giovedì 4 novembre 2021

Camille Claudel: biografia di una scultrice dimenticata


 “Tenetevela, vi prego! Ha tutti i vizi e non voglio rivederla!”. Con queste poche parole , scritte nel 1913 al Direttore del manicomio di Ville-Evrard, la signora Louise Cervaux, fresca vedova Claudel, di fatto condannò la figlia Camille a trascorrere gli ultimi 30 anni della sua esistenza in stato di reclusione forzata, resa ancora più triste dall’oblio che, poco a poco, sarebbe disceso su di lei.

Dimenticata da tutti, infatti, non avrebbe mai più rivisto la mamma e la sorella, mentre il solo fratello Paul, nell’arco di tre decadi, le avrebbe fatto visita una decina di volte, senza però trovare il tempo di recarsi al suo funerale.

Camille morì il 19 ottobre del 1943 praticamente di fame perché nella Francia di quei tempi, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, se già il cibo scarseggiava per i “sani di mente”, figuriamoci se si trovava per i “fous”, i pazzi. La sua bara, accompagnata solo da due persone di servizio, fu così inumata in una tomba anonima, sormontata da una croce con un numero, e dopo pochi anni i suoi resti sarebbero stati trasferiti in un ossario comune.

Questa fu la miserevole fine di una donna davvero straordinaria (aggettivo qui da intendersi nel senso etimologico di “fuori dal comune”) che secondo la descrizione fatta dal fratello “aveva una bellezza, un’energia, un’immaginazione ed una volontà eccezionali”.

Camille Claudel era nata nel 1862 in uno sperduto villaggio della Champagne, dove il padre Louis lavorava come funzionario comunale, mentre la madre si occupava di mandare avanti il ménage familiare e di crescere i tre figli all’insegna dei valori di famiglia: lavoro, parsimonia, economia, fatica e senso del dovere.

In questo quadro, ben poco tempo restava per le dimostrazioni d’affetto, specie da parte materna. Suo padre comunque riuscì a cogliere e valorizzare l’incredibile inclinazione naturale che Camille dimostrò di possedere fin da bambina per la scultura.

Tutto ciò che vedeva, leggeva ed immaginava la spingeva a modellare quelle che, in principio, erano semplici statuine in argilla. Così, lo scultore Alfred Boucher, richiesto di un parere dal signor Claudel, comprese subito il genio che animava quella ragazzina e gli consigliò di farla “monter vers la Capitale”, perché soltanto a Parigi, a quei tempi fulcro della vita artistica e culturale non soltanto francese, ma anche di tutta Europa, avrebbe potuto studiare e diventare una vera artista.

Ecco dunque che nel 1881 tutta la famiglia si trasferì nella Ville Lumiere, dove Camille iniziò a seguire lezioni di modellato presso l’atelier dello stesso Boucher e poi, quando dopo due anni quest’ultimo se ne andò in Italia, nello studio di Auguste Rodin, scultore che allora si era già creato una notevole fama.


Di 22 anni più vecchio di lei, brutto, tarchiato e legato con una donna che gli aveva regalato un figlio, ma con la quale non aveva voluto sposarsi, Rodin fu presto sconvolto dalla bellezza, dal talento e dal temperamento focoso della sua nuova allieva, che in poco tempo diventò la sua più stretta collaboratrice, la musa, la modella preferita e l’amante.

Per i successivi dieci anni i due lavorarono a quattro mani in una sorta di fusione artistica, professionale ed amorosa.

 A partire dal 1893 però Camille iniziò a prendere le distanze dal suo maestro, perché esasperata dalle critiche che non smettevano di accostare i suoi lavori a quelli di lui: voleva ormai rimarcare la propria autonomia e l’ormai raggiunta maturità artistica.

Quel brusco allontanamento le permise di assicurarsi le prime commesse lavorative in “solitaria” e le consentì di esporre le proprie opere ad importanti Esposizioni nazionali ed internazionali. “Le Dieu envole’”, “la Petite Chatelaine”, “la Valse”, “Contemplation”, “le Premier Pas”, “Clotho” e soprattutto “l’Age Mur” sono solo alcune delle bellissime opere in marmo o bronzo realizzate da Camille in quegli anni di febbrile lavoro, presto però guastati dalle ossessioni di cui iniziò a soffrire.





L’amore che aveva provato per Rodin si trasformò infatti in profondo risentimento nei suoi confronti e, sospettando che quest’ultimo volesse impossessarsi delle sue opere, ne distrusse alcune inscenando una specie di “esecuzione” e finì per isolarsi nel proprio studio, vivendo nel disordine e nella sporcizia.

Così, nel marzo del 1913, ad una settimana esatta dal decesso di suo padre (l’unica persona che gli mandava ancora degli aiuti, seppure di nascosto), il resto della famiglia decise di chiederne l’interdizione, ordinando il suo ricovero in quel manicomio da cui, nonostante tutte le sue suppliche, non sarebbe più 

Fonte: trentaminuti.it

Il porcellino portafortuna di Firenze


 E’ vero, tutti lo chiamano “porcellino” ma raffigura in realtà un bellissimo esemplare di cinghiale che è divenuto uno dei simboli della città e conosciuto in tutto il mondo.

La statua del Porcellino fu realizzata da Pietro Tacca intorno al 1633. Venne commissionata dal granduca Cosimo II de’ Medici che considerava il cinghiale un emblema di coraggio. 
Pietro Tacca, scultore molto attivo a Firenze, già allievo del Giambologna, realizzò la riproduzione in bronzo di un cinghiale marmoreo del I° sec. d.C. Esso stesso era una copia di un bronzo ellenistico di proprietà della Galleria degli Uffizi.
Quella che attualmente si trova alle “Logge del Porcellino” non è l’originale, ma una copia.
L’originale della fontana è oggi esposta, dopo il restauro del 1999, al Museo Bardini.
In origine questa statua non era una fontana, fu trasformata in seguito dal nuovo granduca Ferdinando II de' Medici.
In principio la fontana era collocata sul lato delle logge in Via Por Santa Maria, spostata poi nell’attuale collocazione per liberare la viabilità.
Alla vista del “Porcellino” tutti si fanno catturare dal suo grugno lucente e spesso tralasciano le particolarità che si celano nel basamento. Un tripudio di vegetazione di palude e degli acquitrini si svela nella sua perfezione, rane, rospi, serpenti d’acqua contornano la base della fontana. La base fu sostituita da una copia di Giovanni Benelli nel 1856, aveva subito un forte deterioramento e avendo come modello un originale malridotto e liso dal tempo, il Benelli, a suo ingegno, lo arricchì di particolari di sua manifattura.

Toccare il naso del porcellino è un rito portafortuna, così come far scivolare una moneta verso il basso, dalla lingua della bocca del “porcellino”, in modo che cada direttamente nella grata sottostante. Se l’operazione riesce il desiderio espresso si avvererà.


Lo scrittore danese Hans Christian Andersen nel corso della propria vita soggiornò più volte a Firenze. Famosa la sua frase “Firenze è un’intero libro illustrato”.
Proprio a Firenze il grande novelliere, scrisse una piccola fiaba, “Il porcellino di bronzo”, ispirandosi alla statua bronzea di Pietro Tacca posta ai piedi delle logge del Mercato Nuovo di Firenze. Protagonista un bambino fiorentino poverissimo e orfano. La novella non ha mai destato molto scalpore e non è famosa come altre novelle dello stesso autore. Una targa lo ricorda proprio sopra il bronzo tanto amato dai turisti e dai fiorentini più veri.
Fonte: firenzecuriosita