e le culture delle popolazioni locali.

 Spazi idilliaci come la Sierra de Tramontana, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, l’Albufera de es Grau a Minorca o la Posidonia nelle Pitïusas, tra le altre meraviglie, sono un esempio delle meraviglie naturali e paesaggistiche di cui si può godere nelle Isole Baleari.

Per queste ragioni, il governo delle Isole Baleari ha promosso una serie di iniziative con l’obiettivo di tutelare le bellezze naturali dell’arcipelago.

Nel 2011 l’UNESCO ha proclamato la splendida Sierra de Tramontana di Maiorca “Patrimonio dell’Umanità”. Si tratta di un’impressionante massiccio di oltre 90km, che forma la spina dorsale dell’isola da Nord a Sud. Lungo la Sierra si trovano due laghi – il Gord Blau ed il Cuber – e le splendide vette di Puig Major, Teix, Massenella e Tomir.

 Il paesaggio rurale è dominato da antichi terrazzamenti in pietra ed imponenti pareti rocciose, dove ulivi centenari, piegati dal vento, la fanno da padrone. 

Lungo la Sierra sono molti i luoghi che vale la pena visitare: piccoli paesi, villaggi e cittadine, che nascondono l’essenza della cultura e della storia di Maiorca. 


La Sierra è testimone dell’incontro tra la cultura Islamica e quella Occidentale: gli antichi sistemi di irrigazione infatti, che fanno delle terrazze della Sierra un panorama davvero unico, sono quelli portati dalla dominazione araba.

Anche Minorca offre ai visitatori meravigliose bellezze naturali. Tra queste, impossibile non citare l’Albufera de es Grau, il parco naturale più importante di Minorca con oltre 5.000 ettari ricchi di specie vegetali e con centinaia di animali fra uccelli acquatici (anatidi, aironi, cormorani) e rapaci (falco pescatore e aquila stivale). 


Nel 1993 Minorca è stata dichiarata “Riserva della Biosfera” dall’Unesco: l’Albufera de es Grau è uno dei punti chiave della Riserva, che ospita un parco naturale, cinque riserve naturali, una riserva marina e diciannove zone di ANEI-Aree Naturali di Speciale Interesse.

Ma il vero segreto del variegato ecosistema nelle Isole Baleari risiede in una pianta marina: la Posidonia Oceanica.



Questa pianta non è un’alga, ma ha fusto, radici e fiore ed è la protagonista principale dei fondali marini delle coste di Formentera, potendola incontrare fino a 30 o 40 metri di profondità. La sua forma ed estensione tingono di verde grandi zone della costa e favoriscono una ricca vita marina, sia vegetale che animale.

La Posidonia Oceanica non solo aiuta a riparare i fondali marini ed a proteggere le spiagge, prevenendo l’erosione del litorale sottomarino, ma il suo ruolo più importante è la grande capacità di generare ossigeno (essendo una vera e propria pianta). Non è un caso, quindi, che le praterie di Posidonia che si estendono tra le saline di Ibiza e Formentera siano state dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1999.

Una delle iniziative più importanti intraprese dal governo delle Isole Baleari per tutelare le bellezze naturali dell’arcipelago è il Decreto per la conservazione della Posidonia Oceanica.

 L’obiettivo del decreto sulla conservazione della Posidonia Oceanica, approvato nell’estate 2018, è quello di creare una normativa che renda le attività umane compatibili con la protezione di questa specie e del suo habitat, stabilendo un quadro giuridico omogeneo e regolando gli usi e le attività che possono influire su di essa.

La Posidonia Oceanica è una pianta marina a crescita molto lenta, endemica del Mar Mediterraneo, di straordinaria importanza biologica ed ecologica, che forma estese praterie intorno alle isole Baleari. Infatti, le Baleari sono la comunità autonoma con la più grande superficie di praterie di Posidonia oceanica in Spagna, precisamente il 50% del totale. Questa specie è la principale fonte di biodiversità marina nelle isole Baleari.

Al giorno d’oggi, lo sfruttamento delle acque principalmente legato all’attività umana – sia dal punto di vista degli impatti da terra (scarichi, costruzioni, ecc.), sia dalle attività in mare (pesca, navigazione, ecc.) – ha portato alla luce esempi di impatti che possono mettere in pericolo lo stato ottimale di conservazione della Posidonia. Così, una regolamentazione adattata alla realtà delle Baleari è necessaria per rendere l’esistenza delle attività umane compatibile con la protezione e la conservazione della specie e del suo habitat.

Fonte:meteoweb.eu

martedì 29 marzo 2022

Firenze: manca poco alla spettacolare fioritura del “tunnel” di glicini di Villa Bardini

 


Verso fine marzo il lungo pergolato di Villa Bardini, a Firenze, inizia a fiorire tingendosi delle sfumature del viola, lilla e rosa, finché tra aprile e maggio non esplode in tutta la sua bellezza. 

A renderlo così speciale sono i glicini, di ben 3 diverse varietà: Wisteria Floribonda, Showa Beni, Wisteria Prolific, tutte provenienti dalla collezione di un vivaista pistoiese.


La loro fioritura si ripete di anno in anno e rappresenta uno degli eventi più amati dai visitatori del famoso Giardino Bardini, situato nella villa. D’altronde lo spettacolo del pergolato in fiore, lungo ben 70 metri e largo 4,5, è davvero unico.

Passeggiare sotto il manto violaceo e ammirare, una volta giunti alla Loggia del Belvedere, la città di Firenze in tutta la sua magnificenza non ha paragoni. E fortunatamente, grazie a una webcam installata in loco, anche chi si trova altrove può ammirare a distanza questa meraviglia della natura.


Non solo glicini però, il Giardino Bardini include numerose collezioni botaniche: tra giugno e settembre le rose fioriscono rigogliose in varie aree, tra maggio e luglio è il momento delle ortensie, ve ne sono più di una sessantina di varietà proprio sotto al pergolato di glicini. Marzo è il mese della camelia mentre gli iris fioriscono al centro della scalinata dalla primavera all’autunno.

Laura De Rosa

giovedì 24 marzo 2022

L'ultima fatica di Michelangelo


 Michelangelo Buonarroti, grande protagonista del Rinascimento italiano, aveva 89 anni quando morì.

 Fino agli ultimi giorni, e nonostante le sue condizioni di salute non fossero buone, si dedicò alla Pietà Rondanini: iniziata a scolpire tra il 1552 ed il 1553, probabilmente per il suo sepolcro, venne ripresa tra il 1555 e il 1564, anno della sua scomparsa.

La Pietà Rondanini è chiamata così perché nel 1744, quasi due secoli dopo la morte di Michelangelo, fu acquistata dai marchesi Rondanini, che la collocarono nel palazzo di famiglia, a Roma. 

Ancora due secoli e, nel 1952, venne acquistata dal Comune di Milano: dopo varie peripezie relative alla sua collocazione, oggi si trova conservata al Castello Sforzesco, negli ambienti di quello che era l'Ospedale Spagnolo.

 È una scultura alta un metro e novantacinque, fatta di quel marmo che Michelangelo sceglieva accuratamente nelle Alpi Apuane, isolata nella sala in cui è esposta così da essere visibile da ogni punto di vista.


Rappresenta il tema della Pietà, ovvero l'atto di accoglimento, da parte di Maria, del corpo di Cristo, suo figlio, dopo la deposizione dalla Croce: vi è la fusione del corpo di Cristo nel corpo della Madre, come in un tentativo di farlo rivivere nell'attimo stesso della morte.

 La particolarità di questa scultura è che si tratta di un "non finito", cioè di un'opera levigata e lavorata solo in alcune parti, mentre altre sono lasciate in uno stato di abbozzo.

Il lavoro di Michelangelo si è interrotto nel momento in cui l'espressività, per lui, è risultata compiuta perfettamente nel blocco di pietra, come se non fosse più necessario scolpire il resto perché tutto era già leggibile perfettamente.


L'opera ebbe una vicenda travagliata e nell'arco di dodici anni venne ripresa più volte da Michelangelo. Della prima versione rimangono le gambe di Cristo, già rifinite, e il moncone del suo braccio destro, nettamente separato dalla figura.
 Il nuovo torso, con le braccia aderenti al corpo, risulta invece più arretrato perché Michelangelo lo ha "estratto" dal busto originario, che era della Madre.

Per Michelangelo, la scultura era l'arte del togliere per svelare ciò che nella materia è contenuto già di per sé.
 C'è chi afferma che l'opera sia rimasta così, incompiuta, a causa della scomparsa dell'artista, per altri essa è invece simbolo della libertà espressiva di Michelangelo e delle sue riflessioni spirituali, al di là di quelle che potevano essere le regole della bellezza classica.
Fonte: www.focus.it


venerdì 18 marzo 2022

Il cerchio perfetto del Ponte del diavolo di Rakotzbrücke

 


Sebbene in Europa esistano numerosissimi ponti del diavolo, quello di Rakotzbrücke è probabilmente il più conosciuto e fotografato. Si trova nel parco naturale di Kromlau, in Germania, precisamente in Sassonia nell’Azaleen und Rhododendronpark Kromlau (parco delle azalee e rododendri di Kromlau), un giardino inglese ricco di stagni e laghetti artificiali. 

Il periodo migliore per visitare questo parco è la stagione primaverile, quando la neve si scioglie e comincia la fioritura delle azalee e dei rododendri da cui prende il nome.
Il parco si trova a circa 120 chilometri da Dresda, sul confine con la Polonia e fu realizzato durante il XIX secolo da Friedrich Hermann Rotschke, cavaliere di Kromalu e grande amante della natura.

Il ponte fu costruito nel 1860 all’interno della grande riserva naturale che conserva numerose specie di flora e grande ricchezza arborea, durante la realizzazione del parco si rese necessaria l’edificazione di un collegamento fra i due lembi di terra, in modo da consentire il passaggio dei pedoni da una sponda all’altra del fiume Rakotzsee.
La forma che prese questo collegamento divenne uno dei ponti più suggestivi del mondo, un ponte di pietra che sembra uscire da una fiaba, formato da un arco che fa apparire un cerchio perfetto con il suo riflesso da qualunque angolo di osservazione lo si ammiri.


Sono numerosissimi i ponti del diavolo in Europa, la maggior parte di essi fu costruito in epoca medievale o nei secoli immediatamente successivi, tra il 1000 d.C. e il 1600 d.C. circa. Se ne contano centinaia, forse addirittura migliaia, in Francia sono circa 50 ma se ne trovano moltissimi anche in Italia, Slovenia, Germania, Svizzera, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Estonia, Romania e Bulgaria, per parlare solamente dell’Europa, e in paesi al di fuori del vecchio continente.

Così come avviene per il ponte Rakotzsee, la dicitura “ponte del diavolo” deriva dal fatto che queste costruzioni risultavano così ardite che le conoscenze del tempo li ritenevano impossibili da realizzare se non con l’aiuto del diavolo stesso; intorno a ciascuno di questi ponti solitamente si trovano legate delle leggende che amplificano il misticismo evocato dal nome.


Per la costruzione del Ponte del diavolo di Rakotzsee furono necessari ben 10 anni e questo alimentò le fantasie popolari che attribuirono ben presto al ponte significati simbolici e leggende. Questo ponte venne realizzato con la pietra locale, non presenta corrimano e alle sue estremità sono presenti guglie stilizzate di roccia sottili con colonne ottagonali in basalto dal forte impatto visivo.

La leggenda narra che l’architetto strinse un patto con il diavolo: in cambio della realizzazione di un ponte perfetto il maligno pretese l’anima della prima persona che lo avesse attraversato. L’astuto architetto, però, decise di gabbare il signore degli Inferi facendo attraversare per primo il ponte ad un cane.

Secondo altri miti legati al ponte di Rakotzsee pare che esso costituisca un varco verso un’altra dimensione; altre leggende raccontano che se attraversato nelle notti di luna piena il ponte sia in grado di svelare le abilità nascoste in ognuno di noi.
Infine, alcuni sostengono che osservandolo da una speciale angolatura, lo stesso riveli il volto del Diavolo in persona.

Tutte queste storie moltiplicano il misticismo e l’attrattiva di quest’opera architettonica, ma anche coloro che non si fanno sedurre dal soprannaturale non possono che rimanere stupefatti dal fascino straordinario di questo ponte.

Fonte: meteoweb.eu


domenica 13 marzo 2022

Scoperto in Antartide, il relitto della Endurance, la nave di Shackleton

 


E’ stata finalmente localizzata dai droni sottomarini la barca dell’esploratore Ernest Shackleton, dopo 107 anni. Il 44 metri in legno, stritolato dai ghiacci e affondato nel 1915, giace sul fondo del mare di Weddell, a est dell’Antartide, a 3.008 metri di profondità. Il merito del ritrovamento va alla missione Endurance22 partita da Città del Capo, sulla rompighiaccio Agulhas II, capitanata dal dottor John Shears.

Localizzato il relitto, gli studiosi ora effettueranno foto e una mappatura della zona, ma non toccheranno in alcun modo la nave poiché nel Trattato Antartico (che regolamenta l’utilizzo delle porzioni disabitate dell’Antartide), il relitto dell’Endurance è stato definito un monumento e va protetto.

Perché è un monumento? Perché il tre alberi Endurance è il simbolo di quella che è considerata la più grande impresa nella storia della marineria.


Qualche tempo fa una rivista statunitense ha chiesto ai suoi lettori chi fosse, secondo loro, il più grande navigatore di tutti i tempi.

 Forse vi aspettereste nomi del calibro di Joshua Slocum, Tabarly o al limite, se siete nostalgici, Cristoforo Colombo. E invece no. Per gli americani, il più grande è un esploratore, che si è rivelato, nel momento di vera difficoltà, anche un eccellente navigatore.

Stiamo parlando di Ernest Shackleton.

 Tre volte, invano, ha sfidato il Polo Sud. La sua nave è stata stritolata dai ghiacci. Lui non si è mai arreso: navigando per ottocento miglia su una scialuppa di sette metri in Antartide, ha salvato tutti i 27 membri del suo equipaggio. 

Scopriamo chi è il più grande esploratore di tutti i tempi.


“Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton”.

 A pronunciare queste parole fu Raymond Priestley, geologo, geografo ed esploratore britannico, anche presidente della Royal Geographical Society. Esagerato? Per niente. Ernest Shackleton è, ancora oggi, l’emblema dell’uomo capace di portare a termine l’impossibile.

Nato nel 1874 a Kilkea House, in Irlanda, Ernest Henry Shackleton a sedici anni si arruola su una nave della marina mercantile britannica, fuggendo dagli studi medici ai quali lo aveva indirizzato il padre

Dieci anni di viaggi tra l’Oceano Pacifico e l’Indiano fanno maturare in lui la convinzione che la marina mercantile non sia adeguata a soddisfare le sue ambizioni. La voglia di raggiungere fama e ricchezza lo spingono quindi a intraprendere la carriera di esploratore e per iniziare si aggrega alla spedizione antartica organizzata dalla Royal Geographical Society e guidata da Robert Falcon Scott, un altro mostro sacro dell’esplorazione dei poli.

L’obiettivo della spedizione è quello di raggiungere per primi il Polo Sud. 

Scott e Shackleton arrivano a circa 480 miglia dal Polo Sud prima di doversi arrendere. 

Si crea, tra i due, una frattura, secondo alcuni causata dalla sempre crescente popolarità di Ernest tra i membri della spedizione, e alla base della decisione di Scott di rimandare il collega in Inghilterra adducendo cause di salute.

 Passano quattro anni prima che Shackleton possa tornare al Polo Sud, questa volta a capo di una sua spedizione. 

A bordo del tre alberi Nimrod e grazie all’aiuto finanziario del governo australiano e e di quello neozelandese, nella primavera del 1907 raggiunge l’Isola di Ross, dove allestisce il campo base (ancora oggi visibile).

Ufficialmente la spedizione si trova lì per analizzare la mineralogia dell’Antartide, ma il vero motivo è sempre lo stesso: arrivare per primi al Polo Sud. 

Shackleton si sente forte e preparato, grazie soprattutto all’esperienza acquisita nella spedizione precedente. Ma i preparativi si rivelano ancora una volta insufficienti. 

I membri della spedizione erano marinai e non esperti sciatori. La decisione di utilizzare i pony della manciuria è controproducente, tanto che devono essere progressivamente abbattuti. 

Nonostante tutto questo, i membri della spedizione riescono ad arrivare a soli 180 chilometri dal polo sud.

 Qui, Shackleton dimostra un grande spirito critico e una notevole capacità di valutare la situazione: anche se il traguardo è ormai a un passo, si rende conto che, avanzando ancora, il ritorno sarebbe impossibile. 

Decide di quindi di fare rientro al campo base. A chi gli ha chiesto il perché di quella decisione, ha sempre risposto: “Meglio un asino vivo che un leone morto”.




Per tre anni comunque Shackleton detiene il primato di avvicinamento al Polo Sud, che gli viene strappato quando prima Roald Amundsen e poi Scott lo raggiungono. 

Rimane un’unica conquista di prestigio: la traversata del continente antartico. è il 1° agosto 1914, alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando la tre alberi Endurance parte con a bordo ventotto uomini. 

Varata in Norvegia dai cantieri navali Framnaes Schipyard, si tratta di un veliero lungo 44 metri, dotato anche di un motore a singola elica sviluppante una potenza di circa 350 cavalli, che le consente una velocità media di 10 nodi, progettato espressamente per le esplorazioni artiche.


Ma le condizioni della banchisa sono proibitive e particolarmente estese: il 19 gennaio l’Endurance rimane incastrata nel pack.

 “La nostra posizione al mattino del 19 era lat. 76°34’S, long. 31°30’O. Il tempo era buono, ma era impossibile avanzare. Durante la notte il ghiaccio aveva circondato la nave e dal ponte non era possibile vedere mare libero”, scrive Shackleton nel suo diario di bordo.

Gli uomini trascorrono il lungo inverno australe a bordo della nave, ma il 27 ottobre l’Endurance viene abbandonata e un mese dopo è completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio.

 Shackleton trasferisce l’equipaggio sulla banchisa in un accampamento d’emergenza chiamato “Ocean Camp” dove rimangono fino al 29 dicembre, quando si spostano, trasportando al traino tre scialuppe di salvataggio, su un lastrone di banchisa che chiamano “Patience (pazienza, in inglese) Camp”. Mai nome fu più azzeccato.

L’equipaggio è costretto ad attendere mesi prima di potersi muovere di nuovo

Nell’aprile 1916 gli uomini, notato che il ghiaccio inizia a frantumarsi, salgono a bordo delle scialuppe. Shackleton ha già in mente dove dirigere il gruppo. 

La destinazione migliore sarebbe l’Isola Desolation, circa 160 miglia a ovest. Le altre possibili destinazioni sono due isole più vicine, Elephant e Clarence. 

Una volta salpati, i membri dell’equipaggio si ritrovano costantemente bagnati e impossibilitati ad accendere il fuoco per scaldarsi o per sciogliere il ghiaccio (fondamentale per dissetarsi). Shackleton capisce di non avere altra scelta, deve raggiungere al più presto la terraferma: dopo sette giorni di navigazione tutte e tre le scialuppe arrivano all’isola Elephant, la cui superficie è quasi completamente ricoperta di neve e ghiaccio e battuta senza sosta da forti venti. Se già di per sé la capacità di Shackleton di mantenere in vita l’equipaggio fino a questo momento è stata notevole, è proprio ora che la spedizione entra nel mito.


Shackleton capisce infatti che è fondamentale ripartire in fretta, destinazione la Georgia del Sud, base di una flotta di baleniere. 

Una decisione che a prima vista appare folle: si tratta di affrontare più di 800 miglia in uno degli oceani più pericolosi del mondo a bordo della James Caird, una delle scialuppe lunghe sette metri salvate dalla distruzione dell’Endurance. 

Per preparare la barca viene rialzato il bordo libero, rinforzata la chiglia e costruito uno ponte improvvisato in legno e tessuto intriso d’olio e sangue di foca per renderlo impermeabile.

 Per stabilire la rotta, l’equipaggio ha a disposizione solo un cronometro e un sestante. Date le scarse speranze di successo, Shackleton decide di caricare viveri per solo quattro settimane: se non avrà raggiunto la destinazione entro quel lasso di tempo, probabilmente significherà che sono affondati e, peggio, persi nei mari australi.

E’ il 24 aprile 1916 quando Shackleton e i cinque uomini di equipaggio da lui scelti, lasciano l’isola Elephant. 

Affrontando onde gigantesche e raffiche di vento valutate intorno ai 100 km/h, dopo quindici giorni di navigazione giungono in vista della Georgia del Sud. 

Una tempesta li costringe a lottare nove ore per potersi avvicinare a terra ma, finalmente, il 10 maggio sbarcano. Le stazioni baleniere si trovano però sul versante opposto dell’isola. Di circumnavigarla non se ne parla, a causa dei venti dominanti e della costa rocciosa e piena di insidie. Anche l’entroterra non scherza però: l’area non è mai stata esplorata ed è composta da montagne ghiacciate.

Shackleton, insieme a due membri dell’equipaggio, trasforma le scarpe in ramponi infilando dei chiodi nelle suole e senza altro equipaggiamento percorre, in sole 36 ore, gli oltre trenta chilometri che separano il loro punto di atterraggio dalla base di Stromness.

 Qui viene accolto dagli increduli balenieri, che forse pensano di avere davanti a loro dei fantasmi… Organizzare i soccorsi per i ventidue uomini di equipaggio rimasti sull’Isola di Elephant non è per niente facile: il Regno Unito è impegnato nella Prima Guerra Mondiale e Shackleton capisce che non arriverà alcun aiuto dalla patria.

 Cerca dunque un appoggio in Sud America. Il 30 agosto, quattro mesi dopo la partenza dall’Isola di Elephant, l’esploratore irlandese riesce a raggiungere tutti i ventidue naufraghi a bordo di una nave militare cilena.

A portare di diritto Shackleton nell’Olimpo degli esploratori non è solo l’incredibile traversata a vela sulla James Caird, ma il fatto che, nonostante le incredibili traversie, non perde nessun membro della spedizione. 

Non pago delle sue esperienze, Shackleton salpa per l’Antartide, ancora una volta, nel 1921 a bordo della nave Quest.

 Ormai è un mito e il giorno della partenza da Londra viene salutato da una folla festante. Ma nel porto di Grytvyken, nella Georgia del Sud (chiamatelo destino), ha un attacco cardiaco e muore.

 Mentre il suo corpo era in viaggio per l’Inghilterra, la moglie dà disposizioni affinché venga sepolto proprio nel cimitero di Grytvyken. La sua vera casa.

Fonte: giornaledellavela



domenica 6 marzo 2022

La fontana dei Dioscuri


 Quando il visitatore arriva in piazza del Quirinale, la meta più probabile è probabilmente quella delle eleganti Scuderie, scelte spesso come scenario d’eccezione per mostre e rappresentazioni di grande richiamo.

 Un turista può anche essere interessato a fotografare la residenza del nostro Presidente della Repubblica, il Palazzo sul quale garrisce al vento il nostro tricolore, appeso al pennone più importante della capitale. Al centro della piazza (un tempo chiamata piazza di Monte Cavallo), che separa via del Quirinale da via XXIV maggio, svettano una coppia di possenti statue ed un grandioso obelisco egizio

L’abilità architettonica che ha prodotto questo maestoso gruppo scultoreo, unita alla componente di ingegno idraulico da cui scaturisce l’alimentazione idrica della magnifica vasca granitica sottostante, formano la Fontana cosiddetta dei Dioscuri.



Ma chi sono i Dioscuri, le maestose figure che svettano davanti al Palazzo del Quirinale? Si tratta dei figli del dio Zeus, Castore e Polluce, venerati dai romani in quanto protettori della città. Le statue originarie, di cui quelle posizionate sulla Fontana rappresentano una pregevole copia, sono state attribuite al grande scultore greco Fidia.

La storia della Fontana risale alla fine del XVI secolo. 

Durante i cinque anni di pontificato tra il 1585 ed il 1590, Papa Sisto V Felice Peretti (da cui prese il nome l’omonimo acquedotto, precedentemente noto come Alessandrino) diede incarico (1588) all’architetto Domenico Fontana di trasferire le due grandi statue dei Dioscuri (alte oltre cinque metri) nell’atto di frenare i rispettivi cavalli, spostandole nella posizione odierna dalle attigue Terme di Costantino (situate all’inizio della attuale via Nazionale). 

Dopo averlo fatto restaurare, Fontana posizionò il gruppo all’inizio della Strada Pialunghissima via che si snodava lungo le attuali via del Quirinale e via XX Settembre fino alla attuale Porta Pia, e rivolgendo i Dioscuri verso il Palazzo del Quirinale, a quei tempi residenza estiva dei pontefici. In tal modo, la prospettiva dell’intera struttura scultorea era ben visibile dal quadrivio in corrispondenza di via delle Quattro Fontane. 

Il gruppo fu collocato su un piedistallo, ai piedi del quale era posizionata la fontana, formata da una vasca a quattro lobi con una balaustra centrale che sorreggeva un catino dal quale l’acqua precipitava verso la conca sottostante. L’acqua defluiva poi da protomi leonine che ornavano, insieme a stemmi del casato sistino, i lati della vasca, alternati di forma rettilinea e concava.

Non ebbero poi seguito i due progetti ideati rispettivamente da Alessandro VII (seconda metà del XVII secolo), che aveva pensato di spostare la fontana in piazza S.S. Apostoli, e da Clemente XI (prima metà del XVIII secolo), che voleva sostituire l’intero gruppo con la Colonna Antonina, ritrovata da poco in piazza Montecitorio.

La sistemazione presente è opera di Pio VI Braschi (Papa tra il 1775 ed il 1799), che nel 1782 incaricò l’architetto Giovanni Antinori di aggiungere al centro della piazza il grande obelisco egizio in granito rosso (circa 29 metri di altezza) che originariamente si trovava, insieme a quello attualmente eretto in piazza dell’Esquilino (alle spalle della Basilica di Santa Maria Maggiore), a Campo Marzio in piazza Augusto Imperatore, sui lati del Mausoleo.

 I lavori dell’Antinori, che compresero anche il posizionamento dei Dioscuri ad angolo retto tra loro, durarono diversi anni (fino al 1786), tanto da fargli meritare il soprannome “non tirai” (anagramma del cognome), affibbiatogli dalla proverbiale sagacia dei romani, che commentarono inoltre “un asino non poteva spostare un cavallo”.

Successivamente ancora un pontefice, Pio VII Chiaramonti (1800-1823) commissionò (1818) all’architetto Raffaele Stern la sostituzione della precedente fontana con una grande vasca granitica di forma circolare dell’epoca romana, riscoperta nel 1587 durante i lavori dell’acquedotto Felice nei pressi del Foro Romano (anticamente noto come Campo Vaccino).

 In precedenza, su commissione di Papa Sisto V, la vasca era stata impiegata (1593) da Giacomo della Porta come abbeveratoio per animali nella Fontana del Mascherone nel Foro Boario, così chiamata per la scultura a forma di maschera da cui fuoriusciva l’acqua.


In realtà Stern completò un lavoro avviato precedentemente da Pio VI, che aveva disposto il trasferimento della vasca da Campo Vaccino. Ma durante lo spostamento le truppe napoleoniche avevano invaso Roma (era il 15 febbraio 1798) ed il gruppo dei Dioscuri era rimasto senza fontana fino alla sconfitta di Waterloo nel 1815, che aveva decretato di fatto il termine dell’occupazione francese

Solo allora, fu possibile a Stern riprendere e completare i lavori di trasferimento conferendo alla fontana la conformazione definitiva.


Ed è quest’ultima l’opera che ammiriamo oggi al centro di Piazza del Quirinale, proprio davanti alle finestre della residenza del Presidente della Repubblica Italiana. 

Fonte: www.ezrome.it

sabato 5 marzo 2022

Lo schiaffo di Anagni


 Benché nell'iconografia dell'epoca (siamo nel 1303) e in molti dipinti di epoca successiva l'episodio noto come "lo schiaffo di Anagni" fosse rappresentato proprio come uno schiaffo, dato a Papa Bonifacio VIII forse da Giacomo Colonna - dei Colonna, potente famiglia patrizia di Roma - o forse da uno dei cavalieri che lo avevano accompagnato nella presa del palazzo papale di Anagni e nel sequestro del Papa, più che di uno schiaffo vero e proprio probabilmente si trattò di un oltraggio morale, come molti in effetti lo definiscono.


Giurista, fondatore dell'Università La Sapienza di Roma e organizzatore del primo Giubileo, nel 1300. Ma anche arrogante, egocentrico, avido di soldi e potere: Bonifacio VIII fu un personaggio controverso.

 Dante Alighieri, che per i maneggi pontifici fu costretto all'esilio, gli riservò un posto nell'inferno ancor prima che fosse morto, mentre Jacopone da Todi lo apostrofò come "novello anticristo", pagando la sua audacia con la scomunica e il carcere.

 Le leggende popolari sul suo conto si sprecavano: c'era chi diceva fosse superstizioso, chi raccontava che il suo anello emanasse "un'ombra talvolta luccicante, talvolta no" e assumesse forme nuove, umane e animalesche. Di certo Bonifacio fu l'ultimo a concepire il pontefice come massima autorità spirituale e politica della cristianità, superiore a qualsiasi sovrano.

Nato ad Anagni intorno al 1230, Benedetto Caetani ebbe una rapida carriera ecclesiastica, conclusasi con la sua elezione a pontefice 4 giorni dopo l'abdicazione di Celestino V, che finì subito nelle sue grinfie: Bonifacio lo fece arrestare, temendo che i cardinali francesi a lui ostili potessero nominarlo antipapa.

 Da allora continuò a immischiarsi nelle vicende politiche francesi, fiorentine, spagnole, senza peraltro nessun'altra intenzione che giovare a se stesso. 

Odiato al di fuori dello Stato pontificio, Bonifacio non era amato neanche all'interno della Santa Sede: colpiti dal suo atteggiamento arrogante e accentratore, alcuni membri della Curia e dell'aristocrazia romana capeggiati dai cardinali Pietro e Giacomo Colonna gli si rivoltarono contro. Sostenevano che la sua elezione fosse illegittima e per questo nel 1297 lo dichiararono decaduto.

La vendetta del papa fu terribile: scomunicò i due cardinali, confiscò i loro beni e nel 1299 fece radere al suolo Palestrina, roccaforte dei Colonna, "perché non vi resti nulla, nemmeno la qualifica o il nome di città".

 I Colonna, che si rifugiarono in Francia, ebbero però la loro rivincita: aiutati dal re Filippo IV il Bello, che non accettò mai la sottomissione al papa, riuscirono a mettere il pontefice sotto processo, a giugno del 1303, per destituirlo.


I primi di settembre gli eventi precipitarono: Giacomo Sciarra Colonna e il consigliere di Stato francese, aiutati dalla borghesia di Anagni e da molti cardinali, assaltarono il palazzo pontificio, catturarono il papa e lo tennero prigioniero.

 Non risparmiarono le ingiurie, secondo alcuni persino fisiche: per questo l'episodio passò alla Storia come lo schiaffo di Anagni. Bonifacio si salvò solo grazie all'intervento dei suoi concittadini: fiaccato nel corpo e nello spirito, rientrò a Roma il 25 settembre e qui morì poco più di due settimane dopo.

Fonte: focus.it